da “Interni con finestre”
di Stefano Raimondi
Pareti
Ci sono giorni che a raccontarli non basta, storie che non si sentono più, storture che s’imparano piano. E lo so da qui, da questo angolo imparato a memoria a malapena ieri.
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L’hanno trovata con gli occhiali abbassati sul naso e un libro tra le mani: era mattina. Non si è mai saputo quale fosse l’ultima parola che le sia piaciuta tanto. C’era una grotta intorno che poi sembrava un’ombra, un suono, un sogno. Un segno nerofumo appiccicato in fondo alla parete. Una scintilla scappata da una pietra focaia.
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Entrare nelle caverne, nelle facce come uno sguardo da fiammifero e proseguire. Diventare, noi, più bui del buio, fino a illuminarlo, come fanno alcune ombre, che frugano, dal basso in alto, un rasoterra voltato dalla parte del chiaro.
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Da qui l’ho pensata l’illusione: quel qualcosa che possa continuare sempre e per sempre. Da qui, da questa cerchia magra di polmoni e d’occhi puntata verso il niente: proprio come i tetti visti da lontano quando sembrano tutti uniti e non è vero. L’ho pensata, davvero, da qui, ma solo da qui e una volta soltanto, lo giuro!
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Ci sono viaggi che iniziano per niente, come morsi di randagi, come assaggi di voglie sperdute da trovare, come terra e radice insieme da portare addosso come fossero carezze di qualcuno che non faresti mai in tempo a ringraziare, se ti guardasse negli occhi veramente. Gli occhiali da sole riflettono paradisi, posti dove restare per un po’ confusi, come quelle macchioline che non si spostano mai, dalle lenti e le pulisci e restano salde. Apri la bocca, aliti, dai fiato ed ecco l’anima, l’immagine pulita, il posto.
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Ci sono volte che le parole non creano, ma chiamano: fanno un mondo che basta. Sapeva che l’avrebbe tradito e poi ucciso. La finestra sapeva della luce già molto prima dell’ombra, del portacenere, della credenza semiaperta, delle bottiglie rovesciate. Stando qui si poteva vedere tutto, dentro come fuori, in una sola visione, anche dopo un sogno solo, un colpo. Il sangue sarebbe stato lavato subito dopo, da chi si fosse salvato in tempo. La luce rimaneva accesa sulla scena, il buio passava nelle altre stanze. Fuori faceva giorno sulle vie che riprendevano il loro giro come per bastarsi.
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Sono qui tutte le vertebre, tutto l’orizzontale starsene sdraiati come strati sui lenzuoli. Si fanno leggeri gli assassini, fuggono di fronte a chi tace, con tutti gli occhi sbarrati dal colpo. Sentiamoci ancora, avevi detto, standotene in piedi. Sentiamoci finché non mi possa sdraiare ancora e diventare pelle e contorno: orlo. Sono forse così gli affronti, i destini: le parole dette per le promesse.
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I muri di una stanza prima o poi parlano: tengono, raccontano e dopo testimoniano.
Ero a conoscenza dei fatti. Da qui sapevo tutto. Lasciavo che la stanza facesse il resto e le cose il loro corso. Poi ha messo giornali dappertutto. Ha asciugato ciò che poteva e ha pianto. Ha fatto in fretta. L’altro pezzo di cuore batteva vicino allo stipite di destra e nessuno ci aveva mai messo le mani dentro, prima di entrare. Sì nessuno l’aveva mai pregato così. Si dice che le preghiere inizino da dentro.
Non è vero!
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Ci sono case dove il rumore degli altri sale dai muri, dalle canne fumarie. Entra nel letto, invade la testa. Case dove la musica d’altri ha faccia crudele, denti forzuti, che trama dai vetri. E dentro una piazza di stanze si resta a tacere, per dirlo il silenzio, sperando che faccia rumore. Ma la vita fa rumore diceva il ragazzo del piano di sopra, regalandomi intensissimi attimi del suo tremare dentro qualcuno che gridava da fondamenta bellissime.
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Era da lì che scriveva le sue piccole storie, quelle che dicevano tutto: da uno sgombro cucina – un metro e mezzo per uno – sopra una piccola mensola di legno incastrata tra il calorifero e il davanzale. Guardava da lì un mondo di casamenti, giardini e grondaie, paesaggi e cortili, con la stessa luce meridiana esatta di ogni giorno che s’impuntava contro qualche muro: quello della mattina, del pomeriggio e della sera. Ascoltava gli scoli dell’acqua, lo sbattere delle porte, le frasi di chi viveva lì vicino. Aspettava la sua storia più bella. Avrebbe compiuto gli anni il giorno dopo, voleva solo essere più sincero.
