Livio Borriello legge Franco Arminio
Arminio all’inizio e alla fine della neve.
di
Livio Borriello
La scrittura di Franco Arminio, quella miscela di levità e tetraggine, di impalpabile quanto irresistibile humour e di avvelenato disfacimento, di olimpica serenità linguistica e incoerenza etica che definiscono il suo segno caratteristico, è tutta giocata su un movimento fondamentale: quello che ribalta la sua paura della morte in presenza del corpo, in ansia o meglio smania di vita, in un narcisismo esasperato e spesso disperato che sembra costantemente dire: io ancora esisto. Per ragioni genetiche, psicologiche e culturali, la mente di Arminio è affetta da questa strana caratteristica: al di là della vicenda di apparenze e persistenze che è la vita, essa vede sempre nitidamente, implacabilmente, insanabilmente davanti a sé, l’abisso vuoto del non essere, l’orlo del precipizio verso cui – chi può negarlo – i nostri atti sono precisamente indirizzati.
Il misterioso dio, o l’imperscrutabile programma random, che assortisce le psichi, ha tuttavia munito Arminio di un’altra facoltà, di segno uguale e contrario alla precedente, che gli permette di metterla a profitto: una primordiale e animale energia, inesauribile e inestinguibile, che potenzia il suo corpo in bilico sul nulla. Egli scrive dunque sempre sul limite fra vita e non vita, al cospetto del nulla, ma ben piantato nello spazio segregato e consistente della sua carne, del suo corpo furiosamente vitale. Ne risulta una prosa che è un’avventura pericolosa risolta in linee ferme e pure, una sovversione educata , un vomito distillato, una revulsione propulsiva. Anche la straordinaria ricchezza del suo immaginario e la compattezza materica e inattaccabile del suo stile, la confusa concitazione del suo impegno civile e la contraddittorietà delle pulsioni che agitano i suoi personaggi, si spiegano tutte a partire da questa osservazione.
Arminio è evidentemente malato: ma ”l’uomo è l’animale malato”, scriveva Hegel, e” l’idea dell’uomo sano è un mito, parente prossimo dei miti nazisti”, chiosava Merleau Ponty. La salute cui possiamo aspirare, è appunto quella forma di bilanciamento fra vitalità e malattia che Arminio riesce a conseguire sul filo sottile della scrittura. Peraltro, per ridurre il lavoro di controspinta, Arminio fa di più che bilanciare: egli stabilisce con la morte un rapporto fusionale, intrinseco, quasi amoroso. “La paura si è invaghita del mio cuore/ e io le corrispondo” scriveva in Circo dell’ipocondria, il suo libro che insieme a questo racconta finora meglio il suo mondo. Questo audace ribaltamento non era solo una trovata espressiva, ma corrispondeva a un effettivo cambiamento di prospettiva. La paura non è più una disfunzione della psiche, ma un’arcana divinità che incute un timore misto a fascinazione, una sorta di ipostasi dell’ essere-per-la morte heideggeriano, che si è incapricciata della psiche molle, porosa e altamente adesiva dell’autore, e gli ha proposto un rapporto faustianamente ambivalente, di scambio fra dannazione e conoscenza. L’avventuroso Arminio ha ceduto al daimon che voleva possederlo, e ha trovato in quel rapporto quell’intensità erotica – nell’accezione in cui eros sta per vita, suggerita dal testo stesso – che gli è negata o che si è surrettiziamente negata nella vita ordinaria. La paura insomma come forma dionisiaca della conoscenza, come mania che si fa mantica, e appunto vaticinio poetico. In questo senso, forse, nel palpitare frenetico e eternamente agonizzante delle valvole mitrali di Arminio si può leggere l’ultimo, scompensato residuo di romanticismo della civiltà dei nostri giorni, l’amore ai tempi dei media.
