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Pop polar : Boris Vian

Alla Librairie Voyelles, a Torino, puoi incontrare, tra gli altri, Guy Debord, Marguerite Duras, Jean Giono. A volte si parla, Gabriella offre il caffè agli uni, un alcolico forte a qualcun altro, oppure si ascolta. Si legge e si ascolta. Così quando è entrato Boris Vian, senza preamboli ha voluto dire la sua. E Michele Vietri gli ha fatto da interprete.effeffe

Istruzioni per fabbricare canzoni
di
Boris Vian
Tempo d’artigianello
Abbandoniamo dunque la storia antica; la canzone moderna costituisce un campo vasto abbastanza per i nostri sollazzi.
Nella sola Francia vengono depositate quotidianamente alla S.A.C.E.M. 1 parecchie decine di nuove canzoni, ed è per centinaia di milioni che la S.A.C.E.M ripartisce annualmente i diritti che percepisce. Sotto un certo aspetto, la canzone è un prodotto che si mette sul mercato, che si vende e che si compra, e per cui è comprensibile che ci si possa porre la questione: come si fabbrica?
Che questa parola “fabbricazione” non disgusti il lettore; ci sono canzoni “fabbricate”, è giusto. Ma ciò non toglie che per una certa quantità di esse l’ispirazione gioca il suo ruolo come in ogni creazione. (Non si rischia niente finché non si precisa l’ispirazione, e i barbuti si calmino)
È disinteressata un’ispirazione?

Di nuovo, andiamo a punzecchiarvi un po’ sul vocabolario. Si può dire che un creatore preso da un’ispirazione appassionata sia disinteressato? Vi abbiamo sentito: si tratta di essere disinteressati sul piano della finanza. Sappiamo molto bene qual è l’atteggiamento del commerciante di fronte all’ “artista”. Voi avete, egli sostiene, la fortuna di avere del talento. Noi non abbiamo che quella di avere il danaro. Accontentatevi del vostro talento e lasciateci il danaro.
La sfortuna è che i nostri bravi commercianti abbandonati a sé stessi non hanno niente da vendere che un po’ di organizzazione o una conoscenza della legge che gli permetta di essere riconosciuti nella giungla degli affari.
Noi siamo assolutamente d’accordo con i commercianti: è più interessante creare che vendere; ciò spiega evidentemente perché i venditori sono meglio pagati dei creatori. E fortunatamente quando viene fatta ai commercianti la concessione di lasciargli il denaro, essi si distraggono talvolta dalla fabbricazione. Io dico: meno male, perché è raro che essi abbiano un po’ di gusto. Lo si percepisce molto presto quando in una casa discografica si lascia che il commerciale prenda il sopravvento sull’artistico… cosa assolutamente strana, il commerciale dimentica sempre che all’origine del suo commercio c’è la creazione; ma si ingegna spesso a mortificare ciò che l’ha fatto nascere.
Chiaramente si tratta di un fatto molto generalizzato… non specifico della canzone. Ma se, in tutti i settori, il commerciale si mostra, ai giorni nostri, così aggressivo rispetto alla ricerca, la ricerca si prepara dal canto suo a sferrargli, in avvenire, un colpo da cui non si risolleverà. Giacché il commerciale è uno di quei settori che non potranno sfuggire all’automazione. Anche se provvisoriamente costoso da realizzare, niente è più facile da concepire di una distribuzione automatica di beni di consumo. Il commerciante fa bene ad approfittare della sua parte: qualsiasi cosa si possa supporre oggi, è lui il ramo del settore economico che rischia, presto o tardi, di essere reciso.
E l’artistico o la tecnica, che ne è consapevole ancor meglio di lui, lo lascia, con indulgenza, incassare il grosso dei guadagni. Godendo di quel che resta.
Ma chiudiamo questa felice parentesi.
Tale è attualmente la diffusione della canzone “popolare” moderna e la sua proliferazione nel mondo che si possono dedurre dei principi molto ben definiti; e la loro stretta applicazione, messa in pratica da commercianti puri e semplici, può arrivare a sostituire l’ispirazione. Così, tenuto conto di una moda che incalza, delle esigenze di un interprete in piena ascesa e che prevede ciò che il suo pubblico si aspetta da lui, dei bisogni di un editore stimolato dalla concorrenza o deciso a giocare alla canzone come alla borsa, è possibile creare di ogni brano, a freddo o quasi, un “hit” – una canzone destinata a “fare successo” con dei mezzi di cui ci permettiamo di parlare più avanti…
Ma prima di continuare, proviamo a determinare i meriti rispettivi delle parole e della musica nel successo di una canzone.
Un primo parere va richiesto agli autori di successo. Ecco quello di René Rouzard, autore, tra l’altro, dell’eccellente Goualante du Pauvre Jean, di cui Marguerite Monnot ha scritto l’accattivante musica.
Rouzarde è categorico.
― Secondo me, ci ha assicurato, la musica interviene almeno per il 51 % nel successo di una canzone.
Opinione ancora più significativa in quanto proviene da un autore-paroliere. Un’interprete intelligente, Odette Laure, è dello stesso avviso.
― Che lo si voglia o no, ha dichiarato nel n.3 della rivista Music-Hall, la musica è quasi sempre la ragione di un successo.
Un autore-compositore-interprete, Charles Trenet, ci viene in aiuto. Egli ha espresso la sua opinione attraverso una deliziosa canzone che creò Jacqueline François, L’Ame des poètes ; ne citiamo un brano sperando che Raoul Breton, il suo editore, non ci perseguirà per duplicazione non autorizzata:

