La terra di Piero
Partono i bastimenti
di
Piero Berengo Gardin 1
Non sono le fotografie di Jacob A. Riis sulla vita e il lavoro degli emigrati negli ‘slums’ della New York otto-novecento, né quelle di Lewis W. Hine, ugualmente famose, degli operai appesi nel vuoto dell’Empire State Building. Non sono le immagini inchiesta di Paul Strand sulla Luzzara post-neorealista di Cesare Zavattini, né le foto bibliche di Sebastiao Salgado o la celebre effige del ‘manovale’ di August Sander. Sono piuttosto la testimonianza diretta di un’ampia antologia tutta italiana sulla fatica, il lavoro e l’esodo di coloro che furono attratti dal miraggio di una terra promessa. Vediamo dunque perché questo tipo di fotografia ha quel qualcosa in più che la distingue da qualsiasi altra, ricordando a distanza di tempo un’operazione di rilevamento etnografico multimediale indirizzato ad una vasta platea televisiva.
È il 1976 e la RAI cambia faccia. La cosiddetta ‘legge di riforma’ divide grosso modo l’azienda in due: rete uno ai cattolici, rete due ai laici. In generale chi fa i programmi può scegliere di stare o da una parte o dall’altra. Personalmente scelgo l’altra affidata alla direzione intelligente e ‘liberal’, diremmo oggi, di Massimo Fichera, storica e collaudata scuola olivettiana per qualità di lavoro e comunicazione sperimentale.
Con Virgilio Tosi, partendo da precedenti esperienze cinematografiche e di interessi comuni nel campo dell’immagine, pensiamo un programma innovativo fatto esclusivamente con quelle fotografie che qualsiasi italiano conserva di solito nei propri cassetti, in modo da costituire un quadro quanto più ampio possibile del nostro paese riguardo storia, costume, ambiente e società. Nasce così Album, fotografie dell’Italia di ieri, sedici puntate per otto ore di trasmissione e un successo di consenso per la RAI che convince moltissimi spettatori ad inviare per l’occasione le vecchie foto di famiglia.
«È un programma involontariamente sconvolgente», scrive “Il Messaggero” in occasione della prima messa in onda il 26 aprile 1977, «una documentazione irrefutabile dell’angosciosa, misera, disperata e ridicola follia del nostro passato prossimo. Ecco l’Italia… Dite, vi piace ancora?». Il programma piace e ha molto successo.
L’Italia che ne consegue, forse, un po’ meno. Appare un Paese in cui la parte più povera e diseredata dedica al lavoro la quota più rilevante delle proprie energie documentandone spontaneamente diritti e disparità, abbandonando soprattutto case e cose per andare lontano ad emigrare chissà dove. Evento, oggi, da non dimenticare.
Fotografie e testo che pubblichiamo in questo numero di SUD sono tratti proprio dalla sceneggiatura del segmento del programma che ci riguarda più da vicino: lavoro ed emigrazione, cause e fenomenologia. Maledicevano la loro Italia e se ne andavano a migliaia con il passaporto rosso dei poveri, stivati nelle navi, le tolde imbrattate di vomito, nutrendosi di rabbia e combattendo tifo e colera. Genova, Napoli e Palermo sono i porti di partenza della grande emigrazione italiana di massa.
Circa 25 milioni di italiani dall’unità ai nostri giorni hanno lasciato il Paese: più della metà non ha fatto ritorno. Molte delle loro fotografie testimoniano la lunga odissea di un esodo che ha pesantemente condizionato lo sviluppo economico e la crescita civile del nuovo Stato italiano. La nostra storia unitaria, ben al di là delle versioni ufficiali, è anche storia di briganti ed emigranti passati per le armi piemontesi o inghiottiti dall’Atlantico, per più di trent’anni mare di speranza e di appestati. Lasciavano la terra coltivata dalla fame, le donne avvolgendo alla testa i fazzoletti, uomini e ragazzi appuntato sul berretto il marchio di emigrante per carne da lavoro.
