Parigi val bene un best seller
di Chiara Valerio
Allo stesso modo, molti scrittori non si mettono al lavoro con l’idea di scrivere un semplice libro, ma direttamente un best seller. Questo ha comportato una piccola rivoluzione copernicana: da categoria di mercato il best seller è diventato un vero e proprio genere letterario. Come scrivere un best seller in 57 giorni di Luca Ricci (Laterza Contromano, 2009) è un manuale di sopravvivenza al mondo letterario italiano. Anche se è ambientato a Parigi. Non saprei come altro definirlo. Forse un anestetico allo snobismo o una sacca di apnea nei fumi del sistema culturale. Forse un pamphlet fintamente non polemico sulla critica letteraria. Forse ancora un trattato di entomologia su come, se un impiegato può trasformarsi in uno scarafaggio, quattro scarafaggi possono trasformarsi in uno scrittore. Il viceversa rimane tuttavia un problema aperto. Se uno scrittore, calpestando il suo ego, negando la sua ossessione di essere uguale a se stesso o simile a un altro scrittore (sempre morto), saltando a piè pari l’imbarazzo di porsi domande non retoriche, e ammesso che ci riesca, decidesse di trasformarsi… quanti scarafaggi ci vorrebbero?
Fuori di metafora Come scrivere un best seller in 57 giorni è davvero un romanzo su quattro scarafaggi, che si chiamano come gli scarafaggi di Liverpool. Paul, George, John e Ringo condividono l’appartamento, una soffitta parigina, con Briac. Briac fa lo scrittore e sta per essere sfrattato, perché non ha un soldo bucato. Briac per mantenersi un tetto sulla testa dovrebbe scrivere un libro e un libro che fosse un best seller, ma non vuole. Briac non vuole scrivere un libro, vuole scrivere un capolavoro. Prima o poi. E quindi pensa. E se pensa non scrive. E se non scrive né lui né Paul, George, John e Ringo avranno più di che stare al caldo. Solo che Briac è troppo impegnato per preoccuparsene. Anzi no, una volta compra una sequela di grattaevinci e tenta la fortuna. Paul, George e Ringo mi guardarono con terrore. Non capivo se a spaventarli fosse l’idea di morire o la prospettiva di diventare scrittori.
Già. Gli scarafaggi spavaldi decidono di mettersi a scrivere un best seller. Ovviamente gli scarafaggi non sanno che cos’è un best seller ma giacché per loro la scrittura è una attività fisica molto simile alle ripetizioni di saltelli dalle quali tutti siamo stati vessati nella nostra vita scolastica, cercano di capirlo presto. Gli scarafaggi si interrogano sul gusto degli altri, su come la letteratura non sia un autismo ma cerchi eco, su come il mercato sia in fondo democratico, su come la democrazia non sia in fondo un parametro letterario, su come scrivere un libro non sia tanto un atteggiamento mentale ma abbia a che fare sempre, sia in una letteratura nicchia che in una mainstream, con l’intreccio delle parole, le esitazioni dei personaggi, con la diversità apparente tra i libri e la televisione e tra i libri e la vita. E tra la vita e la televisione. (…) c’era lo scrittore che non aveva letto neanche i suoi libri; (…) c’era lo scrittore molto loquace in pubblico ma che continuava a fare scena muta davanti alla pagina bianca; c’era lo scrittore che era un abilissimo traduttore, opinionista, presentatore e che quindi aveva sbagliato mestiere; (…) c’era lo scrittore che mandava ai critici più libri di quanti riuscisse a vendere; (…) c’era lo scrittore che nonostante parlasse male dei talk show ancora non era stato invitato a un talk show…
Già. Io voglio essere uno scarafaggio di Ricci. Perché il punto è come è possibile che uno scrittore italiano, sostanzialmente trentenne, che può scrivere ispessimento dei sentimenti senza essere niente altro che uno scrittore, abbia deciso di tenere una laica equidistanza tra scrittura e successo letterario, senza incancrenirsi sulla distanza tra la scrivania ispirata e la bancarella, senza pensare che lo snobismo sia l’ultima cosmesi dell’intellettuale perfetto, o che la paratassi sia la prima chiave per entrare nell’immaginario narrativo del popolo. E quindi vendere. Senza chiedersi soprattutto chi sono gli intellettuali, chi il popolo e se c’è differenza. Il punto è quando è successo che dalle definizioni di epica ed estetica e poetica, nuove e vecchie, cannibalismo o neoavanguardie, grandguignol o neoromantiche, e il resto, uno scrittore italiano, abbia deciso che avere sostanzialmente trentanni significasse basta ideologie, basta categorie, si cambia, si leggono i libri e se voglio tenere in libreria Patricia Cornwell vicino a Winfred Sebald, fregandomene dell’ordine alfabetico, della legge morale dentro di me e del cielo stellato sopra di me, lo faccio e basta. E li ripone appaiati. Preistoria della morte del codice letterario. I libri che non accettano il cambiamento non trovano più lettori. I libri che lo accettano, cercando disperatamente un travestimento, possono ancora trovarne qualcuno… Trentenne è un aggettivo neutro. È un tempo, una comunanza anagrafica, lo specifico perché in un paese di veline e calciatori, trentanni possono sembrare la morte civile.