Longtemps, longtemps, longtemps après
Que les poètes ont disparu
Leurs chansons courent encore dans les rues.
La foule les chante un peu distraite
En ignorant le nom de l’auteur
Sans savoir pour qui battait son coeur

Parfois on change un mot, une phrase,
Et quand on est à court d’idées
On fait:
la la la la la la…

Per molto tempo dopo/ che i poeti sono scomparsi/ Le loro canzoni circolano ancora nelle strade./ La gente le canta, un po’ distratta/ Ignorando per chi batteva il loro cuore./ A volte si cambia una parola, una frase/ E quando si è a corto di idee/ Si fa:/ La la la la la la…

Tanto ci indurrebbe ad ammettere che è la musica la parte determinante della popolarità di un’opera…
L’importanza della melodia è sottolineata dall’esistenza di lavori che si pubblicano da molto tempo, le raccolte di “evergreens” 2 , vale a dire di arie conosciute, che contenevano, per la comodità degli autori-parolieri, tutti i temi musicali correnti utilizzati in teatri, sale da ballo e cabaret.(La Clé du Caveau, che si trovava ancora da Salabert prima della guerra del 1940.)
A nostro avviso, se certamente si ha ragione di sottolineare il ruolo capitale della melodia nel successo di una canzone, non bisogna perdere di vista quello delle parole, che è di natura differente. Presentando le canzoni agli interpreti, ci si rende conto prestissimo che molti di essi, e i più grandi, esigono leggere prima le parole e non chiedono di ascoltare la musica se non sono soddisfatti dalle parole.
Per questi ultimi, di conseguenza, la supremazia è accordata al testo.
Si potrebbe concludere che la musica di una canzone ha una maggiore rilevanza nel fatto che questa canzone “catturi” il pubblico, e che le parole hanno il ruolo principale nel fatto che questa canzone duri e conservi per molto tempo la sua popolarità.

Di fatto, il compositore
di Gondolier è sicuro
di non aver mai sentito
Sur deux notes ?

