Appunti sulla poesia in prosa e/o viceversa

di Marco Simonelli

Poema in prosa? Prosa poetica? Come si chiama quella roba che i poeti scrivono senza andare a capo? E perché un poeta (che in genere si avvale di unità versali per comporre un testo) prende a scrivere tutto di seguito? È poi vero che questo famigerato poème en prose sia più praticato all’estero che in Italia? Partiamo da Baudelaire col suo Le Spleen de Paris e muoviamoci verso le versificazioni futuriste più di rottura, procediamo in direzione de La Notte campaniana ed esploriamo alcune scritture del nostro ‘900 oggi fra le più trascurate dai lettori come quelle di Jahier e Gatto. È questo il percorso della prima parte di un saggio di Paolo Giovannetti Dalla poesia in prosa al rap – Tradizioni e canoni metrici nella poesia italiana contemporanea uscito l’anno scorso da Interlinea. Giovannetti, oltre ad essere un ineccepibile studioso e conoscitore della poesia italiana, è un critico che ha il pregio di esprimersi con estrema e studiata chiarezza di linguaggio, pregio che lo rende accessibile anche ad un pubblico non necessariamente di studiosi o accademici. Tuttavia i suoi studi non hanno un carattere divulgativo, anzi, sono ricerche rigorose che spaziano dalla ricerca sulla tradizione della poesia italiana alle forme contemporanee e limitrofe come, nel caso di questo saggio, la canzone d’autore o il rap intesi come forma di linguaggio artistico. Giovannetti, per sparare un po’ di nomi, ha dedicato pagine a Caparezza e a Frankie HI NRG.

Dalla poesia in prosa al rap risponde ad alcune delle nostre domande iniziali. Ma noi potremmo idealmente allungare il tragitto del prose poem italiano sia esso di ispirazione lirica, con intenti narrativi, con aderenze sperimentali o semplicemente espedienti grafici. In questo caso si dovrà attraversare l’ampio territorio della neo-avanguardia e passare per molti luoghi testuali di Amelia Rosselli, Giampiero Neri e Valerio Magrelli spingendoci oltre Antonella Anedda, Gabriele Frasca, Tommaso Ottonieri e moltissimi altri per incontrare due autori nati negli anni ’70 capaci di dimostrare che questa non-forma, questo ibrido potenziale, questo “grado zero della metrica” è tutt’ora vivo e vegeto nonché praticato.

Tecniche di basso livello di Gherardo Bortolotti (Lavieri, 2009) è una raccolta di prose binarie non progressive: i blocchi di testo disposti a due a due sulla pagina, in coppie apparentemente slegate tra loro, sembrano seguire una numerazione casuale e contribuiscono anche visivamente a creare nel lettore uno spaesamento iniziale. Nelle “regioni periferiche del benessere” di una città senza centro e senza identità si muovono dei personaggi-nomi (hapax, bgmole, eve: solo il nickname sembra differenziarli) alle prese con un quotidiano continuamente declinato in un tempo imperfetto: si crea così una sorta di epica remota di eventi comuni; una scrittura che parla da un non meglio identificato “dopo”, un’epoca contemporanea vista attraverso uno specchio convesso che la rende lontanissima, quasi residuo memoriale d’un brandello di sopravvissuti a una catastrofe mai identificata, mai nominata. Come ne L’anno scorso a Mariembad i personaggi si muovono in una dimensione temporale ambigua, bloccata in un passato che potrebbe tranquillamente essere il nostro presente, ogni movimento ed ogni azione generano ripercussioni psicologiche riprese da un narratore onnisciente che inquadra un livello interno, più che basso. Bortolotti usa una costruzione sintattica complessa che spesso prende avvio da dati concreti per poi svilupparsi e riverberare, tramite analogia, nella coscienza dei protagonisti. Il risultato è un poema muto e corale sullo spaesamento, brani di realtà compressa sul punto di essere dimenticata che sopravvivono in dettagli, in abitudini, in gesti casuali la cui importanza sembra rivelarsi decisiva solo a posteriori.

Oltre ad essere scrittore in proprio, Bortolotti svolge anche l’attività di editor curando la collana Chapbooks dell’editore Arcipelago, collana in cui è uscito nuovo paesaggio italiano di Alessandro Broggi, altro libro in cui il non-metro sembra essere il punto di partenza per la ricerca e la messa in pratica di nuove forme su cui poi praticare un movimento di variazione o reiterazione.

Inezie, uno dei primi lavori di Broggi (Lietocolle 2002) fu, forse non a caso, prefato da Giampiero Neri. Ha fatto seguito il progetto Quaderni aperti nel Nono quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007): il lavoro di Broggi si distingue per un preciso intento neutrale; una cronaca paratattica di fatti, di appunti che sembrano presi e fissati sulla pagina in previsione di un ulteriore sviluppo a cui il lettore non ha accesso, un occhio esterno che in poche frasi registra l’essenza di un’esperienza o di un personaggio accostando oggetti tangibili e disparati. Nuovo paesaggio italiano si compone di 29 testi, ognuno intitolato “nuova situazione”, suggerendo l’ipotesi di una successione che in realtà viene continuamente elusa. Ogni testo, diviso mediamente in due o tre brevi paragrafi, è incentrato su un personaggio diverso. Spesso è il personaggio stesso a parlare, a nominarsi, a descriversi; altrove un occhio coinvolto ne introduce le vicende. Dalla malinconia alla mancata maternità, dal lutto all’insicurezza, dall’amore alla solitudine, la sintesi estrema di Broggi costruisce personaggi capaci di suggerire, tramite uno stretto giro di battute, tutto il peso della propria vicenda esistenziale. Si tratta di una tecnica raffinata e tagliente: eroi apparentemente banali in autoritratti minimalisti che pure esprimono tutta la complessità psicologica dei personaggi di un romanzo.