Seguiamo lo sviluppo del libro. Dopo un incipit seduttivo e intenso, tipico del miglior Arminio, seguono i testi del “Diario concitato”, in cui si manifesta più evidentemente il suo bisogno di accadere nel testo allo stato puro. Indotto dalla coazione nevrotica descritta, quella di sostituirsi sulla pagina al futuro Arminio morto, di mummificarsi nelle bende delle righe, di portare a compimento il suo atto di resistenza all’impersistenza del mondo, egli allinea una serie di descrizioni volutamente e consapevolmente (“non voglio mettere una frase intelligente… scrivo e basta ..” e così via) piatte e insignificanti (“tristi e acquose”), che non comunicano e non esprimono niente. Egli deve trascriversi tutto, ottenendo così non solo la facile gratificazione di essere accettato (pubblicato, imposto al pubblico) per quel che è, anzi nonostante quel che è, ma quella più profonda di trasporsi tutto – almeno nel segmento temporale in sua giurisdizione – su questo supporto di cellulosa piuttosto longevo, che le biblioteche e gli archivi potrebbero far sopravvivere per millenni – alla faccia di qualsivoglia infarto. L’operazione in sé non è nuova, è apparentata vagamente agli esperimenti di scrittura automatica, come alla tradizione delle opere-mondo, da Proust e Joyce in poi, oltre che a tanti esperimenti della letteratura di ricerca. Tuttavia ciò che rende specifica, interessante e plausibile l’operazione di Arminio è questo: mentre questi testi si industriavano di rendersi interessanti, e lasciavano trasparire solo fra le loro sfilacciature l’inevitabile noia che ingenera la descrizione di un uomo così come è, Arminio cerca di essere banale, così che nelle sfilacciature delle sue banalità traspaia a volte, con maggiore, e più scintillante e inquietante potenza, il mistero arcano che è un essere umano (“io sono un gruppo di cani con la lingua di fuori… il corpo, conclave di sintomi minacciosi e mutevoli… io sono il frutto di una gravidanza isterica che avrà fine solo con la mia morte o con quella di mia madre…” e così via).
Tuttavia Arminio si rende conto che non può andare avanti così per tutto il libro – ovvero deve evitare che il libro sia impubblicabile, il che ne annullerebbe l’efficacia – e a un certo punto deve rassegnarsi a allestire quella messinscena linguistica, a cui l’Altro – il lettore – lo invita, che si chiama letteratura. Naturalmente è in grado di farlo benissimo. Deve innanzitutto prendersi per i capelli, come Munchausen, e trarsi dal pantano insidioso del lirismo. Nel “Circo” egli ricorreva all’escamotage di parlare di sé in terza persona. Questa volta mette in atto un altro espediente: crea una miriade di personaggi, fra i quali fa muovere un personaggio che dice io. Questi personaggi si accavallano e sovrappongono nella varie sezioni, esprimono punti di vista differenti e contraddittori, ma a ben guardare hanno in comune proprio quell’elemento che costituisce la sostanza e la realtà di una scrittura: la voce, lo stile, il tic linguistico. Insomma, a ben guardare, ciascun personaggio è in realtà sempre lui, diffratto in mille nomi come in un prisma colorato. E non poteva essere altrimenti: nei libri di Arminio non può parlare altri da Arminio, perché a morire sarà lui. Chi deve vivere al suo posto, per assolvere alla funzione magica e conservativa della scrittura, può essere solo lui stesso. Arminio è un po’ come quegli attori – Gassman o Sordi per esempio – che in realtà non recitano mai, perché sono sempre se stessi. Sono attori che fanno i se stessi, il cui personaggio consiste nel proprio io, infinitamente declinato, e diventa personaggio solo perché scavalca la sottile soglia fra realtà e film, frapponendo fra i due spazi il vetro trasparente di una telecamera.
Naturalmente i risultati più solidi da un punto di vista tradizionalmente letterario vengono raggiunti in questa seconda parte del libro quando si completa il passaggio dall’io all’essi, e nel disfacimento geologico, sociale e culturale del “paese della cicuta” l’autore trova l’immagine perfetta del disfacimento del proprio corpo. La maggior distanza gli permette di trovare una cifra ironica insieme tranchant e surreale, talvolta perfino affettuosa, più spesso gelidamente documentaria, i cui effetti sono assolutamente irresistibili.
Nel “Lunario dei ripetenti”, l’elencazione seriale dei minuti eventi del paese (il libro si chiude con la lista delle “macchine parcheggiate in Via Purgatorio il 7 maggio 2005”) , chiuso nel suo “autismo corale”, riesce a rappresentare in poche pagine la filigrana decomposta di una piccola comunità meridionale, con una precisione e un’icasticità che non potrebbe raggiungere nessun servizio televisivo o libro di sociologia. Come in una fotografia ad altissima risoluzione, ma scattata da una grandissima distanza, Arminio descrive i particolari più minuti e realistici, ma gli oggetti lontani che si frappongono fra il suo sguardo e l’oggetto, come i rami di un albero o le polveri intergalattiche vaganti davanti all’obiettivo, immergono la descrizione in un’atmosfera irreale e iperurania. L’occhio dello scrittore inquadra “l’agonia ciarliera” di Lucia Ambrosecchia, ma anche “la nebbia in cui stiamo vagando”, uscita dal corpo di “uno che si era addormentato”, oppure, spostandosi nel punto di vista di uno stralunato “pensatore delle panchine”, un Gesù che “nel periodo che andava a donne era un uomo tranquillo. Poi gli venne una grave nevrosi e tutto il resto che sappiamo”. Il mondo appare per quello che è, una strana vicenda destinata a concludersi e ricominciare eternamente, eternamente priva di senso, e altrettanto pervicacemente reinventata dagli uomini. Ma attenzione, nemmeno di questi si può essere sicuri, perchè la terra a un certo punto potrebbe smettere di girare, e “fermarsi in mezzo all’universo come un mulo che si impunta”.