Provvisoriamente, e siccome la canzone è infine un tutto, accordiamo pari importanza alla musica e alle parole. Tutto dipende un po’ dalla genesi della canzone. Nel caso dell’autore-compositore, parole e musica nascono quasi sempre insieme. E nel caso in cui l’autore e il compositore sono due persone distinte, si arriva senza dubbio ad un certo punto in cui, insieme o separatamente, i creatori impugnano la penna, la chitarra o la tastiera (se osiamo permetterci questa metafora audace) e si mettono a produrre.
L’idea è venuta in trentasei modi. Il creatore ha funzionato sia alla maniera di un impiegato, mettendosi al suo strumento di lavoro e dicendosi: “Ora, tocca farlo…”, sia sotto l’effetto di un rischio, ma in ciascun caso è come fosse un accendino: improvvisamente, la rotella gira e una piccola scintilla scaturisce. Basta che questa scintilla, cercata o no, incontri del combustibile circondato da materia infiammabile ed ecco che la fiammata s’innesca; fuoco di paglia o solido focolaio.
Cos’è che ha fatto girare la rotella? È una parola, una di quella parole vigorose e carnose care a Brassens, che vi gira nella testa e finisce per raccogliere attorno ad essa delle parole-fratelli, delle parole-sorelle o delle parole-amanti; è una frase musicale sentita non importa dove sulla quale viene a posarsi una idea, che vi suggerisce a sua volta un’altra musica; è una rabbia, una gioia, un cruccio. Alla base delle buone canzoni, c’è spesso un’emozione, una passione, piccola o grande; allegria, tristezza, inquietudine, o anche questa collera che vi prende ad ascoltare le assurdità di certi simili che non si ha voglia di trattare come tali. (Molte canzoni si creano come per reazione).
E c’è anche la massa colossale di canzoni dovute a degli scopiazzatori che fanno “come “ il Tale o il Talaltro .
Ho avuto un amico, aspirante scrittore, che aveva la punta della penna instancabile e mi sottometteva sovente 3 le sue produzioni. Nel genere pastiche era brillante, ma talora lo potevi definire un Louis-Ferdinand Céline un po’ spurgato, talaltra un para-Prévert, talvolta un sub-Queneau. Gli facevo osservare spesso che le sue produzioni erano un po’ pallide rispetto all’originale.
―Non ho mai letto questa gente, mi disse. Non leggo quasi niente per non viziare il mio stile naturale o lasciarmi influenzare da altri.
Certamente, certamente… a questo proposito, perché non costruirsi un proprio vocabolario? Mio fratello più piccolo lo aveva fatto a nove anni; impugnando un dizionario Petit Larousse, si era messo a tradurlo, colonna dopo colonna, creando mano a mano la lingua “bâteul” (da pronunciare come “battle” in inglese, ma allungando il “ttle”; quasi come Batel in tedesco ammesso che tale parola esista). Mi ricordo che “abat-jour” si diceva “abatel-mikis” e “abat-vent”, “abatel-turnô”, da che si deduceva che mikis significasse giorno e turnô, vento. Credo, almeno; non ha mai superato la metà delle A; forse una volta arrivato alle J, avrebbe trovato, per Jour, tutta un’altra cosa…
Ma l’autore, il compositore, si servono di parole della loro lingua e delle dodici note del sistema tonale di Zarlino, così è e non ci si può fare niente. Se vogliono dunque creare delle opere degne di questo nome, delle opere originali, è per loro necessario, ci sembra, provare a conoscere a fondo quello che hanno già fatto gli altri… per tentare di fare un’altra cosa. È ancora una volta il metodo del “no”, il solo veramente fruttuoso, L’originalità, naturalmente, la si trova dove si vuole; può essere completa o parziale, esistere nella struttura della frase letteraria o musicale, nella terminologia (e l’originalità, o lo stile, si rivelerà, poco a poco, attraverso l’opera del creatore).
L’originalità è spesso una scelta, una limitazione che ci si impone in un senso o in un altro, in un campo o in un altro; questa originalità non è il genio: noi crediamo al contrario che bisognerebbe riservare questo termine, genio, per coloro nei quali l’originalità consiste nel non avere limiti, nel potere e saper fare tutto (uno Shakespeare, nell’ambito del lessico, può a giusto titolo essere qualificato come geniale; possedendo ognuno una propria definizione di genio, non perdiamo questa occasione per infilarne una qui). Con rispetto parlando, i khojons trascurano di prendere in considerazione queste elementari constatazioni; i “bravi” autori letterari , senza vergogna, si richiamano a Stendhal, a Balzac o a Dostoevskij senza capire che nel 1958 un falso Stendhal non ha più meriti e ragioni d’essere di un falso Mozart o di un falso Beethoven. A suo tempo, Mozart come compositore apporta qualcosa di nuovo; adesso non più. Questo truismo passa totalmente inosservato da una mucchio di gente che si prende per delle locomotive senza essere che dei vagoni un po’ demodé. È vero che in Francia il vagone demodé è ancora ricco di prestigio… chi sa, ha forse trasportato Franchet d’Espérey ne 1915…

Tutto questo per precisare
ancora una volta che
non apprezziamo solo che
canzoni che non siano il
riflesso né il segno di
canzoni già fatte.
Però non lanceremmo
nemmeno la più piccola pietra contro
chi vive di semiplagio, cosciente o no.
Il pubblico è sempre libero
di ignorare il plagio, e il
critico ne deve essere inconsapevole se
vuole continuare a essere così poco competente.
La strofa di Julie la Rousse
vi ricorda quella di Mon
amant de la Saint-Jean?
(Non me ne vuoi,
Renéé-Louis?
)