Scorrendo le bibliografie di Broggi e Bortolotti, possiamo constatare che gran parte del loro lavoro è stato sviluppato e pubblicato nell’area di contaminazione per eccellenza: la rete. A questo punto viene da domandarsi se il cosiddetto prose poem, praticato da questi come da altri autori contemporanei, possa essere considerato non solo come recupero di una forma/non-forma legata, come abbiamo visto, alla tradizione letteraria, ma anche come conseguenza di una modalità di scrittura digitale, una sorta di forma-post (dove quest’ultimo termine andrà interpretato nella duplice accezione di “ciò che viene dopo” e “testo pubblicato online”). Un post (almeno agli albori del fenomeno blog) deve rispondere in qualche modo a delle caratteristiche ben precise, prima fra tutte la brevità (onde non affaticare gli occhi del lettore/fruitore); un post si inserisce come una entry di matrice diaristica in un blog e quindi porta con sé, se non proprio l’intento, almeno l’impressione di una serialità potenziale; infine (mero dato pratico che potrebbe avere il suo peso in un’eventuale e più sistematica ricerca) il verso non si adatta facilmente al linguaggio html, necessita di continui inserimenti di a capo e non sempre le spaziature multiple sono inseribili (solo in tempi recenti le piattaforme sono diventate più intuitive e permettono la pubblicazione di testualità altre, diverse dalla entry in prosa).

Si tratta ovviamente di ipotesi tutte da verificare. E sappiamo che ne avremo presto l’occasione: presso Le Lettere di Firenze è appena uscito Prosa in prosa, libro che contiene, oltre a testi di Broggi e Bortolotti, anche quelli di Andrea Inglese, Marco Giovenale, Michele Zaffarano e Andrea Raos; le note di lettura sono di Antonio Loreto e l’Introduzione è curata proprio da Paolo Giovannetti.

38 COMMENTS

  1. “In questo caso si dovrà attraversare l’ampio territorio della neo-avanguardia e passare per molti luoghi testuali di Amelia Rosselli, Giampiero Neri e Valerio Magrelli”…vorrei semplicemente aggiungere, perché per ME è la prosa-poetica per eccellenza (se si parla di neo-avanguardia, come “i novissimi” propriamente detti…), “La ballata di Rudi” di Elio Pagliarani…”e invece ha senso pensare che s’appassisca il mare”.

  2. credo che le ipotesi di simonelli siano tutte verificabili e che sarebbe un interessante esercizio verificarle. un esercizio adatto a una tesi di laurea, se fosse possibile in italia assegnarne di simili. credo anche che possano essere estese a caratteristiche non soltanto formali ma strutturali retoriche e perché no contenutistiche sempre dipendenti dalla pratica di scrittura in rete. sono sicuro che esiste già una letteratura su questo paradigma di – passatemi il termine – “peer-to-peer creative writing”, anche se non ne sono a conoscenza.

    una osservazione: la prosa (poetica) è il “grado zero della metrica” in broggi e bortolotti, ma in linea generale non si dovrebbe dimenticare la possibilità (e forse l’esistenza) di altre pratiche e tradizioni, per esempio di prosa fortemente ritmica (per restare nell’era cristiana: dal vangelo di matteo in poi).

    saluti,
    lorenzo carlucci

  3. Grazie a Luigi.

    Luciano: hai perfettamente ragione, qui, per motivi di spazio, mi sono limitato ad un elenco parzialissimo, Pagliarani è da includere certamente

    Lorenzo: Grazie del commento! Ah, sarebbe veramente bello poterlo fare! Il mio voleva essere solo un intervento direi “informativo”. E sulla prosa ritmica hai perfettamente ragione.

    Ancora non ho forwardato il link a bortolotti e broggi ma rimedio presto.
    xxx
    m.

  4. Certo oggi quella che era un’ovvia sentenza del maestro di filosofia di Molière – “Tutto quello che non è verso è prosa, tutto quello che non è prosa è verso” – sarebbe anacronistica e ad essa non si possono che preferire la definizione “prose poem”, o meglio ancora quella proposta da Carlucci “peer-to-peer creative writing” …
    Ora, posto che la differenza in essere tra le due forme di scrittura sta nel senso etimologico dei due termini – prosa, è la sostantivizzazione dell’aggettivo latino “prosa, -ae”, che significava “che va diritto, senza interruzioni”, al contrario il “versus” indicava il “vertere”, ossia il voltarsi su se stesso per tornare indietro, e che il “tornare indietro” del verso su se stesso ha il compito di conferire al verso una spezzatura quale pausa di respiro, ma anche – e soprattutto – quello di ripetere, tornando-si indietro foneticamente, uno schema ritmo-metrico basato su un calcolo di simmetrie ed asimmetrie – credo sia necessario focalizzare l’attenzione sul fatto che tanto in poesia quanto in prosa, l’autore esprime attraverso voci e personaggi, che colloca in un dato tempo ed in un determinato spazio, pensieri, riflessioni, emozioni, movimento ed azione, realizzando una sorta di regia fatta di parole che, come fotogrammi, scorrano nell’immaginario del lettore.
    Non dimenticando le origini “liriche”, quindi musicali, insite e proprie della natura ed origine del verso, come è già stato detto nel testo di Simonelli, l’evoluzione del concetto poetico dalla seconda metà dell’Ottocento subisce una contaminazione prosastica (i Piccoli poemi in prosa di Charles Baudelaire), ma – nello stesso modo – sarebbe opportuno annotare che “contaminazioni liriche” sono presenti in molte opere narrative, una tra tante Conversazione in Sicilia di Vittorini, così com’è vero che romanzo e racconto ebbero origine in forma versificata, pur essendo poi divenute massima espressione prosastica, dunque non mi pare per nulla strano che oggi – quasi per “contrappasso” – si possa assistere al fenomeno inverso, ovvero, al prolificare di forme di poesia assolutamente spogliate dell’originario senso del suono che sembrano sfiorare e corteggiare la libertà “narrativa” della prosa (modernamente intesa).
    La metrica è un concetto “normativo”, preesistente al testo, che ne regola la creazione, al contrario il ritmo è parte integrante della stessa creazione del verso da parte del poeta ed agisce all’interno stesso del divenire della stessa creazione poetica, incidendosi “ad orecchio” nella concretizzazione verbale per mano del suo autore, che liberamente decide di volta in volta l’intonazione che vuol conferire al suo componimento.
    Quid dell’espressione poetica resta, comunque, il versus – più lungo, più corto, consecutivo, poi spezzato, riprodotto otticamente a specchio, etc … – non tanto per la sua caratteristica segmentazione del fluire del linguaggio, quanto per il suo carico di tradizione ritmica che, attraversata l’esperienza metrica tradizionale, approda attraverso l’adozione del “verso libero” – che genericamente raccoglie le varie forme di versificazione che non sottostanno alla regolamentazione metrica tradizionale – a nuove forme compositive prosastico-narrative che sperimentano e riproducono schemi di scrittura il più aderenti possibile alle realtà lessicali ed espressive attuali, che talvolta appariranno di immediata fruibilità da non confondere tutte – banalmente e qualunquisticamente – con superficialità e mancanza di ricerca linguistica e di stile (che però spesso ci può anche stare :).

