Riportando tutto a Bari

Petruzzelli distrutto

di Nicola Lagioia

Negli anni Ottanta Bari era chiamata “la Milano del Sud”. A differenza di Napoli e Palermo – impegnate a ridefinire la propria vocazione meridionalistica –, la mia città in quel periodo puntava la bussola dei propri desideri verso il capoluogo lombardo. O meglio, con la scusa di imitare Milano, sognava velleitariamente il centro dell’impero. Erano i tempi dell’edonismo reaganiano, e bastava il più fasullo dei boom per montarsi la testa: ricordate? attraverso una fantasiosa serie di calcoli si tentò anche di dimostrare che l’Italia era la quinta potenza industrializzata del pianeta. Euforizzati dalla fine dell’austerity ma soprattutto dai ripetitori di Canale 5, anche i baresi sognarono una “città da bere”: se Milano aveva Craxi noi avevamo i Kennedy del Tavoliere (aka fratelli Matarrese), se lassù stilisti e copywriter venivano coperti d’oro, a Bari il mattone andava forte, il commercio fioriva, e in via Sparano – una convincente versione sottocosto di via Montenapoleone – le cassiere delle boutique avevano le convulsioni a furia di battere scontrini.

Chi nei Settanta aveva messo su una piccola attività, era possibile che adesso possedesse una Ferrari. I centri residenziali dalle parti di via Fanelli e via Bitritto, visti dall’alto di un volo di linea, erano un rapido infittirsi di macchioline azzurre: le piscine private.
Se il ragazzino piccoloborghese che sono stato fosse cresciuto in questa Pleasantville bidimensionale adagiata sull’Adriatico, Bari non avrebbe fatto per me ciò che – dai tempi di Dickens e di Baudelaire – ci si aspetta da una città degna di questo nome: svolgere un ruolo iniziatico, essere un posto in cui è possibile fare esperienza. E invece la “Bari da bere” era solo la punta dell’iceberg. Sotto si nascondeva una città notturna, clandestina, feroce e sotterranea, il vero ventre urbano. C’era ad esempio il borgo medioevale, interdetto ai normali cittadini a causa della faida tra i clan Strisciuglio e Capriati. Ma c’erano soprattutto le periferie estreme, e cioè il C.E.P. (da noi ribattezzato Centro Elementi Pericolosi) e Japigia: immensi e desolanti quartieri dormitorio tagliati da strade prive di negozi e cartelloni pubblicitari, dove le scritte sui muri inneggiavano ai boss locali (“Savinuccio, siamo con te!”) e i palazzoni di stampo sovietico abbandonati tra i campi sterrati erano gli stessi che vedevamo al cinema in Christiane F. Japigia era anche un supermercato di eroina a cielo aperto: bastavano pochi minuti in motorino per lasciarsi alle spalle l’eco dei registratori di cassa e sprofondare nel silenzio e nei rituali di un mondo parallelo fatto di spacciatori e piccoli contrabbandieri, esseri antropologicamente alieni con problemi e modi di parlare e di vestire e di pensare completamente diversi rispetto ai tuoi. Japigia attraeva con la forza di un magnete i giovani tossici di tutta la provincia, figli di proletari o rampolli di ricche famiglie che nel lato oscuro della città abbattevano le differenze di classe incarnando l’altra faccia degli anni Ottanta: il dramma degli eroinomani, scandalo vivente e testimonianza di come le scintillanti frivolezze degli yuppies e del «Drive In» fossero il paravento di un malessere sempre più profondo.
I Novanta sono stati per Bari un periodo di normalizzazione: il borgo medioevale è diventato un luogo alla moda pieno di disco-pub, Japigia si è trasformato in un quartiere meno ruvido, il potere emarginatorio della droga è trasmigrato verso l’integrazione dello smascellamento cocainico da colletto bianco, e perfino il prototipo del malavitoso locale (tuta acetata, dialetto da gangsta levantino, volto lombrosiano) è un esemplare meno diffuso. Ma “normalizzazione” è un parola fatalmente troppo simile a “mimetizzazione”, e il sospetto che quelle tute acetate avessero solo cambiato taglio è emerso di tanto in tanto in maniera eclatante, come la notte del rogo del Petruzzelli, quando l’idea che malavita e crema cittadina fossero l’una al servizio dell’altra ha gettato sull’ex Milano del Sud un’ombra lunga diciott’anni. Mentre l’Italia imboccava la via del work in regress abbattendo le speranze della Seconda Repubblica, Bari alternava inaspettati miracoli (trainare Nichi Vendola alla vittoria del 2005) a sbandate colossali (l’ecomostro ballardiano “Punta Perotti”, una serie di grattacieli a pochi metri dal mare poi ridotti in cenere in un finale alla Zabriskie Point), cancellando la propria immagine sin troppo novecentesca di città spaccata in due per diventare un vero avamposto del XXI secolo: elegante, ambigua, senza più distinzioni tanto chiare tra “scoperto” e “sotterraneo”, “morale” e “amorale”, “innocuo” e “letale”.
Quando ho iniziato a scrivere Riportando tutto a casa volevo utilizzare le coordinate della mia adolescenza per raccontare la storia dell’ennesima mutazione antropologica degli italiani e il trauma senza evento di una generazione (la mia) che ha visto ogni speranza – di emancipazione, di benessere, di preservazione della propria dignità – tradita sistematicamente nel corso degli anni. Contavo di farlo stringendo il fuoco su una città poco rappresentata da letteratura e cinema. Ma adesso, con il libro è fresco di stampa, è esploso il caso Tarantini, e Bari è improvvisamente al centro delle cronache non solo nazionali. Soltanto la Realtà è capace di simili colpi da maestro: e l’unione addirittura carnale tra potere e malaffare, l’orgia di veline capi di governo amministratori locali cocaina festicciole karaoke è una delle più potenti allegorie del nostro tempo. Il protagonista del mio romanzo torna in città dopo vent’anni per regolare i conti col passato. Ma se leggiamo Bari come un’impressionante figura retorica che ci riguarda tutti, sta a noi decidere se siamo di fronte al giro di boa o a un punto di non ritorno.
Intanto i tifosi della locale squadra di calcio hanno già espresso la loro. Poche settimane fa, durante Bari – Atalanta, gli ultras del San Nicola hanno srotolato dalla nord uno striscione inneggiante alla D’Addario. Poi un secondo striscione che recitava: “escort, risse, cocaina / tessera del parlamentare quanto prima”. Due secondi di silenzio. Quindi sono partiti i cori contro il ministro Maroni.