Dove sono le nostre pecorelle? Ah, eccolo lanciato allora, il nostro creatore. Egli ha il suo punto di partenza. Una frase, un soggetto, un eroe, un titolo. Qualche volta, ciò arriva con naturalezza; tutto fila da un capo all’altro senza intoppi, tutto si concatena e si regge, le rime giungono al momento giusto, c’è olio nella meccanica. Più spesso non è così facile. Volete raccontare una storia? Attenzione! Bisogna che stia in una pagina dattilografata: voi non avete il diritto dei centodieci foglietti di un protetto delle edizioni Gallimard o Julliard. Ora, lo stile, che non consiste nel diluire senza sembrare noioso (è il segreto di un buon romanzo lineare: una storia che prende e che si fa seguire da un punto all’altro attraverso il paesaggio, lo stile dell’autore). È finito il tempo delle cantilene in trentadue strofe. I 2 minuti e 30 del disco a 78 giri abituarono il pubblico ad una dose precisa; e l’America, che ci precede sempre nel lancio delle mode commerciali, è già alla canzone di un minuto e mezzo, due minuti.
Oltre alla necessità in cui vi troverete (no, non ho intenzione di plagiare la Modification di Butor 4 , io vi parlo, questo è tutto… la seconda persona plurale esiste da parecchi secoli, no? Limitarsi deliberatamente ad essa, certo, è uno stile… sì, vabbè… basta con le digressioni) di raccontare la vostra storia in una pagina, dovete pensare ai seguenti problemi: 1) l’articolazione delle parole; esse devono “venire” sulla bocca; tutto è fatto per essere cantato e non letto; 2) il tempo della vostra musica; una pagina di testo su un tempo di blues lento può durare sei minuti, e sono quattro di troppo; 3) la caratura della vostra canzone. Su una misura di 4/4, la vostra strofa deve avere 16 battute , il refrain 32 battute; no, non è assoluto, certamente ci sono fenomeni di 14 battute che hanno avuto successo – ma secondo l’editore Rolf Marbot, per citare il parere di uno specialista, non esistono esempi di canzoni asimmetriche che hanno avuto un vero e durevole successo popolare; 4) ammesso che il problema dell’articolazione sia risolto, non dimenticate la posizione e la natura delle vocali; 5) Non trascurate la tonalità del brano; certe tonalità “suonano” cupe, altre sono appropriate specialmente alla canzone ammaliante, ecc…; 6) occupandovi della melodia, fate attenzione alla tessitura vocale degli artisti; e sappiate che alcuni tra i più noti hanno una estensione vocale appena superiore ad una ottava, ebbene sì…; 7) ecc…, ecc…, e infine, la “chiusa”. La chiusa di una canzone è capitale. Per far bene, in una canzone a due strofe e a due incisi, calibrate una chiusa, cioè un piccolo colpo di scena, almeno alla fine di ogni inciso, la seconda chiusa più forte della prima; e se possibile, le strofe dovranno corrispondere allo sviluppo della storia in due capitoli ben distinti e molto contrastanti.
Non tutte le canzoni, naturalmente, raccontano una storia; ma la canzone “a soggetto” o “con il personaggio” è molto richiesta. Non pensiate che queste ricette o altre ancora siano sufficienti a fare una canzone in un sol colpo; in verità, queste non sono delle vere e proprie ricette, ma delle regole statistiche dedotte dall’osservazione di numerose canzoni riuscite. Ma è spesso vero che nelle mani di un abile artigiano l’applicazione di questi principi consente di ottenere, commercialmente parlando, un risultato almeno onorevole. Se viene aggiunta un po’ di originalità di espressione e di linguaggio, si arriva a farsi interpretare senza troppi sforzi.
Non sono solo il pubblico e i critici dovrebbero conoscere questi rudimenti del mestiere… ma anche gli interpreti; perché i creatori sono anche i più sprovvisti di vergogna e i più solleciti nell’assediare gli interpreti per collocare la propria mercanzia, e molti interpreti non possiedono quel minimo di senso critico necessario per giudicare la qualità di una canzone. Ciò porta a quanto già detto: cioè al lancio, da parte di una star, di una brutta canzone, che morirà con la sua stella (l’agonia può essere molto lunga, ma questo non cambia niente; se è brutta, è brutta, qualunque ne sia il risultato economico).
Abbiamo parlato, in questo capitolo, del modo di fare una canzone e dell’importanza relativa delle parole e della musica; ora un’osservazione rapida a proposito degli adattamenti di canzoni straniere, e specialmente di canzoni americane. Nel campo della musica leggera, l’America ha visto nascere un considerevole numero di validi compositori di cui invano si cercherebbero gli equivalenti da noi. Ad esempio il bravo e compianto Vincent Scotto, autore di centinaia di canzonette facili, non si può mettere sullo stesso piano di personaggi come Jerome Kern, Richard Rodgers o Cole Porter, la cui invenzione melodica (nutrita, sicuramente, alle fonti de jazz e della musica popolare nera, e dunque ben nutrita) è spesso notevole, per non parlare della ricchezza armonica (ricca relativamente al settore di cui parliamo). Non a caso ho citato Scotto, che fu uno dei più fecondi compositori popolari del secolo… Alle fine, Rodgers, Kern, Porte, Ellington, ecc…, hanno scritto molte canzoni ben fatte e originali. Ebbene novantanove volte su cento, le loro canzoni vengono massacrate nell’adattamento nostrano; e nel caso di Rodgers, che ebbe questo eccezionale paroliere, Hart, come collaboratore, è spesso abbastanza penoso vederne il risultato. Ci si domanda a volte se gli autori e i parolieri francesi non costruiscano così una specie di barriera di protezione doganale contro la canzone americana che dispone di vantaggi commerciali troppo forti; sabotare con delle parole mediocri una bella melodia è forse, in fin dei conti,un riflesso di protezione da parte degli autori. Innumerevoli sono così i temi di qualità che un maldestro (siamo educati) adattamento condanna alla spazzatura più maleodorante. Per un Toi qui disais più riuscito che l’originale, quanti Saint-VaurienLa Saint-Vaurien è l’adattamento fatto da Jacques Larue di uno dei migliori prodotti dell’equipe Richard Rodgers-Lorenz Hart, My Funny Valentine. Certo, l’originale è quasi impossibile da rendere… ma perché cadere nel teppismo, e proprio in questa canzone? Non desidero farmi nemico Jacques Larue; ha scritto delle canzoni piacevoli e Cerisier Rose et Pommier Blanc ne è un esempio molto interessante, ma egli ha mai esaminato le canzoni di Lorenz Hart? Hart merita adattamenti più fedeli e più curati; era uno scrittore abile e ricercato, un maestro della versificazione leggera e brillante; in questi casi, non era il caso dunque di cambiare l’idea della canzone. Lo so, Henri Contet aveva già scritto La Saint-Bonheur ed è molto noiosa, ma questa era una ragione in più per non scrivere La Saint-Vaurien. Si ha l’impressione leggendo il suo testo che Larue si sia sforzato di essere grossolano; ora, se certe musiche richiamano la volgarità delle parole, My Funny Valentine sembra richiedere esattamente il contrario.
Nella fattispecie si tratta di un adattamento che, se non è conforme allo spirito originale, è almeno dignitoso tecnicamente. Ma a volte si oltrepassano i limiti: non resisto al piacere che ho di mettere i puntini sulle i… Il mio proposito non è quello di attaccare astiosamente il collega, ma di porgli domanda: perché? Prendiamo questo Faisons semblant di cui è responsabile André Hornez e che fu cantata in modo così affascinante da Nat King Cole ( nella sua versione americana).