Luca Ricci ha costruito un apparato narrativo divertente, irriverente e scaleno, con tante penne e registri e toni e sfumature diverse per dimostrare, con a modest proposal, che l’autore non è importante. Che se quattro scarafaggi hanno scritto un libro che è un best seller non importa andare a vedere da dove viene e perché o da chi. Ricci, che di libri pure deve averne letti, e autori pure deve averne amati, racconta che i libri, senza aggettivazioni o categorie, devono essere belli e orfani. E io sono d’accordo. Ma forse vivere in una democrazia comporta che conducente e passeggero abbiano lo stesso punto di vista. E anche scrittore e lettore.
A latere
1. Non so se a Luca Ricci piaccia Patricia Cornwell. A me sì. Quando penso che la sua letteratura l’ha trasformata da una impiegata dell’ufficio del coroner in Kay Scarpetta, nel più grande anatomopatologo forense del mondo, io mi emoziono. Perché la letteratura trasforma la vita. È uno specchio deformante. Io mi emoziono. Io sono Kay Scarpetta.
2. Paul continuava a borbottare che la critica letteraria era lo strumento d’indagine che nel corso dei secoli l’uomo aveva affinato di meno. In cinque minuti chiunque poteva farsi una gastroscopia e invece nel campo dell’analisi letteraria non si andava oltre un manipolo di linguisti russi… Il punto era che ogni sortita critica aveva rappresentato, per quanto ingegnosa, un bel vicolo cieco. La critica letteraria era una cosa personalistica, una rincorsa perenne verso l’eccentricità.
3. I dialoghi dei coniugi Picard sono molto Monty Phyton.
4. A un certo punto si avverte come un ispessimento dei sentimenti. In quel momento si può smettere di subire la vita, e si può cercare di riordinarla a nostro piacimento, secondo una struttura, secondo uno schema, secondo una variazione narrativa. E in quel momento si comincia a scrivere sul serio.
5. Come scrivere un best selle in 57 giorni è un reportage narrativo con un montaggio sapiente e una collezione irriverente di scherzi e di eco, di ossessioni metaforiche e reali, di luoghi comuni. Ed è un bel parco giochi per tutti i lettori. Entrateci.
L. Ricci, Come scrivere un best seller in 57 giorni, Laterza Contromano (2009), pp. 110, € 9,50.
Ricci è autore di un piccolo grande romanzo con un titolo sapientemente iperbolico e di una bellissima raccolta di racconti con un titolo garbatamente provocatorio in un ossimoro.
Valerio è autrice di due magnifiche raccolte di racconti e di due romanzi, l’uno bulimico e ispirato, l’altro asciutto e coinvolgente.
Tutti e due mi sembrano formidabili lettori di libri altrui.
E i libri, senza aggettivazioni e categorie, o sono belli o non sono, semplicemente. Orfani sempre, perché quando lo scrittore sa scivolare dietro i suoi libri e scomparire li lancia contro il tempo. E anche un po’ contromano se nella direzione opposta corrono impazziti gli ossessivi del sono io l’autore. Dimentichi della lezione di Yourcenar in Memorie di Adriano.
Pretendo di tenere in libreria Patricia Cornwell e Winfred Sebald. Distanti, però, perché sono un ossessivo rituale e geometrico. La metodicità mi aiuta a tenere sotto controllo l’ansia, come Boris Yellnikoff.
Grazie a chi progetta parchi giochi per i lettori e a chi fa il buttadentro.
Anche senza albo professionale.
(post scriptum: secondo me le librerie di Ricci e della Valerio piacerebbero ad Antonella Agnoli)
Non ho mai letto la Cornwell, me ne consigli uno per incominciare?
Grazie
@ olipal
io credo che i primi quattro siano i migliori.
da post mortem a la fabbrica dei corpi.
in alternativa, i volumi della saga del loup garou, jean baptiste chandonne. se leggi aspetto tue eh.
chi
@ diego
:-) :-)) :-))) :-))))
[…] Link fonte: Parigi val bene un best seller – Nazione Indiana […]
Io mi sono limitato a “Scrivere un romanzo in 100 giorni” e già ho le mie pene. :)
Curioso in ogni caso di leggere quanto proponi, Chiara.
in che senso curioso?
Pur con i toni della commedia, spero che il libro di Ricci parli sostanzialmente di questo:
“… la cultura è anzi una sorta di naturale antidoto e di zona franca e di opposizione negli anni plumbei che stiamo vivendo, non esiste anche qui una restaurazione giocata sui puri meccanismi economici e monopolistici, sulla selezione di strutture e di forme, su enormi operazioni pubblicitarie sinergiche, su censure operate dalle leggi solo apparentemente impersonali del mercato, su autocensure introiettate e fatte proprie prima ancora che vengano esplicitamente richieste, sulle limitazioni di libertà reali mentre restano in piedi quelle di facciata”.
Antonio Moresco, La Restaurazione
Chiara, curioso per due motivi.
In primo luogo, leggerò il libro.
Secondo, questo tuo passaggio:
“Io voglio essere uno scarafaggio di Ricci. Perché il punto è come è possibile che uno scrittore italiano, sostanzialmente trentenne, che può scrivere ispessimento dei sentimenti senza essere niente altro che uno scrittore, abbia deciso di tenere una laica equidistanza tra scrittura e successo letterario, senza incancrenirsi sulla distanza tra la scrivania ispirata e la bancarella, senza pensare che lo snobismo sia l’ultima cosmesi dell’intellettuale perfetto, o che la paratassi sia la prima chiave per entrare nell’immaginario narrativo del popolo”.
Mi sono fatto le medesime domande più volte rispetto a taluni scrittori. Credo che siano nodi su cui riflettere ulteriormente.
Saluti.
Sullo stesso libro, un’altra lettura:
http://www.coltisbagli.it/2009/10/15/un-meta-racconto-eticamente-pop/