  5. Continuo a leggere come punto di riferimento primigenio e fondamentale (nel senso di fondamento) della prosa poetica i Piccoli poemi in prosa di Baudelaire; ma è un errore sostanziale più che formale. Il vero salto quantico avviene con Rimbaud (STAGIONE ALL’INFERNO, ma soprattutto ILLUMINAZIONI); rispetto a lui Baudelaire è timido, scolastico, al massimo accademico. E’ vero che gli ha fornito lo spunto, ma Rimbaud ha trasformato questo spunto in uno slancio en avant che resta tuttora insuperato – e forse insuperabile. Lo scarto terroristico operato da Rimbaud nei rapporti fra significati e significanti, il suo orecchio assoluto nei confronti del suono delle parole, della musica anzi che vive e danza nelle parole, la sua sbalorditiva capacità d’accostare concetti remoti con una violenza convincente e apodittica, la sua disinvoltura nel decostruire e ricostruire realtà assurde ma tangibili, tutto ciò e molto altro ancora ha schiuso un’avventura linguistica abissale che quelli venuti dopo hanno sbirciato solo in superficie. Si tratta, incredibile dictu, d’una nuova lingua; una lingua che attende ancora un degno prosecutore. La mia è un’affermazione forte: ma penso che, una volta lette le ILLUMINAZIONI, ogni altra esperienza di prosa poetica figuri come un minus, una tisanina dopo l’assenzio.
    Altro è ciò che riguarda il romanzo, la cui natura di contenitore onnicomprensivo ha permesso a mio avviso una contaminazione prosa/poesia dagli esiti anche elevatissimi. Cèline, Berhnard, Wallace, Gadda, Ellison e parecchi altri hanno inventato ritmi prosastici originali e realmente creativi, strutture narrative rivoluzionarie fondate essenzialmente sulla forma del linguaggio (e cioè hanno in certo modo anteposto il modo di raccontare al contenuto del raccontare). La poesia invece essendo soltanto forma (non so se mi spiego, intendo dire che tutto ciò che la poesia ci dice conta fin tanto che ce lo dice in maniera esteticamente apprezzabile) richiede uno slancio e un rischio e un’originalità maggiori; richiede letteralmente una nuova forma, richiede che non soltanto l’abito ma anche il monaco si tramuti, anzi che la trasformazione dell’abito trasformi il monaco ficcato indistricabilmente nell’abito.

  6. caro marco,
    per quel che mi riguarda, il legame con la produzione on line è molto forte – molto più che non con la tradizione (soprattutto italiana) di scrittura di prosa lirica o poesia in prosa (semmai, i miei modelli sono prosatori anomali come calvino o manganelli ma anche, facendo un super-passo indietro, dossi – chi altri? ;-)
    il discorso chiaramente sarebbe molto lungo ma diciamo, in poche parole, che nel momento in cui ho iniziato a scrivere sui blog le costrizioni (in senso neutro – o, meglio, quasi perechiano) che il mezzo mi imponeva mi hanno permesso di liberarmi da alcune reticenze che avevo nel procedere in una scrittura basata sulla sequenza anodina, sull’elencazione, sulla giustapposizione, e di ridurre la mia produzione alla questione della formulazione di una stringa alfanumerica più o meno complessa, lasciando da parte le questioni dello stile (del bello stile), della misura, del ritmo, ma concentrandomi solo sul contenuto (nel senso proprio del web di “produzione di contenuti”) e su una relazione con la produzione letteraria centrata non (solo) sul testo.
    sottolineo velocemente ancora una cosa. le prose che alessandro o io (o gli altri autori di prosa in prosa, per esempio) possiamo proporre hanno un tratto caratteristico che, riprendendo rosselli, tu metti giustamente in gioco: c’è un cambiamento di misura che non ha più una natura ritmica ma quantitativa nel senso più immediato (e alludo a spazi metrici). il discorso sarebbe molto complesso e confesso di temere di non essere in grado di farlo ma riprende sicuramente quello che dicevo prima sul “contenuto”.

    @ natàlia: secondo me la definizione molieriana è ancora quella migliore! e mi ricordo che, negli anni della confusione, con zaffarano si era deciso che se allineavamo a sinistra era poesia e se giustificavamo era prosa ;-)

  7. bortolotti scrive: “[…] mi ricordo che, negli anni della confusione, con zaffarano si era deciso che se allineavamo a sinistra era poesia e se giustificavamo era prosa ;-)” allora nella verifica delle ipotesi critiche di simonelli i concetti vanno raffintati distinguendo poeti microsoft che usano word, poeti mac, poeti linux, poeti latex, poeti plain text etc. e ovviamente poeti C++ come cronacchia.

    lorenzo c-

  8. Grazie per i commenti.
    Se fosse possibile sarei interessato anche all’opinione di broggi e giovannetti.
    sempre più ansioso di leggere prosa in prosa!
    credo che riprendere un eventuale dibattito/confronto su questo argomento sia da mettere tosto in agenda.

    @lorenzo: per una definizione provvisoria ma credo pertinente io proporrei la definizione di “scrittura open-source”!

  9. “open-source” non mi pare. non è previsto né richiesto l’intervento altrui. almeno a quanto ne so. o sì?

    lorenzo

  10. Sì, ci sono in effetti alcune cose che vorrei aggiungere sulla mia piattaforma complessiva di lavoro, e ringrazio Marco per questa opportunità, oltre naturalmente che per la sua acuta analisi, che ho molto apprezzato.

    Semplificando molto: credo in una scrittura “antiletteraria” – come tensione veso una lingua e verso modelli, format, generi e cornici, non invalsi -, una scrittura non plusvaloriale, che non si pensa come soluzione ma come “sintomo”. Che non recita ma si mette a nudo.
    Più in generale, come già detto altrove, ritengo che dipingere “paesaggi bucolici” non rappresenti più la nostra realtà, che illustrare situazioni d’evasione, della fantasia o della memoria, significhi oggi assumere una posizione nostalgica e politicamente marginale.

    A un certo punto della mia formazione ho privilegiato un’attenzione ai fatti della scrittura e del mondo, più di tipo analitico linguistico che letterario in senso stretto. Propendendo per uno stile semplice, assertivo, denotativo e non connotativo, essenziale, sgombro, di grado zero se necessario: ero e sono più interessato a una poesia e una prosa del concetto e della consapevolezza che alla liricità e all’espressione: senza cioè accensioni o verticalità metaforiche, e finanche in posizione dialettica rispetto alla visione classica (Jakobson, Sklovsky ecc.) della letteratura come qualcosa di formalmente diverso e linguisticamente contrastivo rispetto alla media lingua d’uso.

    Nemmeno, pratico un’opera che prometta al lettore il (e si fondi sul) mero e quieto rispecchiamento nell’io dell’autore, o in una figura di soggetto che per la poesia coincide tradizionalmente con l’autore (precisamente, con l’esibizione – mediata – di una presunta interiorità occulta, dotata di corpo esperiente, che si pone in modo onnisciente rispetto al proprio dettato). Tale tutta (o quasi (?) tutta) la lirica.

    Nelle prose di Nuovo paesaggio italiano e nell’Antologia per Prosa in prosa, e in modo diverso nel lavoro con le quartine, a cui sto attendendo da alcuni anni, gli strumenti sono quelli dell’interpolazione di materiali e paratesti dei media – da internet appunto, da pubblicità, giornali e dal mondo della comunicazione in generale. Che sono (purtroppo?) l’acqua in cui ci troviamo a nuotare.
    Un po’ come per Dante erano il volgare fiorentino e l’universo teologico medievale.

    La prospettiva, dal punto di vista degli strumenti come della gestione del senso, non è cioè per me quella della “creazione del nuovo”, bensì la pratica di strategie come la postproduzione di dispositivi testuali vigenti, il riuso critico, il riepilogo, l’ostensione; ancora, il metalavoro e la riduzione a materiali delle strategie dei mondi comunicativi e testuali possibili, come delle cornici e dei contenitori dei cosiddetti “generi”: la prosa, la poesia, il saggio critico… e delle componenti retoriche atomiche dei generi: l’asserzione, la descrizione, il commento, il dialogo, la presentazione, la rappresentazione, la scansione, il verso (ove ne faccio uso, come mera misura contenitore, feticcio)… e delle componenti testuali minime: la frase, la coerenza, la consistenza, eccetera eccetera.
    Si è trattato, in alcuni casi, di scendere sullo stesso piano della normale comunicazione odierna formata sui modelli sociali dei media, sugli immaginari vincenti e sugli stereotipi discorsivi ed emotivi di una quotidianità sempre più annegata nei luoghi comuni dell’infotainment e del consumo – imperanti ad esempio su Internet e nella più comune empatia televisiva -, se necessario riusandone i “materiali”, le situazioni comunicative e le strategie, per smascherarne dall’interno la superficialità e la vuotezza, l’inautenticità e l’ideologia. Oppure, in altri casi, si è trattato di “riprendere” non senza ironia i discorsi stessi vigenti sul mondo dei media. Anche per noi poeti e prosatori credo sia importante mantenersi attivi rispetto alla produzione linguistica e alle retoriche della qualità di massa [se necessario, come per quanto mi riguarda in molti lavori apparsi proprio su Prosa in prosa, studiando l’”assottigliamento” dei “rapporti” che ne consegue]. E il web, con tutte le sue modalità, ne è uno dei canali primi. Parafrasando Bourriaud: tutti gli elementi di tale produzione sono utilizzabili e nessuna immagine pubblica deve beneficiare dell’impunità, per qualunque motivo. Che nessun segno resti inerte, che nessuna immagine sia considerata intoccabile…
    “Niente è nascosto, ogni cosa è sotto i nostri occhi” (Wittgenstein). Fuori dalla cornice rassicurante della letteratura la cosa è invero piuttosto semplice, banale azzarderei: tutto, o quasi, è testo, e in quanto tale è oggettivabile, studiabile e manipolabile, per qualsivoglia fine. E prosa è tutto ciò che non è poesia, cioè (ovviamente) praticamente quasi tutto venga scritto e pronunciato.

    Le prose di Quaderni aperti sono invece da ascrivere lavori di montaggio, rispetto a parametri diversi; sono studi sui “materiali” (linguistici e discorsivi), sull’interpunzione, sul riuso di citazioni indifferenti, sull’enunciazione e sulla frammentazione/dislocazione testuale del punto di vista.

    Questo quello che credo di stare facendo con la scrittura, se poi l’opera verrà apprezzata o denigrata per altre ragioni, nessun problema. Per fortuna a un certo punto ha una vita propria…

    Segnalo infine, non troppo a margine:

    http://gammm.org/index.php/2009/04/23/paragrafi-sulla-scrittura-concettuale-kenneth-goldsmith-2005/
    http://www.ibs.it/code/9788843027965/zzz1k1456/lingua-italiana-e-i.html
    http://www.ibs.it/code/9788881767731/antonelli-giuseppe/lingua-ipermedia-la-parola.html

    A presto,
    Alessandro

  11. Cari Gherardo e Alessandro,
    alla vigilia della presentazione di Prosa in Prosa, possiamo ampliare la discussione? Una domanda che vorrei fare ad entrambi: in che cosa la vostra scrittura si riconosce (o non si riconosce) in quella dell’altro?
    Mi piacerebbe rivolgere questa domanda a voi due potendo, se possibile, sentire anche il parere degli altri di Prosa in prosa (prosainprosati per brevità, d’ora in avanti).

  12. beh, tra i miei testi e quelli di alessandro c’è un rapporto abbastanza paradossale perché hanno un taglio ed una misura molto simili (sotto certi punti di vista, tra i vari testi presentati su prosa in prosa, sono quelli più vicini) ma arrivano a quei risultati omogenei da strade completamente diverse.
    la differenza principale è che, mentre quasi tutto il materiale che uso è prodotto da me, alessandro attinge sistematicamente da testi altrui. allo stesso tempo, mentre io lavoro ancora nello spazio della narrazione, alessandro utilizza i modi del narrare in termini puramente strumentali.
    e se, da una parte, tutti e due ci riferiamo all’universo della comunicazione (in modi diversi ma con la stessa percezione, credo di poter dire) e cerchiamo di ricavarne una scrittura fredda e anodina, dall’altra alessandro è estremamente asettico mentre io cerco di sfruttare il tono freddo come innesco di un ulteriore tono patetico (a modo mio, chiaramente ;-).

  13. io non sono di prosa in prosa ma mi permetto di intervenire:

    il testo è un testo per addetti. addetti e dotti. fa un po’ paura. tante le citazioni.. brrr. e le parole difficili… personalmente non ho capito nulla
    se non che ancora si vuole informare l’ invenzione poetica. non pensavo esistessero persone che si domandano

    “… Come si chiama quella roba che i poeti scrivono senza andare a capo? E perché un poeta (che in genere si avvale di unità versali per comporre un testo) prende a scrivere tutto di seguito? È poi vero che questo famigerato poème en prose sia più praticato all’estero che in Italia? ”

    come si chiama quella roba… uhm. poesia no?se lo dicono i poeti che la scrivono chi altri pò dirlo? anzi i poeti dei poeti se ne impippano di come andrà a chiamarsi… non credo che la sua definizione possa cambiare le sorti dell’ universo ma forse creare convegni conferenze autoreferenziarie con rinfresco si.

    comunque se possono esistere prosatori anomali potranno ben esistere poeti anomali, no? figuriamoci, da qualche parte della rete sono nati anche i poeti anonimi (mi chiedo se non sia un gruppo di sostegno al “vizio” pericoloso della poesia…)
    un saluto
    paola

  14. @ gherardo, grazie per la precisazione! Quello che tu hai identificato con tono patetico credo risieda nella “modulazione di scarto” che dai ai tuoi periodi (è la cosa che mi aveva colpito di più nel tuo libro). E’ vero, in un certo senso la scrittura delle tecniche è fredda ma non lo definirei un libro freddo, anzi. Ha una dimensione da epopea che secondo me si sviluppa a partire proprio da quella modulazione “patetica” o semplicemente più lirica (termine da intendersi in accezione plurima!)
    grazie ancora!

    @cara polvere: mi spiace, non credo di aver avuto per questo post nessuna attitudine divulgativa. la questione mi interessa assai, capisco che non possa interessare chiunque. non mi sento né addetto né dotto, piuttosto un lettore appassionato: anche leggere e commentare è in un certo qual modo poesia (in prosa critica, ecco, mettiamola così). Se comunque ti capitasse di leggere Bortolotti o Broggi spero che questo mio parolame difficile non ti influenzi negativamente e che, anzi, tu possa leggerli serenamente e magari condividere le tue impressioni. mi interesserebbe assai. grazie dell’intervento comunque!

  15. oddio, vado a dormire con un interrogativo esistenziale:
    quale sarà “l’accezione plurima” dell’aggettivo femminile singolare “lirica” in questo contesto?
    :-)
    (comprerò il libro per cercare di scoprirlo)
    buona notte

  16. @ Marco Simonelli

    grazie a te della risposta anche se il “comunque” dopo il “grazie dell’ intervento”, potrebbe anche suggerirmi che avrei fatto meglio a non commentare… e non c’è alla fine non c’è un nome per quella cosa che i poeti scrivono di seguito infischiandosene delle code di unità versali che intasano le autostrade della poesia: io ne suggerisco oltri due oltre a “POESIA ANOMALA” che ho scritto nel primo intervento e sarebbero:

    1) RACCONTO IN VERSI (non è lo stesso che prosa poetica o poesia prosaica?… ) come viene chiamato su una tua biobibliografia su LietoColle un tuo testo dal titolo “Memorie di un casamento ferroviere del ’66” della Florence Art)

    oppure SCRITTURA DI RICERCA (e perché non potrebbe essere chiamata tale?) come viene chiamato il tipo di scrittura appunto di ricerca proposto nell’ antologia “Prosa in prosa” a cura di acuti autori e teorici (autori e teorici di cosa? teorici/autori di poesia? teorici/autori di prosa? tutti e due? di nessuno dei due ? )di cui anche Nazione Indiana dà notizia. sui suoi fogli elettronici.

    ps: comunque ho in mente da tempo il progetto di scrivere per terra una poesia lunghissima tutta la circonferenza del mondo, che attraversi tutte le nazioni… e non potrò andare a capo se vorrò chiudere il cerchio.
    un saluto e ancora grazie,
    paola

  17. @ marco

    ha detto benissimo gherardo: non posso che concordare.

    @ cara polvere

    “scrittura di ricerca” può forse funzionare meglio come dicitura ombrello, in qualche modo sovraordinata alla questione prosa/verso.

    qualcosa di simile a quanto proponi – ma si trattava di una linea e non di una poesia – l’aveva pensato anche piero manzoni

  18. @ Alessandro Broggi
    grazie per avermi risposto.

    dicitura ad ombrello… sono in seria difficoltà lessicale al profilarsi di scale gerarchiche… eheheh.
    ho letto in una tua nota di poetica che che ti occupi di scrittura antiletteraria… bello d’ enigmatico anche questo termine.

    in quanto all’ idea del manzoni non lo sapevo… immagino una linea tracciata. si, ma tracciata con cosa? … comunque c’ è già l’ equatore anche se immaginario… ad ogni modo se così è allora dato che il verso può anche chiamarsi linea ecco combinata tra manzoni e me un’ artistica interazione
    un saluto
    paola lovisolo

  19. Caro Marco,

    grazie per la tua attenzione a queste forme di scrittura che, essendo minoritarie nell’ambito della nostra tradizione, si tende ad ignorare o catalogare criticamente in modo frettoloso.

    Penso che “Prosa in prosa” sia un punto di arrivo di percorsi partiti in totale autonomia, e che si sono ad un certo punto affiancati, avendo così pure il tempo di iniziare una riflessione su di sé e di svolgerla in gruppo. Il progetto iniziale del libro era addirittura un’antologia ampia e trasversale dei tanti frequentatori della prosa, riconducibili o meno a una formazione propriamente poetica. Poi però ha prevalso l’esigenza di iniziare in modo più compatto e meno dispersivo, per mettere a frutto appunto una storia che non era più solo di singoli.

    Detto questo vengo alla tua domanda. Quello che mi sembra emergere da questo libro è una evidente varietà di modi-toni-timbri. Magari alcuni procedimenti ricorrono in tutti, alcune ossessioni tematiche e figurative, ma l’esito è quanto mai divergente. E questo non può che essere, per me, un dato positivo.

    Le mie prose, che si sviluppano a partire da un nucleo già apparso nel 2007 in un libretto della Camera Verde (Prati / Pelouses), sono credo le più vicine a forme di racconto, di short prose, di quelle di tutti gli altri gammici. Io costituisco, per certi versi, la polarità più narrativa del lavoro così come Raos, mi sembra, la polarità più poetica. In mezzo, diversamente disposti nel territorio neutro della prosa, Bortolotti, Broggi, Zaffarano e Giovenale disegnano uno spazio complesso.

    La mia scommessa, nei “Prati”, è duplice: sperimentare forme di ritmicità percussiva, nel movimento lineare e continuo della prosa (riferimento remoto il Beckett de L’innominabile), da un lato, e forme di discontinuità figurativa, lessicale, tematica all’interno della forma a carattere convergente e centrato del racconto breve.

  20. @Andrea:

    una curiosità, parli di percorso e l’evoluzione personale della scrittura non può che essere tale, un divenire attraverso modi, tempi, ascolto, scelte…
    come ho già detto, sono curiosa di leggere il libro qui presentato, onestamente, più per curiosità verso ciò che scrivi tu che per altro, senza nulla togliere agli altri che conosco davvero poco e sarà un’occasione per farmene un’idea più “densa”.
    Dunque la mia domanda: sai bene che ho “amato” molte delle tue “lettere” (la VII, la IX e se non ricordo male la XII, in particolare), c’è un nesso tra queste prose e le lettere pubblicate qui l’anno passato?

    n.

  21. @ Natalia: (e sperando che Inglese venga a contraddirmi o ad aprire discussione; il mio è più un sentore che una certezza critica).

    Io credo che le Lettere alla reinserzione possano (anche) essere interpretate – considerandole complessivamente e cronologicamente nell’opera di Inglese, e in particolare rispetto ai Prati – come una polarità e via-di-fuga/sviluppo, sempre meno “letteraria”, simile a quella che dalla fine degli anni settanta condusse Porta a sviluppare una “posizione”, un dettato totalmente differente dai primi lavori eppure, se ne dica quel che si vuole, intimamente a questi connesso, coerentemente necessitato.

    Chiedo scusa per questa intrusione – spero non troppo sgradita. Ho pensato di approfittare del tuo commento per rivolgere/moltiplicare la questione ad Inglese.

    Un caro saluto, e a tutti gli altri,

    F.T.

    F.T.

  22. a natalia,
    prendendone uno discreto, ne guadagni altri cinque ottimi!

    Beh, slogan pubblicitari a parte… Mettiamola così: avere più o meno cento lettori come ne avrò io, in quanto poeta, fornisce una sorta di straordinaria noncuranza nei confronti della scrittura. Insomma, si può lasciar veramente libero corso alle proprie più intime ossessioni e fantasie. Quindi compiuto un percorso, a me viene subito voglia di aprirne un altro, dieverso, che mi offra possibilità espressive mai prima esplorate o che riconfiguri dei temi ossessivi.
    Quindi ho portato avanti i “Prati” e ho scritto “Le lettere” perché erano qualcosa di ben diverso dalla misura raggiunta con “La distrazione”.

    Per me entrambi i testi sono, e in questo ha ragione Fabio Teti, in ogni caso uno “spostamento” stilistico e di tono rispetto alla distrazione, insomma un rompere gli schemi.

  23. allora farò un affare! :-)

    non credo tu abbia un centinaio di lettori (modestia di cui non puoi godere), quello è un mio privilegio, comunque capisco l’esigenza di “rinnovamento” ed “esplorazione”, guai a non averla…

    grazie. n.

  24. Ciao Marco, grazie per la domanda.

    Rispetto al lavoro degli altri, sul mio la prima cosa da dire è forse che in prosainprosa ho deciso di mettere un pezzo di un libro (mai pubblicato per intero) che ho scritto tra i 10 e i 15 anni fa, più o meno. Quindi niente blog né (quasi) internet, è una scrittura molto più selvaggia da questo punto di vista.

    A livello formale, l’idea era di prendere i tratti essenziali della poesia (l’espressione ritmata di un io lirico, più o meno) e della prosa (la terza persona, la narratività – altrettanto più o meno) e di iniettare gli uni nel corpo degli altri, fino a metterli in cortocircuito costante.

    Sullo sfondo musica, cinema e arti figurative (e le relative “scritture”) come proiezioni o “terze persone” possibili.

    E dietro lo sfondo, una reazione fisica di rifiuto nei confronti de 1) gli schemi della produzione intellettuale, 2) le forme di costruzione dell’identità sociale e dell’interazione (Goffman era all’epoca uno dei miei numi), 3) un conato di vomito nei confronti dell’Italia in quanto (di nuovo) soggetto sociale e politico (si era all’indomani della prima vittoria elettorale dell’attuale Presidente del Consiglio e del mio espatrio, in parte provocato da questa).

    Alla partenza e all’arrivo del libro, in modi diversi, le stesse domande: è possibile uscire dalla letteratura? e dalla società? e (già che ci siamo) dalla vita? Uscire, intendo, il più possibile indenni dal dolore e dal male – subiti e soprattutto causati.

    Più o meno è questo.

    Il risultato, come puoi immaginare, è un solenne, sereno casino :-)
    Rileggendolo, le uniche cose di quel libro che ancora oggi mi convincono sono l’irriducibilità e il grande amore – non so in che altro modo chiamarlo – che lo spingevano.

    Thank you for your time :-)

    Ciao,

    Andrea

  25. cari prosainprosati,
    vi ringrazio delle risposte: il volume mi ha raggiunto due giorni fa e, terminate alcune incombenze familiari/festilenziali (leggere natale) mi immergerò nella lettura (English, io i prati ce li ho! In versione camera verde, attendevo l’expanded mix!)

    quest’estate (la Matteoni mi sia testimone) i libri di broggi e bortolotti mi hanno molto colpito (proprio alla luce del saggio di giovannetti). questa è stata l’estate dello sconquasso sessualpseudopolitico del possidente del consiglio. mi è capitato di ripensare a quando avevo 14 anni ed egli si autoungeva per la prima volta. qui adesso scatta una sorta di empatia con raos. non so quanto questa pseudotesi possa stare in piedi ma percepisco una sorta di legame fra l’urgenza di una (più) forme che siano ibrid’azioni e la nostra (sua) situazione politica. come se il verso non ne reggesse più il peso? come se servisse il blocco del paragrafo a sorreggere? sia chiaro, è elucubrazione simonelliana di mezzanotte e cinque…

  26. Caro Marco, non riduco tutte le mie scelte di scrittura a una cura omeopatica nei confronti dell’attuale PdC (non se lo merita) – ma più globalmente sì, sono convinto che si scrive anche per reagire alla realtà, e ho sempre trovato naturale far interagire e cozzare le forme con questa. Poi si fa anche altro ovviamente: si viaggia, si traduce, si allarga il mondo. Per fortuna.
    *
    Mi sono accorto di non avere davvero risposto alla tua domanda sui rapporti fra me e gli altri autori di prosiprosa.
    Inglese è un caso un po’ a parte: siamo amici da più di vent’anni, e ho perso il conto delle idee che lui ha fregato a me e io a lui :-)
    Gli altri 4 invece, senza distinzioni, per me sono soprattutto scrittori da cui ritengo di avere tutto da imparare. Ci provo.

  27. sul legame situazione politica/ricerca di nuove forme, mi limito a sottolineare due cose di cornice che credo possano valere per l’antologia prosa in prosa e per il lavoro in genere degli autori che vi si trovano:
    – quel legame non è tanto con una situazione spicciola (come in prospettiva è l’ennesima scelta rozzamente autoritaria della borghesia italiana nel suo appoggio a berlusconi – in questo senso sono d’accordissimo con raos: non se lo merita ;-) ma con un quadro più generale che comprende la questione della comunità, della posizione dello scrittore al suo interno, la specificità delle trasformazioni in corso negli ultimi decenni, etc. etc.
    – non esiste una scrittura che non sia politica (a prescindere dai temi e dalle intenzioni) perché la scrittura è uno dei punti in cui la comunità si forma. inoltre, però, ci sono alcuni testi che coscientemente si pongono il problema di fornire degli strumenti alla propria comunità, anche nell’ottica di una sua “deformazione”, di un suo riposizionamente. tra questi metterei certamente i testi di prosa in prosa.

    ps: raos! dopo tutto quello che c’è stato tra di noi mi consideri solo sotto il freddo segno della scrittura… io che credevo, io che speravo… ;-)

  28. grazie a Marco per questa bella opportunità di entrare nel laboratorio della prosa in prosa e di sondare soprattutto due scritture vicine/differenti come quella di Alessandro Broggi e di Gherardo Bortolotti.

    inoltre:
    avverto una affinità di fondo nelle sei scritture del libro fuoriformato, ed è un’affinità probabilmente (e felicemente) riferibile, per tutti i sei autori, non tanto a modelli passati o a una dialettica di prosa e verso, quanto a sintonie precise con testi (fuori-genere) e linee di ricerca che sono 1, non italiane; 2, contemporanee; 3, legate al (ma anche libere dal) digitale.

    sui punti 1 e 2 torno sempre, tutte le volte che, per esempio in letture pubbliche o incontri sulla poesia contemporanea in giro per l’Italia, si omette di dire (e si omette sempre) che da circa 30 e forse quasi 40 anni la scrittura di ricerca francofona e anglofona, che si fa in tutto il mondo, in italiano semplicemente *non è tradotta*. non c’è, non la trovate sugli scaffali, o non la trovate con quella facilità che vi fa pescare Rimbaud, Cummings, Woolf, Stein, al massimo Noël.

    se vai in libreria trovi Bonnefoy, non Tarkos, Espitallier, né tutti i nomi che gammm.org traduce (sono parecchi). trovi il beato beatificato beat, non Derksen, ma nemmeno Bernstein, Hejinian, Silliman, Watten…

    è perfino citabile il caso del ‘decano’ Ashbery, ora ultraottantenne, lasciato per quasi 3o anni pressoché senza traduzioni (esaustive/complessive/comprensive). come fosse stato normale, ad esempio, non tradurre Eliot per altrettanti decenni, nel secolo passato.

    i sei autori di gammm e di *Prosa in prosa* sono tutti anche traduttori o per lo meno lettori avidi di traduzioni (di testi contemporanei). o sono lettori dei testi di cui sopra, in lingua originale. (oltre che, normalmente, interlocutori o talvolta amici e sodali di alcuni dei tradotti).

    hélas, c’è un vero e proprio cono di buio editoriale sulla scrittura ‘di ricerca’ francofona e anglofona degli ultimi trenta-quarant’anni.

    [questo, per inciso, ha contribuito a quella prospettiva a mio avviso falsata che induce alcuni critici della sperimentazione e della ricerca a ricondurre *ogni* esperimento a codici ‘datati’ o (addirittura!) ‘perdenti’. la mancata traduzione, nel trentennio demo-craxiano e poi fininvest, di opere di ricerca, ha creato o meglio favorito in loro l’illusione che il blocco italiano fosse mondiale, dunque ha perfettamente funzionato da mancata mappatura di ciò che di vivo e attivo succedeva e continuava a succedere quasi ovunque]

    gli autori che *poi* si sono ritrovati in gammm hanno bypassato o anzi combattuto questa non trasmissione, questa mancata traduzione e tradizione, quel buio, praticamente da sempre. in particolare penso al lavoro di traduzione di Inglese, Raos, Bortolotti, Zaffarano.

    e non è per niente un caso che siano giusto loro, si può dire, a tentare di rendere giustizia a queste pagine, a portarle in italiano. e, in simmetria e sintonia, e in piena indipendenza, a discorrere in italiano, tra differenze e analogie, con quelle esperienze. non sono (del tutto) esperienze italiane. di qui la necessità – e la bella opportunità – di spiegarne taluni caratteri, come sembra accada (anche qui, nel thread di questi giorni).

    sul punto 3

    i primi testi di ricerca (certo pubblicati in rivista) praticamente da tutti gli autori di gammm – nati fra 1967 e 1973 – non solo non erano online (non c’era la “line”) ma talvolta nemmeno registrati come files. tutti o quasi tutti noi abbiamo vissuto una fase anche lunga di primi contatti con riviste e prime traduzioni attraverso dattiloscritti.

    forse si può generalizzare, questo appunto accodato alle riflessioni fatte? non so. per alcuni tra noi (un “noi” qui forse generico) la scrittura dialoga sicuramente e volentieri con i bytes, con tutti i mezzi elettronici (a dirlo è un “avid blogger”). ma nasce e smargina dagli spazi normali della tipografia e dei generi per motivi e modi e moods che (anche) prescindono dalla plasticità e ricchezza della rete come dello stesso pc.

    sicuramente, l’ipotesi del testo *post* non è solo un’ipotesi ma un fatto, e le pagine di draft in blogspot o wordpress che usiamo non raramente come blocchetto di appunti e prime stesure sono realissime. ma quel che voglio dire è che questo è uno strumento che intreccia rapporti di reciprocità (causa-effetto con freccia in due direzioni) venendo comunque – cronologicamente – davvero post, dopo, rispetto a esperienze ed esperimenti fatti (e conosciuti) con scritture e letture degli anni – ormai decenni – andati. siamo vecchietti, si vuole dire.

    se si parla di “nuove testualità” (anche recentemente a RicercaBo) non è perché siano così folgoranti-nuove le scritture, ma perché è formidabilmente fuori sincrono e ostruente o proprio sordo il discorso o meglio decorso editoriale italiano (mainstream soprattutto).

    quest’ultima nota non vuole affatto ridimensionare il ruolo della rete, e della scrittura elettronica soprattutto, ma sottolineare come gli esperimenti o alcuni esperimenti di nuove testualità (con tabulazioni particolari o meno, così come in blocchi di prosa nudi e crudi, o comunque con linee retoriche non usuali) hanno un punto forte di sintonia, semmai, nelle invenzioni degli anni Sessanta-Settanta, poi in una linea (sempre non italiana) di continuità nelle esperienze dei poeti successivi, fino a questi anni recenti.

  29. Recensione di Matteo Fantuzzi, su “La voce di Romagna” (14 dic. 2009)

    Che cos’è la Poesia ? Bella domanda. Nell’immaginario è una serie di pensieri messi in un foglio in cui “ogni tanto si va a capo”. Ecco normalmente si pensa che sia questo fare Poesia e se vi capiterà di leggere questo libro scritto da alcuni dei più promettenti, conosciuti scrittori di quella generazione che va bene o male tra la seconda parte degli anni Sessanta e la prima parte degli anni Settanta ecco di “a capo” non ne troverete manco uno. Eppure sono tutte poesie. Succede in definitiva che quello che all’estero è abbastanza comune, negli Stati Uniti o in Francia ad esempio, il verso lungo, il discorso prosastico in Poesia qua in Italia lo si consideri percorso di nicchia, adatto a pochi, da pecore nere in sostanza. In realtà se ci avviciniamo a quello che questi ottimi autori ci presentano con questo libro ritroveremo un’aria che non solo ci è nota ma che è presente nel DNA, nell’ossatura del nostro modo di fare letteratura. Leggendo Broggi, Bortolotti, leggendo Raos o Inglese, Giovenale o Zaffarano non potremo non ritrovare innanzitutto il passo e il modo di quell’Elio Pagliarani da Viserba di Rimini che anche nelle nuove generazioni consciamente o meno inevitabilmente segna. E sarà così interessante ritrovare anche tratti di una Poesia che certamente considereremmo meno affine a questa, perché se giustamente questi lavori vengono accostati ad esempio all’opera di Nelo Risi certo sarà più sorprendente ritrovare come a mio avviso accade i lunghi elenchi che caratterizzavano “Il disperso” di Maurizio Cucchi, ma per avere un tramite è sufficiente tenere a mente l’epica raccontata attraverso gli oggetti che Pagliarani aveva fatto sua attraverso “La ragazza Carla”. Come allora così anche oggi il verso lungo (prosastico o meno) porta ad una maggiore riflessione, descrive con colori chiari, rende il campo lungo che questi autori vogliono rappresentare raccontando una società complessa come è quella contemporanea. Per farlo e rimanere contemporaneamente nella Poesia c’è bisogno di immagini nette e strutture anche linguistiche armoniche, per farlo c’è bisogno di un respiro che non può essere solo nostro, ma che si deve rifare all’altrove e al passato. Solo così recuperando e guardando oltre si può descrivere quello che abbiamo di fronte, se non lo si fa la funzione di chi scrive viene meno, con grave danno della letteratura.

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francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.