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano)

2 COMMENTS

  1. passeggiando in quella casbah che è bari vecchia (il mio cognome non mi aiuta ad addentrarmi fino in fondo) ti sembra di essere in un redivivo regno di napoli borbonico. l’influenza della capitale partenopea si fa sentire nei gusti, nei sapori, nelle musiche che fuoriescono dai balconi. neomelodica ad altissimo volume.
    poi fai qualche passo fuori e in un attimo ti ritrovi nel geometrico quartiere murattiano. c’è ancora un muro che divide la città medievale da quella ottocentesca

Comments are closed.

articoli correlati

SalTo in Giù – la diretta dai libri

Tra un giorno e l'altro questa la chronica  a cura del Furlèn dei primi due giorni al SalTo in...

Fuori dalla Storia: adolescenza e spazio liberato

Antonio vive dal 2006 a Pistoia, ma ci siamo conosciuti e incontrati soltanto dopo la disfatta politica delle ultime...

Proprio qui, tra stato di natura e stato di grazia

di Giuseppe Zucco Un'intervista-dialogo con Nicola Lagioia su La Ferocia Al contrario dei tuoi precedenti romanzi, Occidente per principianti (Einaudi, 2004)...

Appunti di scena

(un mese fa Piero Sorrentino mi aveva spedito questi appunti. Per problemi miei non ho trovato il modo di...

Essere Paolo Sorrentino

di Piero Sorrentino È da tempo che accarezzo l’idea di curare un libro di interviste, intitolato “Onomastici”, o qualcosa del...

Messico e Male; 2666 anni con Roberto Bolaño

di Helena Janeczek L’invito a partecipare al vostro "Seminario sul romanzo" mi ha suggerito una scelta istintiva e immediata. 2666...