La responsabilità dell’autore: Gherardo Bortolotti

[Dopo gli interventi di Helena Janeczek e Andrea Inglese, abbiamo pensato di mettere a punto un questionario composto di 10 domande, e di mandarlo a un certo numero di autori, critici e addetti al mestiere. Dopo Erri De Luca, Luigi Bernardi, Michela Murgia, Giulio Mozzi, Emanule Trevi, Ferruccio Parazzoli, Claudio Piersanti e Franco Cordelli, ecco le risposte di Gherardo Bortolotti.]

Come giudichi in generale, come speditivo apprezzamento di massima, lo stato della nostra letteratura contemporanea (narrativa e/o poesia)? Concordi con quei critici, che denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea?

Premetto che non credo, in genere, ai discorsi apocalittici e che la mia impressione è che, in Italia, più che vitalità manchino visibilità e attenzione per determinati tipi di produzione testuale. Detto questo, però, mi preme ammettere che ho dei seri problemi nel rispondere compiutamente alla domanda.

In effetti, al di là di qualche impressione più o meno argomentabile, non ho idea di quale sia lo stato della letteratura italiana e, soprattutto, non ho idea di quale sia lo stato del costrutto “letteratura nazionale” e di tutti gli aspetti che lo stesso costrutto implica.

In poche parole, quello che intendo è che, per prima cosa, i numeri della produzione sono davvero altissimi, molto al di là di una loro possibile ed efficace rielaborazione in una figura unitaria, o almeno organica, da identificare poi come “letteratura italiana”. Questo aspetto vale specialmente per una figura di “intellettuale part-time” come potrebbe essere la mia, costruita sui tempi residuali che il mio “lavoro vero” lascia al mio “hobby letterario”. Mi attardo su questo particolare biografico, che potrebbe sembrare una mera nota di colore (spero, davvero, non un’excusatio non petita), perché è il secondo punto che vorrei sottolineare, ovvero che ho anche l’impressione che gli operatori di quella che dovrebbe essere la nostra letteratura siano sempre più spaesati, orfani di un ruolo e di una collocazione chiari nel gioco sociale che è la letteratura e, più in genere, la produzione di discorsi. Anche questo, in effetti, contribuisce a rendere ulteriormente sfocato, incerto, anodino l’oggetto su cui la domanda mi chiede di esprimere un giudizio.

Non parlo, poi, del peso dell’importazione massiccia di prodotti letterari dall’estero, del loro carisma specifico e di quel tipo di produzione asettica ed esterna all’idea di letteratura nazionale che sono i best-seller – oltre che della natura transnazionale ormai affermata dell’immaginario a cui, effettivamente, i lettori, gli scrittori, i critici, i curatori di collane e così via attingono. E non cito neppure l’esplosione della scrittura on line che, solo per la quantità, sta ponendo delle questioni sullo statuto della letteratura, per come la intendiamo di solito, che mi sembra in pochi stiano cogliendo.

Mi limito a sottolineare un ultimo aspetto che mi rende difficile rispondere. La mia impressione, di nuovo, è che in letteratura, ma non solo, si tratti sempre di meno di partecipare ad una specie di dibattito comune, chiaramente identificato e collocato; di aggiungere, in altre parole, la propria frase ad un discorso che viene poi accolto dalla nazione o da un pubblico nazionale più o meno stratificato, articolato, etc. ma comunque unitario (il “grande pubblico”). Si tratterebbe, piuttosto, di dare luogo ad alcune comunità di lettori e scrittori che si costruiscono attorno ad alcuni testi, autori, luoghi più o meno istituzionali (Nazione Indiana potrebbe essere un esempio perfetto) ma forse sempre meno vincolati dalla dimensione nazionale, dalla tradizione linguistica e culturale.

Ti sembra che la tendenza verso un’industrializzazione crescente dell’editoria freni in qualche modo l’apparizione di opere di qualità?

Credo davvero che la situazione sia un po’ più avanzata di quanto questa domanda sembri implicare. Ovvero, credo che l’industrializzazione dell’editoria non sia crescente ma ormai completa (escludendo, ovviamente, le sacche marginali fisiologiche di produzione, per così dire, artigiana). E l’industrializzazione, come tale (l’industria funziona così!), più che frenare l’apparizione di opere di qualità mi sembra normalizzi la produzione attorno ad alcuni standard di qualità non necessariamente bassa ma forse sempre più autoreferenziale. Forse si potrebbe addirittura dire che anche nell’editoria si è ormai stabilizzata una dialettica mainstream/underground simile a quella dell’industria discografica.

Mi sembra, piuttosto, che dovremmo affrontare la questione di come influirà la post-industrializzazione sulla produzione letteraria. Immagino che ci sarà sicuramente un’ulteriore erosione di quell’idea di “grande pubblico” a cui mi riferivo prima e, allo stesso modo, dell’idea di letteratura che vi è legata. Inoltre, se davvero il modello dell’industria discografica può essere preso ad esempio (e, in effetti, la scrittura on line, l’autoproduzione di ebook e, ora, l’apparizione degli ebook reader sembrano rendere plausibile il paragone), uno degli aspetti da prendere in considerazione è cosa succederà quando parte del circuito della produzione di testi letterari si innesterà in quello della condivisione gratuita. In buona sostanza, chi pagherà i redattori, i traduttori, i curatori? Come verrà organizzata la distribuzione? Quale sarà il ruolo del lettore, dello scrittore, del critico e così via? In parte siamo già in questa situazione e, sempre più spesso, la produzione editoriale si basa su prestazioni non pagate. Rimane da capire come si evolverà la cosa.

Ti sembra che le pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali rispecchino in modo soddisfacente lo stato della nostra letteratura (prosa e poesia), e quali critiche faresti?

Per rispondere a questa domanda, mi rifaccio alle mie risposte precedenti. Cioè, dato che credo che la letteratura italiana sia un oggetto sempre più difficile da definire, penso che la pagine culturali abbiano sempre più difficoltà a darne un’immagine soddisfacente e, di nuovo, date l’autoreferenzialità e l’egemonia della produzione mainstream, è plausibile dire che anche le pagine culturali risentano della loro forza. Allo stesso modo, devo ammettere però che il mio parere è almeno in parte infondato dato che, per esempio, non so neppure quante siano, in effetti, le pagine culturali che cercano di seguire la letteratura italiana, quali lo facciano in modo più o meno accurato e così via. Cioè: ho un’idea di massima ma certamente parziale. E questo sia perché il circuito editoriale, con tutti i suoi addentellati, è appunto sempre più complesso, sia perché leggo solo saltuariamente queste pagine.

Ora, il fatto che uno scrittore non segua in modo compiuto il dibattito su queste pagine credo che, oltre a denunciare la pigrizia del sottoscritto, indichi almeno che uno scollamento esiste e che il lavoro, che queste pagine fanno, in qualche modo giri a vuoto. Si noti però che anche in questo caso non è una questione di bassa qualità (al di là dei vari casi di affiliazioni, marchette e così via, sappiamo che ci sono molte “persone serie” a fare questo lavoro) ma piuttosto di incongruenza tra quello che succede (la produzione letteraria in Italia) e la sua rappresentazione. In effetti, mi sembra che siano i blog a fare un lavoro di mediazione molto più riuscito (di nuovo Nazione Indiana potrebbe essere un esempio emblematico), dato che bypassano la questione della rappresentatività e della selezione puntando piuttosto sull’aggregazione.

Ti sembra che la maggior parte delle case editrici italiane facciano un buon lavoro in rapporto alla ricerca di nuovi autori di buon livello e alla promozione a lungo termine di autori e testi di qualità (prosa e/o poesia)?

Per quel che riguarda la promozione, le poche testimonianze che mi sono state riferite sembrano dire di no, per un problema economico generale, diciamo, anche nel caso di grandi case editrici. Per quel che riguarda la ricerca, invece suppongo di sì, per lo stesso ragionamento che facevo circa le pagine culturali.

Anche in questo caso, però, mi sembra che la questione non sia la qualità e infatti sono sicuro che, negli uffici della maggior parte delle case editrici, si cerchi di selezionare dei testi “scritti bene”. Ma, a questo punto, mi nasce anche la seguente considerazione, banale ma forse proprio per questo spesso tralasciata, e cioè che l’editoria non coincide con la letteratura e che, per esempio, un buon prodotto editoriale non è necessariamente buona letteratura. Mi verrebbe da aggiungere “come anche viceversa” ma qui arriva la parte paradossale (fino a un certo punto, in effetti) ovvero il fatto che su cosa sia buona letteratura è la letteratura stessa incapace di esprimersi. La letteratura, infatti, non è una collezione di testi più o meno riusciti (come invece la produzione editoriale, ed i ragionamenti che usano un paradigma analogo, sembrerebbero implicare) ma un campo di possibilità relative ai testi ed ai soggetti che vi si muovono attorno, un campo sottoposto ad un continuo mutamento, con alcune invarianti, alcuni ritorni, innovazioni, recuperi, modifiche e così via.

Tutto questo per dire, evitando di uscire troppo dal seminato, che il mio problema come scrittore e lettore non è tanto con l’editoria o con il fatto che la stessa fornisca dei prodotti di qualità ma con le condizioni in cui quel campo di possibilità si trova e i diversi ordini che i testi vi possono instaurare. Mi rendo conto che su queste condizioni l’industria editoriale, oggi, ha un influsso molto forte ma so anche che non posso ridurre quelle stesse condizioni alla politica delle collane o ai margini della distribuzione.

Credi che il web abbia mutato le modalità di diffusione e di fruizione della nostra letteratura (narrativa e/o poesia) contemporanea? E se sì, in che modo?