Franco Arminio può piacere o non piacere, forse più di quanto possa piacere o non piacere qualsiasi cosa e qualunque persona. Tuttavia appare indubitabile la sua forza d’impatto, che gli deriva da un modo diverso e più radicale di rapportarsi alla parola. Arminio, prima ancora di essere uno scrittore, un ragioniere della parola o un concorrente iscritto alla competizione letteraria, è un corpo che si aggira nel mondo. Un libro di Arminio è l’irruzione dell’evento Arminio nel parallelepipedo impilato che è un libro, è lo squarcio trasversale di questo pur minimo accadimento del mondo . Il suo libro non è un prodotto, né egli quale autore è il prodotto del suo libro, ma le sue pagine rappresentano quello che dovrebbe essere una scrittura, una traccia di quell’essenza costitutiva dell’uomo che è la parola, lasciata in un angolo del mondo a testimoniare che qualcosa è accaduto.
Franco Arminio
Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta. Editori Laterza
Comments are closed.
referto e reperto questa recensione ha nel suo angolo di diffrazione il punto di forza per narrare i cerchi ossessivi di paura e di morte, nel midollo di nevi e di venti che è la terra di Arminio
Una recensione sensibile entrata nel sangue del libro. Fa apparire due poli opposti: il velo di angoscia come nevica sopra il corpo e la mente, e lo slancio di vita erotica verso il paese. Uomo malato in un paesaggio che tende verso la bellezza e la devastazione dell’oblio. Quando ho letto l’ultimo libro precedente di Franco Arminio, ho sentito questa malattia dell’oblio. “Nel midollo di nevi e di venti che è la terra di Arminio” come lo dice in poesia Viola. Il vento scorre dando voce alla voce disperata dell’uomo rimasto al paese. E la neve è l’ultimo miraggio per credere
che sotto, il paese puo danzare nella sua verginità, non come un vestito di noia o di angoscia, ma come poesia e amore per il paese.
ci sono un paio di punti in cui dissento con borriello, ma per il resto mi ritengo fortunato a essere uno dei pochissimi scrittori contemporanei che stimola la sua scrittura.
credo che il “panico nero” costipato in questo libro non è compatibile con la rete. ho di che riflettere per il mio libro sull’autismo corale.
Arminio, la prego, non faccia così, io ho ordinato il suo libro qualche ora fa proprio dopo la lettura della rece di Borriello. Se non ci fosse stata la rete, mi dice come avrei fatto a scoprirla?
In ogni caso, sono anche convinto che questo post cumulerà una ottantina di commenti. Scommettiamo?
caro fortebraccio,
in pochi anni il clima in italia è peggiorato. la letteratura interessa quando ha poco a che fare con la letteratura.
Io intanto nei prossimi giorni mi leggo il suo libro, poi ripasso e le dico.
Recensione esemplare. Se mai pubblicherò un altro libro esigerò il referto di Livio.
@paoloni
-);
Noto che il signor Arminio, confermando quanto scrive il signor Borriello, è affetto da smania di protagonismo anche nei post. Mi chiedo : ma per scrivere bene, è davvero indispensabile essere nevrotici? Goethe non ci ha insegnato niente?
Franco,
Non capisco benissimo il tuo commento. La recensione di Livio Borriello è bellissima. E’ molto difficile scrivere a proposito di una lettura, perché ogni lettore ha la sua risonanza come un tamburo infelice.
Forse leggendo il tuo nuovo libro, siamo quello che cammina sulla neve
e crea l’impronta, la macchia della sua presenza nel testo.
grazie livio borriello la tua lettura è talmente bella e profonda accurata e accorata che a me il libro passa la voglia di leggerlo per paura di deludermi.
grazie dell’accurato e accorato, ma escludo al 99% che il libro possa deluderti… mi vengono in mente anzi continuamente decine di citazioni che avrei potuto inserire, forse più belle di quelle che ho utilizzato…
è un piacere e un dovere comprare i buoni libri, e invece è una tristezza vedere che il tg nazionale offre addirittura anticipazioni di un libraccio come quello di vespa… per una serie di ragioni che sarebbe complesso analizzare qui, ma a cui dobbiamo opporci
d’accordo con la disamina elaborata con cura e rispetto da borriello
e sopratutto con questa sotterranea forma di resistenza
sopratutto ai libracci di vespa .
il libro di arminio lo sto per leggere spinto anche da questa recensione
c.
ps @ unsignorechepassava
eppure in parte l’arminio che scalpita lo capisco. lui si attende che si scateni una bella discussione sui temi forti del suo libro – o della mia lettura – la morte, l’infinito, l’eros, dio – invece possibile che su NI come invero nei blog italici e terrestri, imperi sempre questo certo mediocrismo opaco, questa debolezza dello spirito che accende l’inetersse solo per i soliti temi dell’attualità, per le diatribe letterarie… dov’è il sangue di chi legge, dov’è il loro corpo coi suoi vuoti e spazi oscuri, dov’è la loro felicità e infelicità, dov’è il senso dell’orlo, dell’abisso, del definitivo, dello sconvolgimento… tutti stiamo troppo nei meccanismi, nei protocolli, tutti siamo troppo segregati nelle vite che ci assegna la biologia o l’antropologia…
Io di Arminio ho letto su Il Primo Amore quella sorta di Spoon River postmoderna che è “Cartoline dai morti”. Non me le scordo più quelle cartoline. A quando la pubblicazione?
voglio ringraziare forlani e borriello e nazione indiana. lo spazio c’è, manca il sangue, come diceva borriello. l’italia è una nazione affetta da coma morale.
Manca il sangue, perché siamo i dormienti di un castello malato, con il sangue gelato. Non c’è la forza di aprire gli occhi, di amare, prigionieri del niente o del troppo.
Per me, Franco Arminio fa corpo con la sua terra, un po’ come un gardien de phare della terra mare. Il grido io sono vivo fa luce.
Breve nota filosofica.
Non si sa quasi mai che cosa sia giusto pensare, voglio dire per essere sani ed equilibrati o almeno per convincerci di poterlo diventare, così come per riuscire a persuaderci di vivere nel posto adatto per noi, dove sperimentare tutto il bene di cui saremmo capaci.
Ed in effetti non ci sono luoghi ineccepibili o cose davvero appropriate da avvertire e comprendere: solo una condizione irrimediabilmente aporetica e dunque un sentire più o meno indomito e privo di ripari della medesima impossibilità radicale…
Non ho ancora comprato il libro di Franco Arminio (dopo la recensione di Livio però mi sono precipitata ad ordinarlo), ma ho letto “Vento forte tra Lacedonia e Candela” e respirato la furiosa rassegnazione che abita certe pagine. I paesi abbandonati dagli uomini e le cose del paesaggio diventate mute e senza scopo sembrano quasi un’occasione, la superficie nitidamente specchiante predisposta a riflettere una condizione che appartiene a chi vive sotto qualsiasi latitudine, anche negli spazi che godono del massimo successo planetario di critica e di pubblico.
Paradossalmente invece, sono proprio i luoghi capaci di esibire la pervasività del disagio da scomparsa, quelli in cui l’ansia può esacerbarsi e poi placarsi fin quasi a svanire, trovandosi finalmente ricompresa in una più grande, conclamata insensatezza e dunque in una situazione atta a far sentire meno separati e soli, rispetto alle condizioni generali della corrente, e cieca, asensibilità quotidiana.
La mancanza di un significato interiore un poco viene lenita quando può plausibilmente corrispondere ad una simile carenza esteriore, per via della profonda coerenza delle relazioni che ci costituiscono, senza che tuttavia possiamo discernere le “vere ragioni” di questa necessità quasi formale (esse – intendo le relazioni- sono, in effetti, “assurde”, cioè inesplicabili tramite l’applicazione di un pensiero puramente lineare).
Tale disamina certamente non implica che dovremmo rendere il mondo brutto e deserto, cioè privo di una reale varietà e dunque insensato, al fine di sentirci meno soli tra le creature naturali ad avvertire-creare il problema del significato, pur sembrando in effetti proprio questa l’esatta sintomatologia dell’altrimenti incomprensibile maniera in cui stiamo operando a livello di specie sul pianeta. Ma questo è un altro, difficile, discorso…
Non so se i pensieri che Livio mi ha ispirato siano quelli che si augurava accompagnassero la lettura del nuovo libro, ma confido che in ogni caso abbiano a che fare con quello che ci troviamo ad essere, con i motivi per cui si scrive, si legge, si continua a riflettere… Rimando eventualmente a più tardi qualcosa di preciso sulla presenza della neve, di cui Franco sembra sicuro come di qualcosa che ha finalmente, per certo, percepito, dichiarando però che io sono, sin da ora, propensa a credergli.