Questo tonnellaggio umano, specie nel Mezzogiorno logorato dal potere borbonico, produceva a suo modo i primi autentici atti eversivi. E furono repressioni e guerriglie contro contadini che difendevano il diritto alla fame in nome della terra che volevano lavorare. Molti di loro scelsero la macchia e furono chiamati ‘briganti’. Tra i superstiti scampati agli eccidi in massa del Regio Esercito, molti scelsero la via del mare e divennero ‘emigranti’. Buona parte della realtà del mezzogiorno unitario si condensava così in questa drammatica alternativa: o brigante o emigrante. A sud del Paese l’agricoltura resta la sola risorsa economica di intere province. Per molti di noi agli inizi del ’900 l’America, anche se lontana, è l’unica via d’uscita. Per averne desiderato una diversa molti connazionali hanno lasciato nel loro paese l’unica libertà che veniva loro concessa, quella di andarsene via con le due lire pagate per il passaporto rosso, un fagotto di stracci e due soldi di speranza. Alla vigilia della prima guerra mondiale 14 milioni di forze attive venivano sottratte alla terra madre. Caricati come bestie, gli emigranti sfidavano tifo e dissenteria a bordo di vecchi battelli usati un tempo per la tratta degli schiavi.
Li chiamavano i vascelli della morte. Uno di loro vagò per tre mesi affondando cadaveri. Erano vecchie carcasse dove sotto il segno comune della miseria e della solidarietà intere popolazioni viaggianti si accampavano anche allo scoperto tra le infezioni degli animali da macello, un piatto tra le gambe e il pane tra i piedi. Dal 1880 al 1915, vigilia del primo conflitto mondiale, oltre 4 milioni di italiani si diressero verso gli Stati Uniti passando il varco della ‘porta d’oro’. Così era chiamato l’approdo di Ellis Island dove accanto alla statua della libertà la città di New York aveva eretto un edificio destinato a raccogliere temporaneamente e a smistare la folla degli emigranti. Sotto l’ombra protettiva della bandiera americana, esposta nel gran salone di attesa, i sopravvissuti alle sofferenze del viaggio passavano gli esami di idoneità fisica, mentale e ideologica necessari per essere ammessi nella nuova comunità. Difetti del corpo, malattie degli occhi e della pelle, debolezza organica e sospetta anarchia erano ostacoli insuperabili. Dei 4 milioni che tentarono la sorte la maggior parte andò ad ingrossare i ghetti delle tante piccole italie vivendo alla giornata di miseri espedienti e sfruttati all’inverosimile fin dalla tenera infanzia. Altri tornarono indietro. Ai parenti già immigrati che li avevano attesi invano al largo dell’isola a poca distanza della statua della libertà e a bordo di vecchi barconi, non restava che l’amarezza per la fine di una speranza.
Ritornano a questo punto alla memoria i bellissimi versi di una famosa canzone del 1925 di Francesco Buongiovanni e Libero Bovio:
«E nce ne costa lacreme st’America
a nuie napulitane…
co’ nuie ca nce chiagnimmo o
cielo ‘e Napule,
comme è ammaro stu ppane!»
Ciao Piero…effeffe
NOTE- il 14 dicembre scorso, Piero non ce l’ha fatta. Me lo ha detto Renata Prunas, sua compagna di vita, al telefono questo pomeriggio. L’avventura della rivista Sud, quella eroicamente fondata dal fratello di Renata, Pasquale, avevamo deciso di riprenderla insieme in quella casa romana abitata da un numero infinito di angeli. Tina Modotti, Piero Gobetti, Gianni Scognamiglio, Anna Maria Ortese, Rocco Scotellaro, e tanti altri illustri testimoni, ci avevano accompagnato nel brindisi di rifondazione. Ripropongo questo articolo pubblicato in uno dei primi numeri di Sud per ricordare insieme a tutti i redattori della rivista, la voce di un architetto, regista, storico, ma soprattutto di un fratello maggiore.🡅
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è morto Piero Berengo…
Avevo letto il necrologio su “la Repubblica” ma non avevo collegato…
Un abbraccio fraterno a Renata Prunas e a tutti gli amici di “Sud” 2.
Un articolo interessante, nutrito dalle foto e dalla canzone che entra in melanconia. La terra di Pietro si diffonde in mare, mai cucita tra l’orrizzonte e la casa natale. Piove dal cielo l’ombra di un’immane partenza.
Invece quella che ha perso il suo vivo sentimento di essere al mondo
l’ha trovato adesso in terra napoletana.
grazie forlani
c.
Grazie effeffe per aver ricordato Piero Berengo Gardin.
La tua” poesia semplice per i compagni di retina” (una piccola perla), l’ho postata sul mio blog, oggi, rilanciandola da quello di georgiamada.
Un modo, il tuo, fine per ricordarci che la dolcezza ci è indispensabile.
Bella maniera di fare gli auguri. Grazie ancora.