Faisons semblant d’être à Capri,
La lune est là qui nous sourit.
Rêvons que le soir est grisant,
C’est facile de faire semblant…

Facciamo finta di essere a Capri,/ la luna è là che ci sorride./ Sogniamo che la sera sia inebriante,/ è così facile far finta…

Fin qui stiamo nei limiti… è un po’ banale, d’accordo, ma l’originale anche. Ma ecco come tutto va a peggiorare:

Le vent soupire un chant trés doux,
Faisons semblant que c’est pour nous…

Il vento sospira un canto dolcissimo, / Facciamo finta che sia per noi…

Fermiamo il massacro qui. Ribellarsi contro la grammatica va benissimo, ma non si può arrivare anche a straziarla vigliaccamente. “ Faisons comm’ si c’était pour nous” 5 per umanizzare tale carneficina. È un mito questa leggerezza da farfalla che una solida tradizione attribuisce ai “poeti”?… (Ci perdoni, signor Hornez, ma ciò dimostra almeno che lei è stato letto con attenzione…)
Alla razza degli autori e dei parolieri aggiungiamo dunque quella degli adattatori, che dovrebbe ricordare una cosa: il mestiere del traduttore si impara. Oh, d’accordo, per adattare un rock di Elvis Presley non conviene preoccuparsi basta affidare il lavoro ad un illetterato, e lo spirito del modello sarà rispettato … Ma Porter, Hart, Brecht e diversi altri meritano altrettanto rispetto di Trenet o Brassens se li si dovesse adattare in una lingua straniera.