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Dicembre. Nessuno se ne accorse. Non avrebbe più visto né neve, né stelle comete. La paura scende come zucchero velato, lascia spazi vuoti: sagome di sangue con respiro. Sembrava fatto tutto di cielo il mondo, con le luminarie spezzate: una lucina sì e una lucina no si accendevano su niente, per nessuno, per caso. È adesso che potrei morire – mi dici stirandoti in un bacio. E fai finire, così, la scena di Natale, la notte, il buio dell’albero, il tuo capezzolo rovinato da un morso.
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C’era ancora silenzio nella via, nessuno avrebbe mai visto, né saputo niente di tutto quello che stava succedendo lì, se un fiore di plastica non fosse caduto dal balcone del primo piano, attirando l’attenzione sulla casa, nella finestra, nel riflesso dello specchio che gridava. Finiscono così i pudori, i segreti, le bugie storte dentro i muri, tra gli stipiti bianchi, sui cuscini.
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Una pelle così non l’avevo mai vista. Eczemata, tirata, buttata tutta verticalmente tra le case, come un’aria, nelle piazze, giù dalle finestre. Si spargeva, si riaccendeva. Faceva capo a ognuno. Stava preparandosi a un banchetto. Si stendeva, faceva spazio agli occhi, agli orifizi. Sognava di volare. Era lì da giorni dentro una carezza ad aspettare di farsi mano, pancia. Aveva un nome tatuato sulla lingua, un paesaggio infetto nel sangue. Era una bocca dentro l’altra. Reggeva come un femore, una frase.
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Si redimono così le pareti: figliando e tacendo. Là dentro scomparve di tutto. Era una finestra tranquilla a vederla da qua. Macchie di sangue sullo zerbino hanno parlato tra loro, attirando attenzione. Si distruggevano piano, a furia di morsi. Era una bella famiglia, rispettata da tutti. Quando fu scardinata la porta, le mani staccate si davano ancora carezze tra loro, come potevano.
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Si sono trovate uova nella cassetta della posta stamani. Non era arrivato nulla a destinazione. La città covava la sua alba tranquilla. L’ovulazione era cominciata da tempo. Le arterie pulsavano veloci sangue nuovo dappertutto. I portoni preparavano l’ombra ai bambini.
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G. faceva anelli per tutti: fedi inascoltate.
«Togliere la luce al rettangolo del mondo, toglierla per pochi istanti e fare che diventi tutto meraviglioso e che potesse di nuovo esplodere nella stanza, tra qualcuno che conosci e ti vuole ancora bene e poi farlo diventare grande, lasciarlo andare ancora come un altro mondo che ti sappia come raccontare daccapo, lontano dal suo inizio. Sarebbe bello che ad accadere ci mettesse un attimo, senza disturbare nessuno, senza rumore: solo fiato.»
C’erano altre cose scritte nel quaderno, dette per la prima volta. Ha lasciato tutto com’era e nessuno avvisato. Aveva un anello al dito, fatto con le sue mani, colorato di blu come le vene, lasciate lì vicino.
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Sembrano non servire a niente certe storie, certe parole conficcate piano. Si sentono da qui gli strappi e i piccoli centimetri di luce spostarsi sopra una finestra sporta sulla scena della scuola, del giardino, del cubo bianco con terrazza. Non cambia nulla da qui, neppure la strana visuale: quella mistura di fondali che reggono vittorie e fallimenti; quelle che portano sotto, vicino alla cantine, proprio come quando si giocava ai corpi stesi e nessun respiro veniva sprecato: buttato. Dall’altra parte c’era sempre chi guardava: spiava. Si accartocciavano, così, i giornaletti negli stipiti delle porte buie. Sarebbero restati lì per sempre. Era tutta una metafora di carne quella carta appiccicata con dentro tutti. Da lì partivano gli inferni e i paradisi, da lì nel buio: sotto la stessa via di sempre, da sempre.
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Alle volte il sole lo vedi dall’altra parte della casa, mentre il temporale è sempre più vicino alla facciata. È da lì che si misura il tempo per farcela o per restare al riparo da qualche parte.
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Sono le nostre vie a impararci a memoria, le case a tenere il conto dei nostri anni, le scale che restano buie a domandare di noi e neppure le cantine se la sentono di tacere, quando non c’è più niente di nostro da nascondere. Abbiamo portato tutto, anche le porte, le finestre con pezzi di sole attaccati ai vetri. Ho il tuo respiro vicino alla finestra che spiffera la nostra storia a tutti. Ho messo lane arrotolate tra i telai, sotto l’inverno che esce nel cortile.
BILOCALE RISTRUTTURATO
E SILENZIOSO VENDESI
Era scritto così l’annuncio: con un altro pezzo di cuore.
(…)
quanto! da stampare, anzi da volere il libro cercare subito. grazie, giampaolo
veramente ma veramente, veramente belle….soprattutto …le vene, lasciate lì vicino…
senza parole.
complimenti all’autore.