SOLDI DEI PADRI, SCUOLA DEI FIGLI
di Giorgio Mascitelli
Questa volta ci sarebbe da dire che non tutte le statistiche vengono per nuocere, perché a differenza di molte che sembrano essere nate solo per conferire un’alea di verità aritmetica all’opinione dominante, quella diffusa dall’OCSE sul legame tra i guadagni dei padri e dei figli presenta alcuni elementi di grande interesse. In breve si tratta di una statistica, apparsa su Repubblica, sulla mobilità della posizione stipendiale dei figli rispetto a quella dei genitori in ogni nazione membro dell’OCSE: se la testa della classifica, ovvero i paesi in cui vi è una maggiore mobilità stipendiale e quindi sociale, non riserva particolari sorprese perché occupata dai paesi scandinavi e l’Austria, ossia quelle nazioni nelle quali lo stato sociale è ancora forte, al fondo delle classifica vi sono alcuni dati meno prevedibili perché i paesi meno mobili risultano essere la Gran Bretagna, l’Italia, gli Stati Uniti e la Francia.
E’ davvero curioso che a contendersi il primato dell’immobilismo sociale sia un paese come il nostro, roccaforte del familismo amorale e della raccomandazione, insieme ai paesi anglosassoni all’avanguardia della modernità economica, spesso citati come modello per uscire da questa nostra arretratezza. In particolare perché i tipi di scuola di questi paesi sono profondamente diversi e secondo l’ideologia dominante è la scuola a essere responsabile principale della mobilità sociale di una nazione.
Nell’ultimo ventennio a più riprese sono intervenuti esponenti politici, commentatori e economisti illustri a spiegare che tra le cause dell’immobilismo sociale del nostro paese c’era, oltre al peso del fisco e a una burocrazia folle, una scuola inadeguata al mondo del lavoro. Per esempio mi ricordo che quando l’allora ministro Moratti andò in televisione per spiegare la sua riforma della scuola, quella i cui decreti applicativi sono stati approvati tra l’anno scorso e quest’anno e sono chiamati comunemente riforma Gelmini, disse che gli USA avevano una mobilità sociale molto maggiore dell’Italia grazie al tipo di scuola che avevano più immediatamente vicino ai bisogni dell’economia nazionale. Quella della signora Moratti non era un’uscita individuale, ma al contrario corrispondeva all’opinione corrente anche nello schieramento rivale perché una delle linee guida dell’ideologia liberista afferma che la possibilità di mobilità sociale dipende quasi esclusivamente dalla qualità dell’istruzione di un paese.
Naturalmente è vero che la qualità della scuola, specie se pubblica e in grado di fornire livelli di prestazione relativamente omogenei, è un’occasione per la mobilità sociale, ma da sola serve a poco se tutta la politica economica di un paese non è indirizzata in tal senso. Nel dibattito pubblico dominato dal liberismo, e quindi nelle opinioni dei tecnici, dei politici e dei grandi giornalisti, invece la scuola diventa l’unico garante della mobilità sociale. Questo discorso sulla scuola ha una funzione fondamentale perché deve nascondere,con la sua insistenza sui meriti dell’individuo all’interno di un’istituzione che da sola garantirebbe la promozione lavorativa, il fatto che la mobilità sociale in realtà dipende da quanti diritti collettivi uno gode e non solo a scuola.
Ma questi dati gettano anche una luce inedita sul caso italiano perché in fondo sembrano testimoniare che le storture più tipiche del nostro paese e che ne costituiscono l’arretratezza, come i mali che derivano dal familismo amorale, producono effetti generali sulla società non troppo diversi da quelli delle politiche liberiste grazie alle quali, secondo un’idea dominante, i mali italiani dovrebbero essere curati. Anzi si potrebbe dire che queste logiche arcaiche hanno trovato un terreno perfetto di adattamento nel contesto della globalizzazione neoliberista perché il liberismo con il suo attacco allo stato sociale favorisce diverse forme di privilegio, sia quelle che assumono vesti moderne e tecnocratiche sia quelle nepotistiche più tradizionali.
Comments are closed.
Notizia interessante, che mi era sfuggita.
Mi da’ l’impressione che quel dato, oltre a parlare del sistema scolastico, parla anche della societa’ nel suo complesso. Il Regno Unito, ad esempio, e’ una societa’ molto classista, in generale. Solo per citare uno dei meccanismi con cui la disuguaglianza si mantiene, il nome dell’universita’ che hai frequentato conta molto in un colloquio di lavoro; quindi chi ha i soldi manda i figli all’universita’ prestigiosa.
Anche se gli USA a prima vista possono sembrare meno classisiti, un meccanismo simile (per quanto rigaurda il nome dell’universita’) di certo esiste anche la’. Inoltre, e’ in realta’ nota da anni la bassa qualita’ dell’insegnamento generalista negli USA.
Della Francia non saprei dire molto, se non il fatto che la segregazione per grandi scuole (Alte scuole di ingegneria o di economia) e’ certamente molto forte.
Mi sorprende la posizione dell’Austria come uno dei paesi a maggiore mobilita’ sociale; SE (ma non ne sono sicuro) hanno un sistema scolastico simile a quello tedesco, sarebbe pensabile come un sistema abbastanza statico.
Dei paesi nordici si puo’ dire quello che si vuole. Di certo la mentalita’ e’ totalmente differente, ma e’ anche da ricordare che in quei paesi c’e’ una forte propensione al rischio nei giovani (20-25 anni), che sperimentano tassi di poverta’ molto elevati (ovvio, in senso relativo), ma che hanno alte probabilita’ di recuperare in termini di reddito pochi anni piu’ tardi.
Normalmente, poi, nei paesi ad elevata crescita economica la segregazione per origine sociale ha relativamente meno peso perche’ la torta e’ piu’ grande per tutti.
Detto questo, che la scuola italiana viva ormai da troppo tempo una crisi profonda, con effetti sulla qualita’ della vita di chi sta per entrare nel mondo del lavoro, e’ cosa abbastanza notoria.
Il senso delle mie parole era proprio quello di ricordare che gli effetti di mobilità sociale dipendono anche da altri elementi, anzi in primis da altri elementi di tipo economico sociale. Naturalmente la scuola ha un suo peso, ma nel discorso ufficiale essa è diventata l’unica fattore di crescita sociale perchè era una sorta di foglia di fico per nascondere la vera natura involutiva di altre politiche economiche adottate.
Quanto alla scuola italiana esse soffre sicuramente di forme di obsolescenza e di una differenzione geografica nella qualità che rischia di compromtterne l’aspetto universalistico delle prestazione, senza però dimenticare che sia per la cultura di una parte del mondo docente sia per aspetti normativi ( la liberalizzazione degli accessi all’università) è uno degli ambiti in questo paese dove logiche familistiche e il peso della famiglia di origine, quello che Bourdieu chiamava il capitale culturale, contano un po’ meno.