Ritorniamo al nostro autore. Ha terminato il lavoro insieme al compositore. Entusiasta, l’autore si mette alla sua macchina da scrivere; furioso il compositore impugna lo spartito (scrivere la musica è il momento della noia, soprattutto quando il compositore non la conosce…). Stilata la canzone, i nostri due complici corrono a munirsi di un bollettino di deposito, lo firmano, vi scrivono il titolo, il genere (nessuno ha mai saputo cosa mettere in quei casi; alcuni sono convinti che vi si scrive: piano-canto), ricopiano sul retro del foglio le prime otto battute di ogni tema così anche le parole corrispondenti e presentano la loro canzone allo sportello della S.A.C.E.M. Là gli si fa notare che il loro titolo originale non è più tale poiché ce ne sono già quattro simili; cioè quattro vecchie canzoni già ne portano uno uguale. Ma, dopotutto, essendo già quadruplice, non darà fastidio a nessuno. Verranno rimproverati con cortesia perché, per ragioni di intelligibilità, hanno presentato separatamente il testo dattilografato e si mettono sul tavolo imprecando per ricopiarle sullo spartito; alla fine, viene registrata la loro canzone aggiungerla al catalogo e restituirgliela qualche giorno più tardi, dopo misteriose manipolazioni.

Ecco pronta la canzone. Rimane da affrontare, nell’ordine che si desidera, l’interprete e l’editore. Per scucire molto denaro all’editore, si ha tutto l’interesse a procurargli uno o più interpreti (tranquilli, l’editore si rimetterà in pari). Di conseguenza, passiamo senza indugi allo studio sommario dell’interprete, questo nuovo elemento di una catena che va dall’idea, sorta un bel giorno in un ribollente cervello autorale, fino alla bocca sdentata di una vecchia signora gorgheggiante, nell’anno 2025, un mambo sentito una sera d’agosto del ‘58, sera funesta in cui lei incontrò il brufoloso studente del Politecnico che le avrebbe fatto generare undici bimbi, tutti futuri generali.

Nota di effeffe

Il brano è tratto da Boris Vian, MUSIKA & DOLLARONI. Contro l’industria della canzone – a cura di Gianfranco Salvatore, plus CD live, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, traduzione di Michele Vietri e in occasione del FESTIVAL DELLA LETTERATURA RESISTENTE sarà presentato il 7 dicembre, ore 17 – Strade Bianche, via Zuccarelli 25 a Pitigliano: /Vian mon amour/ con Gianfranco Salvatore, Michele Vietri, Angelo Olivieri, Marcello Baraghini

Alle ore 21,30 – Teatro Salvini, Piazza del Comune (Pitigliano): Quartetto Vian in concerto: /En avant la Zizique!/

DOPO CONCERTO – Libreria del Ghetto, via Zuccarelli 260:/La nuit de Vian/ – tributi e testimonianze

NOTE
  1. Société des Auteurs, Compositeurs, et Éditeurs de Musique, organismo che ha lo scopo di percepire e di ripartire i diritti d’esecuzione spettanti alle opere dei suoi membri. N.d.A.🡅
  2. Timbres nel testo originale. N.d.T.🡅
  3. Perché, ci si domanda. N.d.A.🡅
  4. Il romanzo La Modification di Michel Butor, uno dei maggiori esponenti del Nouveau Roman, è scritto tutto in seconda persona e al presente. N.d.T.🡅
  5. “Facciamo come se fosse per noi”🡅

4 COMMENTS

  1. Effeffe, mi hai dato il desiderio di visitare Voyelles e di bere un alcolico certo in un prossimo giro.

    Una canzone populare è un miracolo di semplicità e di melodia che danza nella mente, un vincolo allegro tra la gente. Ascoltare o canticchiare fa vedere la vita in rosa. Una canzone populare si armonizza al sentimento dell’amore. Una canzone triste si armonizza con un cuore in pena, dà musica alla tristezza, diventa una tristezza dolce.

  2. certo molte canzoni popolari resteranno nella memoria collettiva più di tanti prodotti artistici più ponderosi – considerato in particolare che oggi abbiamo a disposizione mezzi miracolosi per tramandarle… pensiamo a quale interesse riscuoterebbero oggi i cori di sofocle o le canzoni di bertrand de ventadorn se potessimo ascoltarle.
    la libreria voyelles è un avamposto eroico della cultura che consiglio a tutti di visitare…

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francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017