Il cinema era la mia casa

Di seguito il secondo testo della manifestazione Sguardi a perdita d’occhio.I poeti leggono il cinema, già pubblicato sul numero 13 della rivista A+L. Gli altri interventi si possono leggere qui e qui.

di Vivian Lamarque

Oggi il cinema è per me cinema e nient’altro, ma nell’infanzia il cinema è stato la mia casa.
Ci entravo che era chiaro e ne uscivo che era buio. La gente stava a casa e ogni tanto andava al cinema, io stavo al cinema e ogni tanto andavo a casa (bè fate un po’ di tara, con i poeti conviene sempre).
Parlo di Le ballon rouge di Albert Lamorisse perché palloncino e bambino protagonista (Pascal Lamorisse, figlio del regista) hanno abitato a lungo gli occhi della mia infanzia e i corridoi della mia memoria dove hanno seminato non poca poesia. Ne cercavo da tempo invano nostalgicamente la videocassetta, quando inaspettatamente Giampaolo Rugarli una quindicina d’anni fa riuscì a trovarmene una fu una grande emozione.
Il film è del 1956 (nel 2006, per il cinquantenario, negli Stati Uniti ne uscì una riedizione molto ben accolta dalla critica), la pellicola non è in bianco e nero ma quasi, con una Parigi proprio grigio-parigi, anche il bambino è sempre vestito di grigio, unica nota di colore, ma un po’ sbiadito anche lui, il palloncino. Il quartiere è il periferico Ménilmontant, lo stesso che nel ’52 aveva fatto da scenario a “Casque d’or”, là come unico cielo gli occhi di Simone Signoret, qui con Lamorisse cielo dappertutto. Il cielo entrò anche nella morte del regista, quarantottenne, per incidente d’elicottero, mentre girava un film in Iran (1970).

Apro una parentesi autobiografica non del tutto fuori tema: negli anni Cinquanta, quando vidi il film, ero nel pieno del mio feuilleton. A quattro anni avevo già perso tre genitori: i due naturali di famiglie in vista che mi diedero in adozione perché illegittima e il più semplice ma grande papà adottivo, Dante, un gigante mite morto per incidente stradale a 34 anni. Poi a dieci anni avevo scoperto che la mamma Rosy con cui vivevo non era la mia mamma di sangue, proprio come non lo era mamma Barberin per Remì in Sans Famille di Hector Malot che stavo leggendo (qui zero tara). Cominciò allora ad appannarsi per me la linea di confine tra realtà e immaginario, quando sparì quasi del tutto mi salvò una lunga felice analisi junghiana con il Dott. B.M.

Rimasta vedova subito dopo la mia adozione, mia madre si fece in mille per crescermi, diventò cassiera di cinematografo; quando ero piccola mi teneva spesso clandestina sotto la cassa, ai suoi piedi, a giocare con i blocchetti esauriti dei biglietti (mi sembra ancora di vederli, rosa chiaro, rosa scuro, azzurrini, violetti); quando ebbi sette otto anni mi lasciò accendere le luci di sala, al di là dei tendoni di velluto rosso la platea buia nera si illuminava, la magìa cominciava. Non stavo più sotto la cassa ma ore e ore dentro la sala a vedere e rivedere sempre lo stesso film (linea di confine addio!) finché non cambiavano programmazione. Li sapevo tutti a memoria, anticipavo le battute. A intervalli arrivava la maschera e con il cerchietto di luce della pila controllava che nessun malintenzionato mi si sedesse accanto. Con gli occhi divoravo lo schermo ma anche il pubblico, al buio tra le file succedeva di tutto, come nella poesia di Raboni intitolata “Cinema di pomeriggio”:

Quasi sempre, a quest’ora
arriva gente un po’ speciale (però
di buonissimo aspetto). Chi si siede
ma poi continua a cambiar posto,
chi sta in piedi, sul fondo della sala, e fiuta,
fiuta rari passaggi, la bambina
mezzo scema, la dama ch’entra sola,
la ragazza sciancata … Li guardo per sapere
che storia è la loro, chi li caccia. Quando
viene la luce penso come il cuore
gli si deve contorcere cercando
d’esser salvo più in là, di sprofondare
nel buio che torna tra un minuto.

Su per una scaletta salivo fino in cabina, come il bambino di Tornatore in Nuovo Cinema Paradiso (ma senza rogo), giocavo con le “pizze” grigio argento, sbirciavo il film dal rettangolino.
Quando tornavo nella casa vuota l’affollavo subito di tutte quelle figure di celluloide inghiottite per ore, le usavo come simil-parenti. Sul tavolo trovavo la cena preparata dalla mamma al mattino, sedevo e i commensali non erano solo “la signora Forchetta e suo marito il Coltello con i loro feroci bambini cucchiaini” (vedi poesia “Cucchiaini” nell’Oscar del 2002), commensali fissi erano anche le ombre pallide di Paulette e Michel di “Giochi Proibiti” (René Clément, 1952), cioè i due bambini che rubavano le croci dalle tombe degli uomini per metterle sulle loro tombe di animali, e l’incantato Marcellino col suo Gesù inchiodato (grandioso Pablito Calvo, film di strameritato successo, ingiustamente giudicato mieloso dalla critica, regista un Vajda ma con la V, non con la W, anno 1955), e poi la prediletta Caterina, la figlioletta della prostituta Martine Carol nella Spiaggia di Lattuada (1953).
Ma capotavola fisso era lui, il bambino del Palloncino Rosso col suo annesso a mezz’aria che non lo abbandonava mai.
Di “Giochi proibiti” avevo persino registrato (con imperfettissimo apparecchio) le voci, non si sentiva quasi niente ma tanto conoscevo le parole a memoria, e poi quel gracchiare lontano mi piaceva, mi faceva paura:
Ma dove vuoi andare?
– Voglio tornare da mamma e papà là sul ponte.
– Non ci sono più sul ponte.
– E dove sono?
– In una buca.
– In una buuuca?
– Sì…
.”

Del Palloncino Rosso non potevo registrare i dialoghi, non ce ne sono, solo qualche voce da strada, il vetraio ambulante (vitrier… vitrier…), il direttore della Scuola Elementare che sgrida il bambino, il bambino che naso in su chiama “ballon … ballon …”.
Le orfanità mi attraevano: con Paulette di Giochi Proibiti ero a posto, aveva perso entrambi i genitori sul ponte credo bombardato. Quella del bambino del Palloncino rosso me la inventai, non ne avevo le prove, comunque era sempre solo o con la nonna vestita di nero, c’era di che sperare. La nonna non voleva saperne di quello stralunato palloncino in casa, tantomeno a scuola il maestro, tantomeno il sacerdote in chiesa, tutti lo lanciavano fuori dalla finestra e una volta anche da una porta, con la scopa.
Lo volevano invece a tutti i costi i monelli di una banda che oggi diremmo di bulli, e allora era tutto un fuggire del bambino inseguito da loro armati di sassi e di fionda. Le loro voci sguaiate e i loro scarponi risuonavano lugubri nei vicoli del Ménilmontant – come quelli degli invasori di guerra – ha scritto un critico americano, e quando infine il palloncino colpito dal capo-banda si affloscia in cima a una collinetta un altro ci ha visto il sacrificio sul Golgota.
Io, bambina degli Anni Cinquanta, in quel palloncino colorato tra tanto grigiore, vedevo qualcosa che oggi potrei chiamare salvezza o poesia, ma che allora logicamente non chiamavo in alcun modo. Però quel rosso faceva ben sperare, me lo portavo nella mia casa di assenze di fantasmi di lutti come una stufetta accesa.
Anzi in una domenica quanto mai solitaria (nei giorni festivi al cinematografo si lavorava anche di più) scovai in casa un pennello e del colore, avanzo di qualche lavoro, non era rosso, era solo blu e anche poco luminoso, ma come un’esaltata mi lanciai lo stesso a dipingere maldestramente tutto quello che di grigio mi capitava a tiro, compresi i pochi oggetti d’argento della casa, il parapetto del balcone, la pattumiera a muro.
Il passaggio successivo (con sollievo materno) fu qualche tempo dopo dal pennello alla penna Scrissi la mia prima poesia. Che veramente erano due: La signora M. buona e La signora M. cattiva. Fu una scoperta esaltante, con una penna in mano potevo correggere la vita.
Non contenta iniziai anche, con una matita rosso-blu, a correggere a piacer mio, nelle pagine dei libri, i finali delle storie. E con una “bianca gomma” a cancellare la realtà quando non gradita:

IL SIGNORE INTOCCABILE

Nei sogni baciabilissimo
intoccabile come un filo scoperto
nella realtà era quel signore.
Allora come fare?
Bastava confondere un poco sogno
e realtà, cancellare con una bianca gomma
l’inutile linea di confine.

IL SIGNORE SOGNATO

Splendidissima era la vita
accanto a lui sognata.
Nel sogno tra tutte
prediletta la chiamava.
E nella realtà?
La realtà non c’era
era abdicata.
Splendidissima regnava
la vita immaginata.

Solo il ricorso a una lunga analisi junghiana riuscirà a ridisegnare per me la non inutile “linea di confine”, a rimettere sul trono o almeno su una seggiola la realtà che era “abdicata”.
Senza per questo perdere l’arma della penna:

PENNINO

Dopo di te
sposerò il mio pennino
e nessun altro
e nessun altro
il mio pennino
d’acciaio affilato
per sempre l’ho sposato.

Molti anni dopo iniziai a scrivere anche ninne-nanne, poi fiabe, per prima “La bambina che mangiava i lupi”. Con la penna quando tutto va male si può sempre svicolare un po’ altrove, con gli occhi semi-chiusi semi-aperti come il sonnambulino Malik in “Papà è in viaggio d’affari” di Kusturica. O come il bambino del Palloncino nel surreale finale (altro che le scope di “Miracolo a Milano”!). O come Antoine Doinel nel finale dei Quattrocento Colpi di Truffaut, quando corre, corre a perdifiato, il colletto del giubbotto rialzato, senza sosta fino a raggiunge il mare, prima la sterminata battigia, poi proprio l’acqua, proprio lui, il mare.

NOTA:
Con il Palloncino Lamorisse vinse numerosi premi tra cui la Palma d’oro, l’Oscar per la migliore sceneggiatura, il Premio della Critica. Nel 2006 una nuova edizione negli Stati Uniti ottenne grandi consensi dalla critica. Nel 2007 il regista Hou Hsiao Hsien gli rese omaggio con “Il viaggio del palloncino rosso” con Juliette Binoche.
Film cult fin dagli inizi per i bambini francesi, comincia ora dopo mezzo secolo a circolare anche in alcune scuole italiane e in qualche casa. Negli anni Cinquanta, breve com’era, (35 minuti), era passato come documentario prima della Settimana Incom, quante volte in sala fui quasi unica sua spettatrice.

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.