Sì, decisamente. I termini di questo mutamento, che riguarda certamente la diffusione e la fruizione ma allo stesso modo la produzione e l’archiviazione, sono complessi e non solo ritengo di capirli appena parzialmente ma sono certo che non si sono ancora mostrati in modo compiuto. Mi limito a dire che la logica della “produzione di contenuti”, che sta alla base del web e che valida qualunque cosa venga messa on line, è opposta all’idea che abbiamo della letteratura, un’idea invece costruita attorno a paradigmi di selezione e rarefazione. Tra le altre cose, questo rovesciamento va a toccare la figura dell’autore, come soggetto legittimato a produrre dei testi, dato che, appunto, il web sembra dare luogo ad una legittimazione apparentemente universale.

Pensi che la letteratura, o alcune sue componenti, andrebbero sostenute in qualche modo, e in caso affermativo, in quali forme?

Sì. Le forme potrebbero essere diverse e non necessariamente dirette come, per esempio, i finanziamenti alle case editrici: da campagne di promozione alla lettura a investimenti sulle biblioteche pubbliche (si noti che, in Italia, si ha quasi sempre l’idea della biblioteca come luogo di conservazione di libri “vecchi” ed il suo potenziale di punto di accesso all’informazione e, nel nostro caso, alla letteratura corrente è, troppo spesso, non solo sottovalutato ma proprio ignorato). Un altro intervento importante potrebbe essere fatto finanziando le traduzioni, sia verso l’italiano che dall’italiano verso altre lingue.

Ma, sia chiaro: faccio tutte queste proposte sforzandomi il più possibile di non tenere conto del contesto attuale – in cui, per dire, nelle scuole pubbliche mancano i soldi per le fotocopie…

Nella oggettiva e evidente crisi della nostra democrazia (pervasivo controllo politico sui media e sostanziale impunità giuridica di chi detiene il potere, crescenti xenofobia e razzismo …), che ha una risonanza sempre maggiore all’estero, ti sembra che gli scrittori italiani abbiano modo di dire la loro, o abbiano comunque un qualche peso?

La mia impressione è che gli scrittori non abbiano modo di dire realmente la loro perché non hanno peso. Intendo: possono avere l’occasione, la posizione, gli strumenti ma manca loro l’elemento fondamentale, ovvero il ruolo. E questo indebolisce, ovviamente, il contributo spesso importante che possono dare.

Il discorso è molto complesso, non si limita all’Italia e discende da un depotenziamento progressivo della letteratura come agenzia formativa sia dei soggetti che della comunità. Se ancora una cinquantina di anni fa uno scrittore era un soggetto privilegiato e influente nel dare conto dello stato della comunità (perché la letteratura era una delle fonti principali da cui gli appartenenti a quella stessa comunità attingevano strumenti forti per dare senso alla vita, alle relazioni e così via) adesso gli equilibri sono nettamente cambiati a favore della televisione, della moda, della musica pop e così via. Continuo a ritenere che il testo scritto sia una delle tecnologie fondamentali delle nostre comunità e che, quindi, la letteratura rimanga uno dei loro punti di sintesi eppure, evidentemente, i termini di questa importanza non sono più gli stessi – e uno dei sintomi da analizzare, per esempio, mi sembra sia la riduzione feticistica dell’autore messa in scena dai festival di letteratura.

Questo per quel che riguarda il discorso generale. La situazione italiana, come è noto, è resa ancora più scabrosa da una secolare diffidenza verso la cultura da parte di vasti strati di popolazione, dalla mancata confidenza con lo strumento libro che sembra sia una nostra caratteristica (Pasolini credo la riportasse alla cultura cattolica e alla Controriforma), dalla povertà culturale delle nostre classi egemoni (l’Italia non può certo vantare una borghesia come quella francese o tedesca, per dire e per quanto, poi, possa avere importanza) e da modelli di intellettuali più vicini all’erudito ed al curiale che non all’intellettuale cittadino, al consulente politico o a figure simili.

Nella suddetta evidente crisi della nostra democrazia, ti sembra che gli scrittori abbiano delle responsabilità, vale a dire che avrebbero potuto o potrebbero esporsi maggiormente e in quali forme?

Stando alla mia risposta precedente, direi proprio di no o, meglio, che hanno responsabilità condivisibili da buona parte dei loro concittadini. Questo anche per dire che, da marxista, francamente non credo che gli effetti a cui possono dare luogo gli scrittori siano così diretti. Tanto più che la situazione attuale, tra le altre cose, è il frutto della scomparsa di una forza politica, come la Democrazia Cristiana, in grado di mediare le pulsioni più o meno apertamente fasciste di buona parte della borghesia italiana, la stessa borghesia che poi non è riuscita a trovare altra sintesi se non nella figura autoritaria di Silvio Berlusconi e la cui povertà culturale, come dicevo, la esime dall’influenza degli scrittori.

Detto questo, però, devo anche confessare che sono abbastanza irritato dalla sottovalutazione che sento spesso fare, da parte degli scrittori, della dimensione politica del loro lavoro e dalla persistenza, in molti autori italiani, di un’idea di scrittore dedito all’arte, all’affabulazione, al vaticinio, in uno spazio separato e, per così dire, puro. Troppo spesso, in queste ultime settimane, si è sentito parlare di autonomia dell’arte come se questa autonomia non fosse di per sé una scelta politica. Forse ingenuamente, ero convinto che queste idee fossero così datate, e contraddette dalle vicende e dai dibattiti novecenteschi, che non fosse più possibile sostenerle in modo compiuto. Capisco le istanze che queste idee cercano di elaborare e penso che la letteratura e l’arte in genere sviluppano con il soggetto e la comunità un rapporto per nulla lineare, in certi aspetti talmente gratuito, assurdo e inconseguente che cercarne una lettura politica appare giustamente riduttivo. Tuttavia, se posso anche ammettere che l’arte instaura con la comunità una relazione politica complessa, non posso dimenticare che la comunità fa spesso un uso diretto, per non dire brutale, dell’arte e degli strumenti di senso che essa mette a disposizione e che comunque, se come autore mi metto in relazione con una comunità, quella relazione è politica di per sé, a prescindere dai contenuti che vi faccio passare.

Reputi che ci sia una separazione tra mondo della cultura e mondo politico e, in caso affermativo, pensi che abbia dei precisi effetti?

Volendomi limitare ad una battuta, direi che non sono abbastanza importante da saperlo. Altrimenti, parlando sul serio, mi verrebbe da chiedere a mia volta che cosa si intende per mondo della cultura e mondo politico.

Il mondo politico che ho presente io, per dire, è quello delle amministrazioni locali, in cui sarebbe davvero interessante un’interazione tra cultura e politica che fosse un po’ più della presenza dell’assessore all’inaugurazione di una mostra o di una serie di conferenze. D’altra parte, però, è proprio al livello dell’amministrazione locale che le carenze culturali italiane, sia della borghesia che dei ceti meno abbienti, si fanno sentire. E, soprattutto, è a quel livello che si scopre come sia spesso assente l’idea di cultura come valore.

Mi rendo che quello che dico ha tutto un sapore moralistico che, chiaramente, vorrei evitare. Mi rendo conto, allo stesso modo, che ci sono parecchi esempi di “cultura in piccolo”, frutto dell’incontro positivo tra personale politico con un senso sincero della cosa pubblica e soggetti culturali più o meno preparati ma dinamici, attenti e così via. Lavorandoci, per esempio, potrei citare il caso delle biblioteche pubbliche a cui mi riferivo più sopra. E, tuttavia, rimane il fatto che quel rapporto tra cultura e politica, in Italia, mi sembra sempre segnato da alcune tare di fondo che sono poi quelle a cui ho già accennato: la povertà culturale dei gruppi sociali ed i modelli intellettuali più ripiegati su se stessi che non aperti verso la comunità.

Ti sembra opportuno che uno scrittore con convincimenti democratici collabori alle pagine culturali di quotidiani quali “Libero” e il Giornale, caratterizzati da stili giornalistici non consoni a un paese democratico (marcata faziosità dell’informazione, servilismo nei confronti di chi detiene il potere, prese di posizione xenofobe, razziste e omofobe …), e che appoggiano apertamente politiche che portano a un oggettivo deterioramento della democrazia?

No. Per gli ovvi motivi impliciti nella domanda. E, aggiungerei, come è stato da più parti ribadito, che non è tanto lo scrittore di “convincimenti democratici” a dover considerare inopportuna una tale collaborazione ma qualunque cittadino con gli stessi convincimenti. Questo perché non stiamo giocando. La comunità a cui partecipiamo non è una cosa fissa con regole e ruoli distribuiti una volta per tutte ma il frutto della nostra interazione e, quindi, le decisioni che si prendono non sono indifferenti. Magari non hanno effetti diretti ma non posso pensare che siano ininfluenti.

Vorrei essere chiaro. Non sono un “duro e puro”, non credo negli assoluti, non ho eticismi da coltivare e accudire e non ci tengo particolarmente a sanzionare il comportamento altrui. Però ho una compagna, amici, parenti, altre persone che magari non conosco ma che rispetto e con cui condivido dei valori e, soprattutto, delle condizioni di vita. E sono condizioni di vita più o meno dure, migliori o peggiori di altre, ma non sono casuali, non sono una sorte ma il risultato esplicito di rapporti economici, sociali, storici. Questo è quello che intendo per comunità ed è nei confronti di questa comunità che si misurano, che lo vogliamo o no, le nostre scelte.

Vorrei chiarire un’altra cosa. Proprio perché non sono un “duro e puro” so benissimo che le condizioni deprecabili, per così dire, i compromessi al ribasso, le contraddizioni sono all’ordine del giorno, che più o meno tutti percorriamo i nostri giorni trascinando quella specie di cadavere muto che è il nostro salario e che, in quanto scrittore, devo misurarmi con i circuiti culturali per come sono e non per come vorrei che fossero. Tuttavia riesco a distinguere un “condizione deprecabile” (essere un salariato, partecipare ad un circuito culturale informato dal capitale) dal fare un grosso errore. Per conto mio, collaborare con Libero o Il giornale rientra nella seconda categoria e non è indice di libertà ma di debolezza.

Per concludere, comunque, mi sembra che questa domanda perda un punto fondamentale della questione. E cioè: assunta l’oggettiva possibilità di uno scrittore di convincimenti democratici, come dite voi, di collaborare ad un giornale come Libero, mi sembra che rimangano da investigare i motivi e le condizioni per cui un giornale revanscista, xenofobo, propagandistico come Libero accetti tra i suoi collaboratori un tale scrittore. Chiaramente, il problema non è il pluralismo. La mia impressione è che, se tra i motivi c’è forse quella specie di strategia dell’indifferenziazione che alcuni hanno evidenziato, una delle condizioni è sicuramente quel depotenziamento e quella carenza di ruolo a cui facevo riferimento nelle altre risposte e su cui forse, ora, sarebbe più giusto concentrarsi.

161 COMMENTS

  1. Ottime risposte. Sulle ultime parole c’è davvero parecchio da meditare (e anche sul paragone tra editoria e industria discografica).

  2. Si vede che Gherardo, a differenza degli altri intervistati, mastica il web e le discussioni che vi accadono. Si è preparato per bene e con rigore. E infatti si può permettere di di articolare il suo pensiero raccogliendo diversi spunti del dibattito. Ottimo.

    Ho un dubbio: sei così sicuro, Gherardo, del parallelo tra la letteratura e il mondo musicale? In ambito letterario (e gli interventi di Murgia, di Trevi, ma anche di Cortellessa ed altri) viene ancora considerato prestigioso pubblicare con Einaudi o Mondadori, mentre niente del genere accade per la musica. Un musicista che non si preoccupa delle ricadute commerciali o che eviti il pop, o che semplicemente fa musica decente, preferisce evitare la Emi o La Warner, dirigendo le proprie attenzioni, poniamo, alla Tzdadik di Zorn, la RecRec di Cutler o ad altre etichette non solo diverse ma decisamente “contro”. Forse è proprio questa politicizzazione del proprio proporsi a fare la differenza. Un musicista che non si fa condizionare in alcun modo dal mercato non si sognerebbe mai di scendere a patti con le major, anzi: la sua criticità lo porta a scegliere di starci fuori. Pensa ai Residents o all’esperienza di Frank Zappa: il secondo, dopo aver toccato con mano l’insulsaggine delle grandi etichette, decide di porsi fuori, autoproducendosi i suoi dischi, con risultati, anche a livello tecnico (registrazione, mixing, etc.) eccelsi; i primi, proprio facendo tesoro del lavoro alternativo di Zappa, evitano fin da subito di sporcarsi le mani, irridendo il sistema (ma gli esempi sono, fortunatamente, tantissimi). Non mi pare che ci siano degli equivalenti in campo letterario. Oppure, quando ci sono (il tuo lavoro va in questa direzione), non sono ancora in grado di fare circuitare le proprio opere in modo soddisfacente. Ma qui, forse, conta anche la natura differente di musica e letteratura … Insomma, per un autore il massimo della goduria è pubblicare con una grande casa editrice, per un musicista no …

    A più tardi per altre considerazioni …

    Nevio Gàmbula

  3. @ gambula
    Ma non dipende forse anche dalla diversità dei circuiti di distribuzione di musica e letteratura?

  4. @gambula

    [ma anche a Bortolotti vorrei fare delle osservazioni, più tardi, o domande, indipendentemente dall’apprezzamento con cui l’ho letto, perchè mette in campo parecchia materia su cui riflettere]

    io direi che almeno allo stato attuale “la natura differente di musica e letteratura” conta moltissimo da ogni punto di vista, a partire da quello al quale accenna anche Gherardo sopra, benché lui lo riferisca prevalentemente al web e che ci diciamo ogni tanto un po’ tutti, chiunque può scrivere, la lingua, che è lo strumento della letteratura, è anche lo strumento con cui vado a ordinare un etto di mozzarella e mi lamento del mal di pancia, posso scrivere una favola per mia figlia che tutti i miei parenti trovano geniale e anche un’opera geniale, e in più costa poco.
    Gli elementi di selezione alla base, di tutti i tipi, non ci sono, e la scrittura è esposta ad ogni vento, se viene a mancare la funzione critica, e lasciamo stare per ora se si tratti di scelta editoriale o di selezione critica e quanto valore abbiano entrambe, se siano in grado davvero di scegliere bene.
    Mi direte che la musica si auto-seleziona nel rapporto col pubblico, che sceglie “sempre” per forza di cose bene, ma io resto con le mie perplessità, per quanto riguarda la parola scritta, alle cui funzioni vanno aggiunte oltre quelle che indicavo sopra anche quelle decisamente più critiche della politica.

    [Però devo dire che anch’io, volendo raccogliere qualche pezzo che ho scritto nel blog, ho pensato subito di autoprodurmi e mantenere il controllo del tutto.]

  5. @ Manganelli
    Certo. A maggior ragione, allora, non regge il paragone, giacché l’ambito letterario e quello musicale comprendono, oltre la produzione materiale di testi o di dischi, anche la distribuzione. Oppure il paragone regge se lo si prende come utopia (in senso di Bloch): come il non ancora che è bene che si persegua.

    @ Alcor
    d’accordo. È proprio la natura differente di musica e letteratura a rendere impossibile il paragone, anche a livello della sola distribuzione. Allo stato, la distribuzione on-line dei prodotti musicali non è alternativa a quella classica del disco, ma complementare. È nella (stupenda e dirompente) possibilità del file sharing che si afferma l’utopia concreta. Qual ora l’e-book prendesse veramente piede, si creerebbe un (non)mercato parallelo di libera condivisione. Solo che così viene incrinato il concetto stesso di autore, o comunque quello dei suoi “diritti” …

    ng

  6. “letteratura come agenzia formativa sia dei soggetti che della comunità”

    plumbeo.

    br

  7. Ottimo intervento di Bortolotti.
    ________________________________________________

    @ gambula

    Non e’ solo diversa la distribuzione. Ma anche e soprattutto la dimensione del loro bacino d’utenza, nonostante l’ideologia guida delle grandi case editrici non sia diversa da quella delle major discografiche. O cinematografiche. In realta’ televisive. Forse sarebbe il caso di cominciare a parlare di etichette indipendenti anche per certi piccoli editori. Restano poche, fra l’altro, le etichette veramente indipendenti, perche’ quasi tutte tendono, per conformismo, verso l’Einaudi, nonostante siano piccolissiiimee e potrebbero quindi permettersi il lusso di editare cose interessanti al di fuori del circuito commerciale.
    Per gli scrittori ed i critici e gli usuifritori finali resta forte comunque il feticcio del grande editore che avvalora. O si naviga nell’indistinto di senso e di valore. Sintomo di una grande debolezza dell’intero sistema.
    Non bisognerebbe mai dimenticare poi che la musica si condivide con gli altri. Immediatamente. Senza porsi tante domande. La lettura no. Solo l’atto di leggere qualcosa si condivide. Qualcosa di possibilmente accreditato.

  8. “Ottime risposte”. “Bravo, Bortolotti, molto bravo”. Mi pare interessante notare che Gherardo Bortolotti ha dato pressoché le stesse risposte che diedi io qualche giorno fa, e che furono tanto criticate (chi avesse bisogno, oltre che delle mie risposte, anche delle spiegazioni delle risposte, può guardare qui).

    Certo: Bortolotti ha speso un po’ della sua pazienza a spiegare l’ovvio, e magari qualcuno gli sarà stato grato per questo; e io mi sono permesso un filo d’ironia. Ma basta un filo d’ironia a suscitare i “buuu!”?

    Alla prima domanda, Bortolotti risponde che non si può rispondere. Esattamente come ho risposto io. (Bortolotti ci mette cinquanta righe, io me la cavavo con una battuta: ma il sugo è quello).
    Alla seconda domanda, Bortolotti fa notare che “dovremmo affrontare la questione di come influirà la post-industrializzazione sulla produzione letteraria”. Che è quel che ho detto anch’io.
    Alla terza domanda, Bortolotti risponde che “non sa neppure quante siano, in effetti, le pagine culturali che cercano di seguire la letteratura italiana”, ecc.: di nuovo, solo mettendoci più parole, Bortolotti dà la mia stessa risposta.
    Alla quarta domanda, Bortolotti risponde in modo vago. Io almeno ho risposto con precisione.
    Alla quinta domanda, Bortolotti risponde citando non solo la diffusione (come anch’io avevo detto) ma anche la produzione (cosa, unica, sulla quale non sono così d’accordo).
    Alla sesta domanda, Bortolotti risponde proponendo “campagne di promozione alla lettura” (ne è appena stata fatta una, noto en passant, e piuttosto orribile) e maggiori finanziamenti alle biblioteche: ovvero, proponendo di acquistar più libri. Esattamente come ho detto io.
    Alla settima domanda, Bortolotti risponde: no. Non diversamente da come ho risposto io.
    All’ottava domanda, Bortolotti risponde che gli scrittori “hanno responsabilità condivisibili da buona parte dei loro concittadini”, e tuttavia confessa: “sono abbastanza irritato dalla sottovalutazione che sento spesso fare, da parte degli scrittori, della dimensione politica del loro lavoro”. Sono d’accordo, avevo detta la stessa cosa anch’io.
    Alla nona domanda, Bortolotti risponde: “mi verrebbe da chiedere a mia volta che cosa si intende per mondo della cultura e mondo politico”. O non lo avevo chiesto anch’io?
    Alla decima domanda, Bortolotti risponde prima “No. Per gli ovvi motivi impliciti nella domanda” (ovvero segnala che la domanda è retorica), e poi aggiunge: “non credo negli assoluti, non ho eticismi da coltivare e accudire” (non tanto diversamente da come io avevo risposto). Nell’ultimo capoverso, infine, fa un vero passo avanti accennando a una possibile “strategia dell’indifferenziazione”.

    Una nota. La mia richiesta di sapere queli fossero secondo Nazione indiana quei critici, citati nella prima domanda, “che denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”, mi pare sia rimasta ancora senza risposta. Solo Giacomo Sartori ha citato, ma mi par di capire a titolo personale, qui, Berardinelli, Luperini, La Porta e per certi versi Cortellessa; mentre la risposta di Helena Janeczek (“La richiesta di nomi e cognomi è pervenuta, ma a questo punto frugare negli archivi della memoria per rintracciare caio e tizio che si sono espressi così o cosà richiede un po’ di tempo”, qui), mi fa pensare che forse questi critici in realtà non sono tanto presenti nella mente di Nazione indiana, e per Nazione indiana non sono tanto importanti. Ma se non sono presenti in mente, e se non sono tanto importanti, a che vale confrontarsi con loro? Forse solo – questa è una azzardata ipotesi – per inventarsi un nemico?

  9. @ Mozzi,

    Forse la differenza sta nel come si scrivono certe cose e di quanto ci si spenda per chi deve sorbirsi queste certe cose, non e’ vero?

  10. Sempre a proposito di musica e letteratura, mi pare che il parallelo stia più nella possibilità di distribuire i prodotti via web (gratuitamente o a pagamento) che altrove. Questo elimina moltissimi passaggi, peraltro economicamente rilevanti.
    Non so se si arriverà a una situazione identica, ma in ogni caso mi sembra uno sviluppo da considerare con attenzione.

  11. @ Mozzi
    Unico appunto: non mi pare che gli autori dei “buuu” nei tuoi confronti coincidano con chi qui fa apprezzamenti positivi a Bortolotti. E poi anche la forma ha la sua importanza. Bortolotti fa passare, oltre ai contenuti, anche “rispetto” nei confronti dell’intervistatore, tu una certa dose di stizza. Rispetto alla genericità delle domande, forse hai più ragione tu; però, insomma, può capitare che il tono con cui si risponde irriti il lettore e lo porti ad emettere degli scomposti “buuuu”. O che induca al silenzio chi pure ne apprezza il contenuto.

    ng

  12. Io sono tra quelli che NON ha detto buuu a Mozzi.

    la sua prima risposta al questionario è stata questa:

    «Non mi risulta che vi siano dei critici che «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea». Forse sono poco informato. Posso avere una bibliografia?
    Quanto alla letteratura contemporanea: sta bene, grazie, come al solito.»

    Bortolotti, nella sua prima risposta qui sopra, non si limita a dire che non si può rispondere, come Mozzi gli fa dire nel suo commento, non liquida la questione con una battuta, ma pone il problema di cosa sia “letteratura nazionale” e del ruolo sociale dello scrittore, non mi pare poco, e allarga il discorso con le risposte ssuccessive.

    Questa è la ragione – in sintesi- per la quale io, che non ho emesso Buuu contro Mozzi, mi sono sentita spinta a dire con convinzione bravo a Bortolotti

  13. @ massimiliano manganelli

    Infatti. Abbiamo solo bisogno di autori che attraverso canali diversi riescano ad imporsi all’attenzione generale. Staremo a vedere.

  14. due righe velocissime, scusate, per dire che quella con l’industria discografia era solo una similitudine (ed avevo in mente, per dire, il passaggio dal movimento “do it yourself” alle etichette indie etc.). come ogni similitudine, chiaramente, ha degli aspetti che funzionano e altri che non funzionano. quindi accolgo senza batter ciglio le varie puntualizzazioni e, da parte mia, posso aggiungere un’altra bella differenza: ovvero che i musicisti indie, per esempio, soprattutto in mercati come quello inglese o usa, riescono a campare con il loro lavoro perché fanno concerti e vengono pagati (tanto o poco) per questo. gli scrittori ma soprattutto i traduttori, i curatori etc. come possono farlo?
    ultima cosa sulla questione file-sharing: questi ebook-reader o i nuovi dispositivi tipo tablet potrebbero davvero essere un passaggio decisivo ma la cosa è ancora tutta da vedere. da una parte, per esempio, mondadori ha rimandato al 2011, se non mi sbaglio, la sua uscita sul mercato ebook, segno almeno di un’insicurezza sul tema, e dall’altra acer ha rinunciato alla produzione del suo ebook reader dicendo che in effetti non vede un vero mercato per un dispositivo così specializzato. vedremo!

    grazie per i vari apprezzamenti ;-)

  15. Finalmente delle risposte come si deve. Sottoscrivo in pieno il discorso sulla quantità: nessuno è davvero in grado di esprimersi sullo stato della letteratura italiana (e, credo, di altre letterature), per il semplice fatto che nessuno di noi può leggere tutto. E nessun critico, per quanto monomaniaco, potrebbe farlo, essendo la durata media della vita umana inadatta allo scopo. Ecco, bisognerebbe avere l’umiltà di ammetterlo, dato che in tempi di web e di intellettualità “di massa” (nonostante le geremiadi sull’analfabetismo di ritorno e sulla dispersione scolastica) sono mutati radicalmente lo statuto della scrittura e della lettura…

  16. Una nota (personale) su letteratura e musica. Sono imparagonabili. Alla grossa la polarità mainstream/underground funziona, ma ci si ferma lì. Sono differenti soprattutto gli ambiti della produzione/promozione, della distribuzione e (elemento che nella letteratura non esiste) della circuitazione live. Nella musica è molto, molto peggio che in editoria.
    Insomma, si può pubblicare assai facilmente ed ottenere una buona visibilità, in editoria (non necessariamente con Feltrinelli come accade a me: ma anche il libro di un piccolissimo editore può ottenere grossa visibilità). Nella musica devi autoprodurti e sperare. Rispetto a soli cinque anni fa le cose sono cambiate tantissimo. Io stavolta mi sono autoprodotto l’ultimo cd, libertAria, sperando nella diffusione virale del web, ecc (tutte cose vere, ma ancora di là da venire). Bene: in tv (che è la sola cosa che fa vendere e conoscere) continui a non andare perché il palinsesto lo decidono le major, ma è così anche nei giornali musicali (che contano sempre meno e sono sempre più monopolizzati degli investitori: così, nei due giornali musicali e di costume più letti in Italia – xl e rolling stone – le recensioni del mio cd non sono state pubblicate, per quanto due giornalisti volessero scriverla, essendogli piaciuto il cd. Negli altri ho avuto ottime recensioni, ma, ancora, rispetto a cinque anni fa nemmeno una copertina fa vendere date, oggi), e il circuito per la musica indipendente si è ridotto tantissimo (uno scrittore può continuare a scrivere comunque: ma un gruppo, se non suona, muore).
    COntinuate a scrivere, è meglio :-)

  17. Il ruolo del letterato e della letteratura menzionato da Bortolotti è, a mio avviso, l’unica cosa su cui vale la pena riflettere se si vuole sul serio dare un senso a tutto il discorso.
    Ed ha ragione Gherardo a dire che il problema è che tale ruolo manca. Trovato un ruolo alla letteratura ed ai letterati, tutti gli altri problemi (come ad esempio la quantità di quanto viene scritto, la differenza tra mera narrativa e letteratura, discorso unitario sulla letteratura nazionale (tra l’altro accennato in un interessante saggio di Wu Ming tempo fa)) si ridimensionano automaticamente. E, chissà, anche la pagine culturali dei giornali potrebbero avere più senso per chi le legge, chi le scrive e chi le pubblica (da notare in proposito che le pagine culturali online dei maggiori quotidiani non sono aggiornate o sono aggiornate davvero male).

    La questione del ruolo si riferisce anche alla mancanza di “maestri”, ovvero linee guida attraverso cui introdursi nel mondo della letteratura ed “incorporare” strumenti più adeguati per un eventuale giudizio. Con internet non credo sia tutto diverso. Tutto è uguale, solo con pregi e difetti amplificati all’infinito. Tutto dipenderà dalle nostre capacità di gestire questo mezzo che sta “sconvolgendo” l’editoria ma non certo la Letteratura. Fa bene infatti Bortolotti a fare una distinzione che sembra ovvia ma risulta doverosa quando tra i due termini vengono troppo spesso utilizzati come sinonimi. I problemi della Letteratura non sono quelli dell’editoria. Il problema è che i problemi dell’editoria possono affligere parecchio la vita della letteratura.

    Luigi B.

  18. Il commento di Marco Rovelli sui giornali musicali mi ha ricordato fenomeni analoghi che riguardano altri campi, e mi fa pensare che il tempo è fermo, nulla cambia e i meccanismi del potere sono immobili, ammuffiti. Negli anni 80 feci parte di un gruppo che realizzò un grosso servizio sugli stilisti di moda europei emergenti (io come fotografo): fotografai stilisti (soprattutto i loro abiti) tedeschi, spagnoli, italiani, yugoslavi, francesi. Erano immagini bellissime, forti, vivaci. Furono preparate didascalie, campionari. Poi iniziammo a proporre il servizio alle riviste di moda, italiane ed europee. Il tutto era molto interessante, per la qualità dei materiali e per la ricognizione sui nuovi stili. Ma tutti risposero allo stesso modo: ma scherzate? Non crederete che noi possiamo pubblicare servizi “liberi”? I giornali erano in mano agli inserzionisti, che pagavano per le pubblicità, era inverosimile l’uscita di un servizio sulla moda indipendente, gli inserzionisti si sarebbero imbestialiti. Così la piantammo di viaggiare e presentarci agli appuntamenti, tempo e lavoro sprecati, e tutto morì più o meno in servizi di costume pubblicati su rotocalchi. Ora apprendo che accade la stessa cosa sui giornali musicali. Così continuiamo a vivere in un sistema bloccato, dove chi comanda è il denaro, il profitto, e tutto il resto è polvere. Qui nasce a agisce anche la letteratura, che non può non subirne i condizionamenti, perché il sistema si espande anche nelle menti, e si prende parte dell’immaginario dei lettori. E’ qui il vero nocciolo duro della questione.

  19. Prima considerazione:

    NON SO A VOI, ma io dopo aver letto questa intervista a Bortolotti penso che – e lo dico a prescindere dai contenuti che Bortolotti ha veicolato – per l’impegno profuso, l’impostazione del suo argomentare, il suo coinvolgimento così schiettamente sincero, l’atteggiamento di apertura dialettica verso le domande e il suo stesso pensiero, la serietà e insomma la RESPONSABILITA’ (non è questo il tema dell’intervista?) con cui ha risposto Bertolotti abbia fatto sfigurare in modo quasi impietoso tutte le precedenti interviste – tranne quella di Murgia.

    Ecco cos’è la responsabilità dell’autore: in questo dossier di NI la si è vista da come (non “cosa”) Bortolotti ha risposto all’intervista.

  20. Hai centrato il punto, Galbiati. Non il “cosa”, ma il “come” è importante. Perché non da “cosa” dice, ma da “come” lo dice, capisci se una persona fa parte o non fa parte della tua comunità.

    In effetti, io ho risposto da IRRESPONSABILE

  21. Hai centrato il punto, Galbiati. Non il “cosa”, ma il “come” è importante. Perché non da “cosa” dice, ma da “come” lo dice, capisci se una persona fa parte o non fa parte della tua comunità.

    In effetti, io ho risposto da IRRESPONSABILE, ossia come colui che non si domanda quali possono essere le conseguenze del suo modo di fare.

  22. E, tra parentesi, aspetto che Nazione indiana riveli quali sono, a suo avviso, i famosi critici che “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”.

    Ora Andrea Inglese (che appartiene a Nazione indiana), qui, mi rimanda a “Trivio” n° 0, 2009, “poesia in prosa e arti poetiche” che, scrive Inglese, include un paragrafo intitolato “miserie del genere ovvero il chiodo fisso di berardinelli”, che potrebbe offrire qualche elemento di risposta intorno a qualcuno dei più fedeli detrattori del genere poesia.

    Ma: Nazione indiana dice in Nazione indiana che ci sono dei critici che dicono certe cose. Io chiedo a Nazione indiana, in Nazione indiana, di dire quali sono questi critici. Credo che Nazione indiana dovrebbe rispondere come Nazione indiana, e in Nazione indiana, alla mia domanda.

    Non mi pare una domanda difficile. Nazione indiana avrà pur avuto in mente qualcuno, nel momento in cui ha scritto che ci sono dei critici che “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”. O no?

    (Sono passati diciannove giorni da quando ho posta la domanda per la prima volta).

  23. Hai centrato il punto, Galbiati. Non il “cosa”, ma il “come” è importante. Perché non da “cosa” dice, ma da “come” lo dice, capisci se una persona fa parte o non fa parte della tua comunità.

    chi di comunitarismo ferisce di comunitarismo perisce :-)

    Ma che è ‘sta storia che il come rivela il proprio compagno di merenda sulla foglia di ninfea? insomma non è la marmellata dentro il panino che fa la differenza, ma bensì come uno la mastichi :-). Ora io non ho molta simpatia per mozzi (per vari motivi) e soprattutto non fa parte della mia comunità, né per la marmellata, nè per come la mastica (ma io, se dio vuole, NON ho compagni di comunità) , detto questo devo aggiungere che non solo mozzi ha detto (almeno per quanto chiesto dalla domanda) la stessa identica cosa di bortolotti (rispetto allo stato della letteratura), ma l’ha detta in maniera sintetica e ironica (e quindi, a mio giudizio, migliore), certo i motivi della differenza possono essere molteplici … forse bortolotti ha risposto scrivendo direttamente al pc mentre giulio forse ha scritto e corretto sul cartaceo, in treno o mangiando un panino al bar … vassapè … i misteri dei fondamenti del linguaggio sono imperscrutabili e infiniti :-)

  24. Mozzi, lei non ha risposto da irresponsabile, ma come uno che non si sente parte di una “comunita’ stretta” nella quale vigono cortesie e modi aperti, empatici (come in qualsiasi comunita’ stretta).

    Non sentirsi parte della comunita’ stretta che si raccoglie in NI non e’ drammatico: si puo’ esserne alieni culturalmente o in qualche modo non conformi alla prassi (oltre che naturalmente esterni perche’ non validati o non accettati).

    Ma lei sostanzialmente pone una questione di stile, di forma, di forma propriamente letteraria, che qui in NI e’ stata da tempo sorpassata da una contingenza pratica, didattica, didascalica, cioe’ politica.

    Lei sta dicendo formalmente che il gruppone resistente ha le stesse pecche del gruppone dominante, che e’ gia’ un bell’atto anti-empatico (non irresponsabile). Sostanzialmente poi lei ribadisce la superiorita’ dello scritto, dell’atto, del testo chiuso, sull’intenzione, sul ragionamento, sulla lotta, il che -di nuovo- non e’ irresponsabile, ma una dichiarazione di poetica.

  25. Mozzi,
    “In effetti, io ho risposto da IRRESPONSABILE, ossia come colui che non si domanda quali possono essere le conseguenze del suo modo di fare.”

    premesso che non capisco il tuo discorso sulla comunità, le tue risposte hanno mostrato poca responsabilità perché, secondo me, erano sbrigative più che sintetiche, talvolta strafottenti piuttosto che ironiche, talvolta pignole fino al punto da voler svuotare di contenuto ogni discorso sulla letteratura, l’editoria e il ruolo dello scrittore

    (per es. il tuo perdersi a definire cosa si intenda per scrittore, per farmi arrivare alla conclusione, di fatto, che con la tua definizione anche la mia nipotina di 12 anni che ha scritto qualche pensiero che lei crede sia poesia faccia parte della categoria. Con questo presupposto, tutti sono scrittori=nessuno è uno scrittore, e quindi inutile chiedersi una qualsiasi cosa sul ruolo, la responsabilità ecc. degli scrittori. E tu stesso, se fossi coerente con queste tue risposte “svuotanti”, dovresti arrivare a dire che non puoi dire nulla degli scrittori, mentre ti sei distinto per un’altra crociata nei commenti: il tuo voler dimostrare che nelle case editrici ci sono molti scrittori che occupano ruoli importanti: ma come potrebbero non essere scrittori, con la tua definizione?)

    e soprattutto erano più cavilli, se andava male, o oracoli se andava bene (la parabola dei talenti).
    In altre parole, c’è poco da vantarsi del fatto che ti sei preoccupato poco delle conseguenze di quanto hai scritto: te ne sei preoccupato tanto, invece, perché sapevi di aver risposto in modo polemico, spesso irritante, spesso ermetico; quindi sapevi già che le tue risposte avrebbero scatenato discussioni.

    E anche questo è un modo di porsi chiaro: sprecare ben poche energie nella comunicazione, nel farti capire in modo compiuto per poi sprecarne infinitamente di più per discutere nei commenti qui e su vibrisse sul significato delle tue sbrigative risposte e sulla formulazione delle domande.

  26. @giuliomozzi
    io che non sono di nazione indiana e nemmeno mi trovo neanche a passare più di tanto nella nazione indiana, trovo ad esempio fuori da nazione indiana una risposta alla sua domanda rivolta a nazione indiana – ‘(Sono passati diciannove giorni da quando ho posta la domanda per la prima volta)’:

    Giulio Ferroni, ‘Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura’, seconda edizione accresciuta.

    Sono passati quattordici anni da quando costui ha posto le basi per la prima volta: 1996-2010.

    Ora forse questo strano scrittore italiano, che non ha le palle per rispondere alle domande – così come facevano i suoi avi su ‘nuovi argomenti’ – se non facendo lo sterile e stucchevole giochetto della metadomanda che si fa metarisposta, può essere contento della mia metarisposta alla sua metadomanda.

  27. @ ibs
    Conosco bene Dopo la fine e il suo autore e, a dispetto di titolo e sottototitolo, chi ha letto questo libro sa che non si può considerare il suo autore fra coloro che «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea».

  28. @andreacortellessa

    Una tensione testimoniale di fondo che si intreccia, direi, in direzione postuma e sofferta, alla residuale spinta militante – di derivazione civile e quasi desanctisiana – di chi, però, nega al presente una qualsivoglia vitalità della letteratura, della letteratura tout court. nè più nè meno, mi pare, andando al sodo. circola, è vero, una eco di angoscia ammutolita (forse Calvino), ma è una certificazione – articolata e aggiornata – del degrado civile, e quindi letterario, di questo (lunghissimooooooo) presente – 1994-2010.

  29. Giusto, Galbiati; la mia definizione non va bene; e chi è dunque “uno scrittore”, secondo Nazione indiana?

    Poi: non mi pare che sostenere l’esigenza di un linguaggio che non funzioni solo tra chi già concorda sui fondamenti (cioè all’interno di una comunità), ovvero di un linguaggio con il quale si possa parlare anche attraverso il disaccordo sui fondamenti (cioè a chi appartiene ad altre comunità), sia uno “sprecare ben poche energie nella comunicazione”. Mi pare semmai il contrario.

    Infine, mi ripeto: quali sono i famosi critici che “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”? Si può avere da Nazione indiana uno straccio di risposta a questa semplicissima domanda? O, in alternativa, una spiegazione del perché rispondere a questa semplicissima domanda è così difficile per Nazione indiana?

    Per GiusCo: d’accordo. Ma mi dispiace che ciò che vi è di poetico in Nazione indiana – e non vi è poco di poetico – sia, come tu dici, “sorpassato da una contingenza pratica, didattica, didascalica, cioe’ politica”. Perché penso che una cosa come Nazione indiana, se va sul piano della politica, non può che perdere; se va sul piano della poetica, può vincere.

  30. Giulio Mozzi:
    “Infine, mi ripeto: quali sono i famosi critici che “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”? Si può avere da Nazione indiana uno straccio di risposta a questa semplicissima domanda?”

    ciao Giulio,
    per esempio Romano Luperini: “Trent’anni fa. Gli intellettuali avevano ancora una funzione pubblica, l’Italia un posto sulla scena internazionale della cultura. Il dibattito letterario e artistico era ancora vivo e le riviste culturali promosse da scrittori potevano occupare ancora uno spazio etico-politico (Alfabeta comincerà a uscire nel 1973, e sarà l’ultima). I registi italiani erano maestri riconosciuti in tutto il mondo, e si chiamavano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini. Fra gli scrittori, Calvino e Sciascia avevano un ruolo di primo piano in Europa. Poeti allora poco più che cinquantenni come Zanzotto, Luzi, Sereni, Fortini, Pasolini (o anche più giovani, come Sanguineti) godevano di un’autorità già riconosciuta.
    Oggi non ci sono più, fra gli scrittori, dibattito culturale e politico e conflitto di poetiche, né, fra i critici e i teorici della letteratura, dialogo e polemica fra i vari metodi (non ci sono più, nemmeno, metodi identificabili: trionfano l’eclettismo e, come è stato denunciato da tempo, la «crisi della critica»). Fra il 2002 e oggi non sono usciti romanzi e film neppure paragonabili a quelli sopra ricordati. Nessun poeta che abbia fra i cinquanta e i sessanta anni ha in Italia una autorità e un prestigio come quelle che avevano allora Zanzotto, Sereni, Luzi, Fortini, Pasolini, Sanguineti. Il ruolo internazionale del cinema, del teatro, della letteratura italiani è vicino a zero”
    (l’Unità, febbraio 2004)

  31. Per esempio Luperini, dice Piero Sorrentino. Va bene. E gli altri? (Se Nazione indiana ha usato un plurale, immagino siano almeno due). E il nome di Luperini, Sorrentino lo fa a titolo personale, o a nome di Nazione indiana? (Perché la domanda contenente l’affermazione che tali critici esistono, è una domanda non di Tizio o di Caio, ma di Nazione indiana). Il nome di Luperini (con Berardinelli, La Porta e per certi versi Cortellessa) lo aveva fatto anche Giacomo Sartori. Quindi Luperini è confermato?

    Suvvia, ancora un piccolo sforzo.

  32. @Giusco

    “una questione di stile, di forma, di forma propriamente letteraria, che qui in NI e’ stata da tempo sorpassata da una contingenza pratica, didattica, didascalica, cioe’ politica.”

    sicuro che sia così? a me è sempre parsa ben bilanciata, ma non sono andata a controllar e contare i post
    e, se è così, è più così per NI che per altri?

    è vero però che i post più “politici” (molte virgolette) sono anche i più commentati e questo può dare un’impressione sbagliata

  33. Si sa, la Rete parla di quel che parla la tivù e questo in Italia vuol dire parlare di politica. NI, che pure si occupa di molto altro, non sfugge alla regola e i post in cui si parla di politica o, peggio, di ‘intellettuali e politica’ sono quelli più commentati, così che tutti ci possiamo sentire dei piccoli Battista o Ajello…

  34. Di tutte le risposte a questo questionario mi deludono di più quelle sull’argomento che mi interessa di più, cioè l’effetto della Rete sulla letteratura. Una serie di ‘non so’, mi pare.
    Da un lato, sulla rete non si critica la rete. Del resto, nessuno se la sente di dire che la rete farà davvero del bene alla letteratura. Quindi si tergiversa.
    Da non scrittore, non critico, non accademico, azzardo qualcosa.
    Il parallelo con l’industria discografica è abbastanza calzante. Col senno di poi la decisione di passare dal vinile al CD si è rivelato un disastro per l’industria; il passaggio dal libro di carta al libro digitale (caldamente desiderato soprattutto da chi non legge) sarà anche peggio.
    Per il momento c’è la possibilità per editori e autori di modificare libri già venduti (negli Usa sono già in commercio libri di testo online modificabili da distretti scolastici o anche singoli professori), ovviamente allo scopo di ‘correggerli’ e ‘migliorarli’.
    Il vero passaggio decisivo sarà la possibilità per i lettori di ‘correggere’ e ‘migliorare’ i libri che si passeranno p2p. Ci sono un mucchio di persone convinte di saper suonare e comporre musica ma la larga maggioranza sa di non essere capace e si accontenta di ascoltare, possibilment gratis. Invece la maggior parte delle persone sarà convinta di poter dire la sua in letteratura, visto che le parole le usa di continuo.
    Già adesso i fan, specie nella letteratura industriale (che grazie al Pc è sempre più lunga e voluminosa), pretendono voce in capitolo nella creazione letteraria e, se non gli viene data, se la prenderanno. I risultati saranno quelli previsti dalla vecchia battuta americana sul cammello: un cavallo progettato da un comitato. Lo scrittore, dal punto di vista del ‘popolo del web’ dovrebbe ringraziare che lo si legga, altro che farsi pagare. In una economia della scarsità dell’attenzione, il consumatore ha il coltello dalla parte del manico.
    L’autore non ha molto da sperare. Il musicista può rifarsi dei mancati introiti con i concerti dal vivo, possibilità inesistente per lo scrittore. La soluzione ovvia, ma non alla portata di tutti, è il mecenatismo, normale per parecchi secoli e passato di moda solo con la democrazia ed il mercato. Tornerà ma chiaramente alle sue condizioni.
    L’assenza di filtri, di gates to keep, di guide autorevoli significherà un offerta debordante di tante storie che non avranno modo di imporsi se non, immagino, andando in tivù e facendo scena, secondo il vecchio adagio per cui la rete parla di quel che parla la tivù…

  35. Alcor, io non sono un critico e non rilascio patenti, ma a mio avviso il nucleo propriamente letterario e’ debole, muscolare o evanescente in chi piu’ spesso prende la parola. Tale muscolarita’ si e’ rafforzata -di molto- con l’apertura ai critici marginalizzati dal cartaceo. Non mi interessa (non mi interessa piu’) capire perche’ questa apertura, se ne e’ discusso tantissimo in passato. Nazione Indiana resta un punto di riferimento nel web culturale italiano, ma soprattutto perche’ aperto ai commenti. Piu’ interessanti le voci femminili, seppure ancora da consolidare.

  36. @Mozzi,
    “Giusto, Galbiati; la mia definizione non va bene; e chi è dunque “uno scrittore”, secondo Nazione indiana?
    Poi: non mi pare che sostenere l’esigenza di un linguaggio che non funzioni solo tra chi già concorda sui fondamenti (cioè all’interno di una comunità), ovvero di un linguaggio con il quale si possa parlare anche attraverso il disaccordo sui fondamenti (cioè a chi appartiene ad altre comunità), sia uno “sprecare ben poche energie nella comunicazione”. Mi pare semmai il contrario.”

    Non c’è bisogno di specificare cosa si intende per scrittore in una intervista scritta, se l’intervistato vuol capire e farsi capire; al massimo se uno ha nella sua mente vari tipi di categorie di scrittore può esplicitarle lui nella risposta, ma non è il tuo caso, dato che a te non interessa capire né essere capito.
    Del resto, dato che io ho una mentalità scientifica, potrei fare il pedante come te, e portando, per coerenza, alle estreme conseguenze il tuo discorso potrei chiederti, quando scrivi:

    “non mi pare che sostenere l’esigenza di un linguaggio che non funzioni solo tra chi già concorda sui fondamenti (cioè all’interno di una comunità), ovvero di un linguaggio con il quale si possa parlare anche attraverso il disaccordo sui fondamenti (cioè a chi appartiene ad altre comunità), sia uno “sprecare ben poche energie nella comunicazione”. Mi pare semmai il contrario.”

    -cosa intendi con linguaggio?
    -nazione indiana usa un linguaggio la cui comprensione è circoscritta a una comunità?
    -quali sono le caratteristiche di questo linguaggio?
    -in che modo il termine “scrittore” è caratterizzato nel linguaggio della comunità di NI (secondo te, se vuoi sbilanciarti)?
    -in quale altro modo è caratterizzato il termine “scrittore” in altre comunità, per esempio nella tua (poiché lo usi anche tu, quel termine, presumo ci sia almeno una comunità, di cui tu fai parte, che si intende sul significato di quel termine)?
    -quali sono i confini della comunità di nazione indiana, chi ne fa parte e chi ne è escluso? io, per esempio, che capisco le domande di nazione indiana, in virtù di che cosa sarei parte della comunità?
    -quali sono i confini della comunità di cui tu fai parte, chi ne fa parte e chi ne è escluso? io, per esempio, che capisco le domande di nazione indiana, sarei escluso dalla tua comunità?

    Mi fermo qui ma potrei andare avanti.

    E questo riguarda solo il concetto di scrittore.

    Poi potremmo cercare di capire cosa significhino i seguenti concetti (parto dalla prima domanda): letteratura, poesia, narrativa, critico, romanzo, industrializzazione, editoria, opere di qualità, pagine culturali… e mi fermo qui, alla terza domanda.

    Cosa ne ricaviamo da questo metodo?
    Nulla, neanche se ci riunissimo per scrivere insieme un’opera che faccia concorrenza allo Zingarelli potremmo essere d’accordo al cento per cento sul significato dei termini che usiamo.
    Quindi, l’unica vera, seria, coerente conclusione è che il tuo modo di porti svuota di significato ogni discussione, anzi, ogni parola scritta.
    Chiunque, con un po’ di impegno, potrebbe applicare come ho appena fatto sopra io, il tuo metodo a ciò che scrivi tu, con il risultato di vanificare ogni tentativo di dar senso a ciò che si scrive o si chiede in una intervista.
    E tutto questo mi sembra un grande spreco di energia senza senso.

  37. Però, Giulio, su Vibrisse avevo pur tentato di rispondere alla domanda alla quale così tanto tieni (non a nome di Nazione indiana, e appunto non su Nazione indiana; ma appunto non capisco perché la tua domanda sia rivolta solo a Nazione indiana e solo Nazione indiana sia abile a rispondere; addirittura alla risposta di un redattore di Nazione indiana chiedi se stia rispondendo a nome personale o di Nazione indiana; forse mi sfugge qualche sottotesto in codice…).
    Mi pare un po’ strambo ma mi tocca citarmi (e me ne scuso) – per rispondere a una persona alla quale avevo già risposto, e sul suo sito…

    Il 7 marzo alle 9:54 scrivevo dunque:
    «Non troverai mai, negli scritti di un critico contemporaneo, la frase incriminata. Ma che sia questo il presupposto di molti dei critici […] di oggi, mi pare difficile metterlo in dubbio. Faccio l’esempio di un saggista che stimo moltissimo, ma i cui giudizi critici quasi mai condivido: Alfonso Berardinelli. Il quale già nei primi anni Ottanta si definiva «critico senza mestiere» dal momento che riteneva che la «qualità» della sua lettura (nutrita da decenni di educazione alla letteratura […]) non trovasse un corrispettivo nella «qualità» della poesia, e soprattutto della narrativa, che l’editoria italiana metteva sul mercato. Poi non ha mai scritto una frase come quella (anche perché Berardinelli scrive molto bene), ma un pensiero simile è senza dubbio alla base di ogni suo atteggiamento culturale. Naturalmente non può scrivere quella frase anche perché di volta in volta appaiono eccezioni, narratori che considera validi o entusiasmanti (di recente mi pare si possa dire che abbia trovato tali Antonio Debenedetti, Franco Cordelli e Walter Siti: fra loro il più giovane, classe 1947). Ma appunto: eccezioni. Che confermano la regola. E la stessa regola viene tacitamente osservata dalla maggior parte dei critici della generazione successiva, diciamo quelli oggi sulla cinquantina, sui quali l’influsso di Berardinelli è non meno che enorme».
    Non sta a me dirlo, ma mi pare una risposta abbastanza esauriente. Perché a te non è sufficiente?

  38. Cortellessa,
    mi sembra evidente che per soddisfare la curiosità di Mozzi sia richiesto un commento firmato da “redazione” (altrimenti sarebbe accreditato solo a chi lo ha postato) con un elenco di almeno due critici. Meglio ancora se ci fosse un articolo postato da redazione, direi.

    Intanto, ci siamo distratti tutti dal merito delle risposte di Bortolotti, ma io spero di aver tempo di tornarci.

  39. le risposte di bortolotti mi piacciano soprattutto perché mettono in evidenza che in generale le questioni letterarie e il rapporto scrittore-politica o scrittore-pubblico-casa editrice ecc ecc tutte queste cose non seguono e non possono seguire una logica lineare tipo stimolo-risposta, ma una meta-logica complessa, pure rizomatica, interattiva ecc ecc.
    mi piace, forse perché ‘lavoro’ in una radio, mi entusiasma il riferimento all’industria discografica a questa cosa, secondo me, dell’autoproduzione musicale (ma non sempre i prodotti sono originali nel senso di qualcosa di nuovo, c’è sempre un accomodamento abitudinario allo stile quasi commerciale o fruibile) è leggermente accostabile all’on-line.
    c’è anche il riferimento al sostrato cattolico. un libro può cambiare una vita, per parafrasare Carmelo Bene in una sua intervista, e CB, pur ‘fottendosene’ del quotidiano, faceva ‘politica’.
    forse lo ‘scrittore’ indie dovrebbe osare di ‘lavorare’ on-line scomparendo dietro un nick e impegnandosi a dire certe verità, lasciarle filtrare, magari andare a fare lo ‘scemo’ il buffone il clown in televisione. lo scrittore non è più considerato un punto di riferimento ed è vero: oggi, in un barino a firenze a mangiare, il tipo simpaticissimo che mi preparava il panino si sfogava con me, (io in veste di ‘psicologo evolutivo’) dei suoi bimbi e dei ragazzi in generale perché non è come una volta, ‘mancano i valori’. è vero, ma il problema è che manca il concetto di ‘valore’ . la dissocietà del mediale, come la definisco io, in cui viviamo e vivono gli improbabili lettori, è un moto browniano. puntiforme e fluido. al limite non ha più senso nemmeno il senso di domanda-risposta.
    il mondo è sempre più una specie di black hole. o un ologramma: la globalità non solo ha generalizzato il locale ma ha anche reso complesso il particolare. alla fin fine è un lascito ottocentesco dire che il tipo che pubblica per una grande casa editrice sia ‘più scrittore’ di un tipo che ha un blog. cioè: l’apparire, la moda, la televisione, rendono ovvio che un calciatore ,a tempo libero, possa essere uno scrittore pubblico e con un pubblico; e che un precario, scrittore a tempo pieno per necessità ‘terapeutiche’, sia un precario che scrive un blog come tanti… solo che i blog non sono ancora prodotti da poter mandare in radio o in tv.
    però siamo nella transizione, spero. spero che a un certo punto il dna cattolico-democristiano svanisca del tutto e che possa svilupparsi una ‘critica puntiforme’, senza riferimenti nazistico-populistici, il papa e il dittatore elettrico di turno: pubblicare non dovrebbe essere un modo diverso di apparire in alternativa alla televisione o alla moda. si dovrebbe ritornare a quello che diceva Carmelo Bene: il pubblico dovrebbe pagare con il sangue! :) cioè, utopie delle utopie, pubblicare per… non vendere, per far muovere il cervello, pubblicare fuori da qualsiasi mercato politico-economico. solo nell’anonimato si potrebbe scoprire se scrivi perché vuoi e devi e non perché hai un semplice contratto. secondo me… (ammetto di avere una visione un poco maledetta della scrittura, ma è l’unica che reputo più vicina alla mia idea di ‘arte’)
    p.s.
    scusate il bailamme pluri-caotico…. ma la scrittura di bortolotti, in generale, ma soprattutto ora che sono ‘asintomatico’ e senza deliri paranoico-depressivi, mi stimola a godere dello scrivere :)

  40. a proposito dei nomi ai quali fa riferimento il link di @Ezra

    Goffredo Fofi nasce nel 1937
    Angelo Guglielmi nel 1929
    Alfonso Berardinelli nel 1943
    Piergiorgio Bellocchio, nel 1931
    Sebastiano Vassalli nel 1941

    Non sono nati neppure nel dopoguerra, non sono neppure baby boomers, che pure hanno già i capelli bianchi anche loro.

    E’ perché sono vecchi, che dicono quello che dicono? O semplicemente perché si sono formati quando lo scrittore aveva ancora un ruolo sociale?
    Vorrei ricordare che questi critici sono ancora più pessimisti nei confronti della critica. (Mi viene in mente a questo proposito Lavagetto, oltre a Berardinelli)
    Le due cose vanno insieme.
    E vanno insieme perché con l’indebolimento del ruolo sociale dello scrittore [dell’autore] si è indebolito per forza di cose anche quello del critico.
    [E non è dipeso né dagli scrittori né dai critici e non si può annullare con un atto di volontà, ma contrastare con molte pratiche intelligenti]

    Ma anche se i critici proclamano l’indebolimento del ruolo della critica, le loro voci sono ancora diffusamente riconosciute come autorevoli.
    Sono loro, in fondo, gli interlocutori castranti che danno il là alla discussione, che sussurrano dietro alla domanda di NI, questi vecchiacci dei quali sono molto più contemporanea di quanto non lo sia della maggior parte dei commentatori qui.
    Poteva NI far finta di non sentirla, quella voce?
    Forse sì, ma avrebbe dovuto tapparsi le orecchie anche di fronte all’eco che le arriva forte da tutto il sistema culturale, del quale, chi più chi meno, almeno come referenti ideali, fanno parte.
    Quelle voci parlavano in passato, e già ne vedevano le crepe, a una comunità che in fondo, anche con i suoi laceranti contrasti, coincideva con il paese. Oggi non è più così. Le comunità (e lo dice Bortolotti) sono molte, io vorrei aggiungere che bisogna far in modo che crescano e restino, se possibile, porose.
    Che è una delle ragioni per le quali io, che pur non essendo sono vecchia quanto loro mi sono formata pochi anni dopo, vengo qua [e però continuo a leggerli].
    E per quanto mi riguarda ho cominciato a venire qua per le cose da un lato condivisibili, ma dall’altro catastrofiche, asfittiche, disperanti che si sentivano là.
    Il mondo non è mica finito, che diamine.
    Le comunità tra l’altro non sono mai chiuse, e se anche sembrano chiuse in alcuni momenti, non sono eterne, prima o poi si mischiano, magari attraverso uno o due dei loro componenti.
    Perciò, speriamo.

  41. a gm

    stiamo predisponendo una seduta paranormale in cui sia possibile che i 20 indiani s’incarnino simultaneamente in una riproduzione gonfiabile di toro seduto che scriverà sotto gli occhi di un notaio un elenco di nomi che ti verranno spediti in un astuccio ermeticamente chiuso. E’ un lavoro che richiede tempo. Non bisogna essere impazienti.

  42. @ Gherardo (Bortolotti)
    una cosa più di ogni altra mi ha colpito: quell’inciso con cui precisi la tua posizione «DA MARXISTA». Se – marxianamente – la letteratura non può essere autonoma, non credi che il primo passo, il passo più importante e decisivo da compiere, sia quello di prendere atto della «falsa libertà» dello scrittore? E ancora: essendo la realtà quell’insieme caotico di merda e sterco, in che modo gli scrittori possono misurarsi con essa? Marx, parlando di un personaggio di Balzac (un pittore), notava come la realtà emergesse nell’opera non grazie alla sua riproduzione fedele, ma dal continuo «limare e ritoccare il quadro, in modo da creare alla fine una massa informe di colori»; chi cerca di rappresentare la realtà rischia di trovarsi in mano il nulla: e allora qual è il modo migliore per conciliare il proprio essere marxista con l’opera? In che modo, insomma, dire la verità del dominio? E quindi, alla fine, chi se ne frega se nessuno ascolta gli scrittori? Più che mirare a costruire, come tu scrivi, una «comunità di scrittori e di lettori», non è più pressante, questa volta col marxista Fortini, «trovare i propri compagni, riconoscersi, unirsi, decidere di fare» al di là dell’appartenere alla categoria degli scrittori? Parafrasando un altro marxista, del tutto eretico rispetto alla vulgata togliattiana, il filosofo Luciano Parinetto, oggi non è tempo di scrittori, ma di streghe: salvarci dall’inquinamento del pensiero ricorrendo alla magia del movimento che tormenta la materia fino a farle cambiare stato. Come agire questo rovesciamento?

    Nevio Gàmbula

  43. Andrea, tu concludi dicendo: “Non sta a me dirlo, ma mi pare una risposta abbastanza esauriente. Perché a te non è sufficiente?”. Perché, appunto, “non sta a te dirlo”: se faccio una domanda a Nazione indiana mi è “sufficiente” solo una risposta di Nazione indiana. Non mi interessa sapere quali sono i critici che “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”, ma mi interessa sapere quali sono secondo Nazione indiana, visto che Nazione indiana li ha nominati e, a ogni puntata di questa inchiesta, continua a nominarli. Se Nazione indiana ti delegasse a rispondermi, riterrei “sufficiente” la tua risposta.

    Galbiati, vado un po’ un disordine.

    1. Scrivi: “Mi sembra evidente che per soddisfare la curiosità di Mozzi sia richiesto un commento firmato da ‘redazione’ (altrimenti sarebbe accreditato solo a chi lo ha postato) con un elenco di almeno due critici. Meglio ancora se ci fosse un articolo postato da redazione, direi”. Tutto giusto (e ovvio): solo che non si tratta di “soddisfare” una mia “curiosità”. Si tratta, da parte di Nazione indiana, di mostrare che quando parla di critici “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”, parla di qualcosa che esiste e che è in grado di nominare. Finché Nazione indiana non risponderà a questa domanda, e anzi continuerà a esibire tanta resistenza a rispondere (al punto che Andrea Cortellessa si sente in dovere di accorrere in soccorso), i lettori e le lettrici di Nazione indiana avranno il diritto di pensare che, quando parla di critici che “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”, Nazione indiana non sa di che cosa parla.

    2. “Per soddisfare la curiosità di Mozzi”. No, no. E’ un trucco dei peggiori (lo usa spesso Berlusconi, ad esempio), attribuire a una curiosità altrui quello che è un proprio problema. Nazione indiana parla di critici che “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea” e non è in grado di nominare tali critici. Il problema non è la mia curiosità, è l’afasia di Nazione indiana.

    3. Ti faccio notare che le tue domande sono molto diverse dalle mie. Ad esempio la tua domanda “Cosa intendi con linguaggio?” (alla quale rispondo rinviando alla voce di Wikipedia, qui), io l’avrei formulata così: “In che modo distingui ciò che è linguaggio da ciò che non lo è?” (e a rispondere, tra l’altro, la voce di Wikipedia è sufficiente).
    Ma comunque, io non ho fatto domande del tipo “Cosa intendi con linguaggio?”. Le mie domande girano attorno a parole (o gruppi di parole, come “mondo della cultura”) che hanno una caratteristica particolare: designano delle classi di persone, ma è evidente che non appena si tenta di stabilire se una persona appartiene o non appartiene a una di queste classi sulla base di puri elementi materiali, si ottengono risultati che sembrano insoddisfacenti (e, in effetti, dire che “è scrittore chi è in grado di esibire un libro stampato c on il proprio nome in copertina” sembra assai insoddisfacente). La decisione sull’appartenenza di una persona a una di queste classi sembra quindi passare sempre attraverso un giudizio. Peccato che i criteri di questo giudizio siano il più delle volte indiscussi. Se io dicessi: “Federico Moccia non è uno scrittore”, ad esempio, troverei molte persone disposte ad acconsentire; e molte non disposte ad acconsentire. Ma è difficile far emergere il modo in cui questi giudizi vengono posti in atto. A me non pare sia soltanto una questione di bellezza (del tipo: “è scrittore chi ha scritto libri belli”); mi pare che sia anche una questione sociale (del tipo: “è scrittore chi è ammesso in una comunità di scrittori”).
    Vedi quindi che la tua contro-controdomanda “cosa intendi con linguaggio?” è fuori luogo, in quanto è una domanda completamente diversa da quelle che io ho proposte.
    Provo ad affrontare le altre.

    4. “nazione indiana usa un linguaggio la cui comprensione è circoscritta a una comunità?”. Sì.
    “quali sono le caratteristiche di questo linguaggio?”. La vaghezza di certi termini chiave (“scrittore”, “critico”, “mondo della cultura” ecc.), per mezzo della quale si ottiene un risultato interessante: parlare di certe classi di oggetti (degli “scrittori”, dei “critifci”, degli appartenenti al “mondo della cultura” ecc.) dando per scontato che tutti sappiano quali oggetti appartengono e quali non appartengono a queste classi, ma in realtà riservandosi il diritto di dichiarare volta per volta, qualora uno di questi oggetti venga chiamato per nome, se esso appartiene o non appartiene alla classe. In questo modo gli oggetti potenzialmente appartenenti alla classe sono sempre tenuti sub judice.
    Un’altra risposta, più generica, può essere questa: Nazione indiana ha un linguaggio politically correct.

    5. “in che modo il termine ‘scrittore’ è caratterizzato nel linguaggio della comunità di NI (secondo te, se vuoi sbilanciarti)?”. Non è questa, esattamente, la domanda che io ho rivolta a Nazione indiana? E vieni a chiedere la risposta a me?
    In realtà, la tua domanda è molto diversa dalla mia. La mia domanda era: “con quali criteri Nazione indiana distingue chi è «scrittore» da chi non è tale?”.
    La tua domanda chiede in che modo il termine ‘scrittore’ sia caratterizzato nel linguaggio della comunità di Nazione indiana; io domandavo con quali criteri Nazione indiana, che è un soggetto sociale, distingue tra chi è «scrittore» e chi non lo è. La tua domanda concerne il linguaggio, la mia domanda concerne le pratiche sociali di inclusione ed esclusione.
    (Ed è davvero curioso, che le mie domande, tutte centrate su pratiche sociali di inclusione ed esclusione, siano state recepite come domande puramente sul linguaggio. Un interessante modo di equivocarle, depotenziarle eccetera).

    6. “in quale altro modo è caratterizzato il termine “scrittore” in altre comunità, per esempio nella tua (poiché lo usi anche tu, quel termine, presumo ci sia almeno una comunità, di cui tu fai parte, che si intende sul significato di quel termine)?”. Come da anni vado dicendo: “letteratura” è “qualcosa di scritto” (anche “la lista della spesa”); “scrittore” è colui che ha prodotto “qualcosa di scritto”. Ovviamente in questo modo la parola “scrittore” perde (spero) ogni connotazione valoriale; non c’è più bisogno di un giudizio per stabilire se Tizio è o non è uno “scrittore”.
    E quindi possiamo cominciare a distinguere tra scrittori: bravi, non bravi, interessanti, non interessanti, che fanno sempre libri belli, che li fanno talvolta, che fanno libri di successo, eccetera; trovandoci quindi costretti ogni volta a rendere esplicito il giudizio.

    7. “quali sono i confini della comunità di nazione indiana, chi ne fa parte e chi ne è escluso? io, per esempio, che capisco le domande di nazione indiana, in virtù di che cosa sarei parte della comunità?”. Guarda: è proprio una domanda che stavo per fare a Nazione indiana (che mi sembra titolata a rispondere). In linea di massima direi che fanno parte della comunità di Nazione indiana: (a) Le persone indicate sotto il titolo Nazione indiana oggi è: in nella pagina intitolata Chi siamo, (b) Le persone che pubblicano regolarmente (parola dolente: bisognerà stabilire dei criteri di regolarità, una frequenza minima ecc.) articoli in Nazione indiana, (c) Le persone che partecipano regolarmente (c.s.) alle discussioni in calce agli articoli di Nazione indiana esprimendo posizioni che non siano di fiera opposizione a Nazione indiana e, soprattutto, non mettendo in discussione il linguaggio, (d) Le persone che si dicono “appartenenti alla comunità” di Nazione indiana e che non vengono ufficialmente smentite da Nazione indiana.
    Sono criteri ancora approssimativi. Si apprezzerà, spero, il tentativo di andare verso i criteri il più possibile quantitativi.

    8. “quali sono i confini della comunità di cui tu fai parte, chi ne fa parte e chi ne è escluso? io, per esempio, che capisco le domande di nazione indiana, sarei escluso dalla tua comunità?” La comunità della quale faccio parte è composta da: Morena, Laura, Umberto, Gloria, Federica, Marco, Enrica, Massimo, Giuseppe, