Anelli – Su Suttree di Cormac McCarthy

di Marco Rovelli

 

suttreeLa fuga viene alla fine, stavolta. Nel romanzo di Cormac McCarthy Suttree (che risale al 1979, e che finalmente è stato tradotto da Einaudi), nessun esodo nel deserto, come in altri suoi romanzi, nessun inseguimento. Solo un esodo interno, per così dire, un vagare incessante nei margini di una città, nelle sue miserie e mostruosità che poi sono il cuore stesso dell’umano. Macerie, relitti, baracche, acque nere e mortifere ingombre di rifiuti, carcasse d’auto, tracce di petrolio, liquami e preservativi sugli alberi: “un fatiscente mondo incantato”, quello dove si muove e vaga Suttree, pescatore sul fiume. Nel mondo di Suttree “non si è mai al sicuro”, come gli dice il cenciaiolo, l’uomo degli stracci. Ed è nell’assenza assoluta di sicurezza che sta la piena universalità di questo mondo incantato dei margini: nella vulnerabilità dell’umano esposta al limite. “Sono forse un mostro?”, si chiede Suttree, una di quelle persone – come dice del proprietario di una cadente taverna – che”non ha licenza di vivere”: ma quale uomo ce l’ha, e per quale mandato? Ecco, la teratologia disegnata da McCarthy diventa una straordinaria antropologia: in questo universo popolato di figure eccentriche, liminali, l’umano si confronta con l’alterità installata nel suo cuore. Un universo di storie che si incrociano: carcere, risse iperboliche che ti catturano nel vortice senza ragione, sbronze e nausee colossali, omicidi – ogni storia compiuta in se stessa, ognuna con il suo carico di meraviglia. Storie che si snodano e si avviluppano nei sobborghi di una “città qualunque”, quella Knoxville che poi è la città natale di McCarthy, e che nella sua trasfigurazione letteraria diventa città universale: esattamente come Suttree, di fronte all’abiezione assoluta della morte (quella del cenciaiolo, e la propria), comprende ad un tempo di essere una singolarità irriducibile (“di Suttree ce n’è uno e uno soltanto”), e che “ogni uomo è tutti gli uomini” (e ribadisce, poi: “Tutte le anime sono un’anima e ogni anima è sola”). Suttree racconta l’infinità della sofferenza umana, e nel medesimo movimento l’infinita potenza della vita. E quel che resta, alla fine della lettura – “alla fine della fiera” – non sono tristezza o amarezza, ma un proliferante senso di vita, della sua potenza.

Potenza che apre il libro: le prime pagine sono di una densità lirica stratosferica, un troppo pieno di dettagli allucinati, visioni lucide come “la lamiera galvanizzata” delle baracche di Knoxville. Del resto la scrittura di McCarthy è una tensione continua al “singolare”, per tracciarne la forma unica e irriducibile: e per far fronte allo scacco che è in agguato ad ogni passo, ad ogni parola, non cessa di stendere la sua rete sulle cose catturando un di più di realtà. Visioni lucidissime. Come quelle che tagliano il racconto, come fasci di luce da altri mondi, visioni in soggettiva mulinanti di percezioni concatenate in una scrittura che lascia senza fiato: l’ascesa di Suttree alla montagna e il suo incontro con creature soprannaturali, o intrapsichiche (un’anticipazione della morte: del resto nei Rig Veda il primo morto, Yama, si arrampicava sulla montagna); la magia che lo trasporta in una dimensione extratemporale; e l’incontro possibile con la propria morte, dove il tempo si addensa finalmente nell’eternità del passaggio. E poi ci sono anche visioni d’amore – impossibile, e pure necessario. Come la delicatissima storia d’amore con una giovanissima ragazza in una fallimentare avventura fluviale alla ricerca di perle senza valore, o come la storia con una prostituta che fallisce perché la natura di un Suttree non può accettare stasi, perché per un Suttree “tutto è sempre in movimento”, tutto è fuga senza fine. E una fuga è sempre, ogni volta, alla fine, e ogni fine ci riporta all’inizio.

(pubblicato su l’Unità il 13/12/2009)

12 COMMENTS

  1. Caro Marco, mi piace questa recensione perché traspare il tuo amore per la scrittura di McCarthy, che condivido in pieno. Sono proprio a corto di letture “toste”, quindi grazie :–)

  2. I libri di McCarthy li ho letti quasi tutti (mi mancano IL GUARDIANO DEL FRUTTETO e IL BUIO FUORI), e questo è il più bello. Meglio anche di MERIDIANO DI SANGUE. Un capolavoro di stile e profondità. Ha ragione Rovelli quando parla di lingua materica, solida eppure evocativa. L’eterno girovagare di Suttree è una grandiosa metafora dell’umano, più ancora dell’odissea di padre e figlio ne LA STRADA. In più stavolta McCarthy se la cava bene pure in quello che è, a mio avviso, il suo punto debole: l’amore. Le due storie sentimentali vissute da Suttree sono entrambe credibili e tenere, ognuna a suo modo. McCarthy è a mio avviso uno dei più dotati scrittori viventi.

  3. @ Mauro – Buon Suttree allora, e viva la tribù dei mccarthysti :-)
    @ Enrico – Non so fare graduatorie, ché McCarthy lo amo un po’ tutto, però Il buio fuori era forse il mio preferito, prima de La strada e di Suttree. Diciamo che in un gradiente dove a un estremo c’è Meridiano di sangue e all’altro Cavalli selvaggi, Il buio fuori sta in mezzo. Il guardiano del frutteto, invece, mi aveva lasciato un po’ così, troppo imitativo, faulkneriano, e poco mccarthyano…

  4. Tash, mi hai fatto ridere, ti vedo lì che leggi e ti incavoli, se lo ha usato sarà perché è proprio uno schifo e non una generica barca, poveri traduttori, comunque non lo avevo mai sentito nominare, non mi intendo di barche, ma il palazzi mette schifo come barca addirittuta prima di schifo come disgusto

  5. Però questa tua razione è un sintomo, scusami se per un attimo ti prendo a modello di lettore medio, che non sei, ma il fastidio, o la pigrizia del lettore davanti alla parola sconosciuta, o desueta, gli editori la conoscono bene, e volendo fare cosa gradita spingono il traduttore e lo scrittore a toglierla, perché chi legge non deve perder tempo a usare il dizionario, se non la sa, è un ostacolo a un buon consumo, e così si impoverisce non solo il lessico, è un freno che alla fine diventa autocensura e si va in discesa.
    Bisognerebbe pensarci un po’ su.

  6. Grazie, Alcor, per quel tuo commento sulla pigrizia indotta, sull’opporsi alla decerebrazione del lettore (o anche solo alla sua de-dizionarizzazione). Grazie da editore che combatte, da editore di Suttree, che schifo l’ha proprio voluto e orgogliosamente difeso.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.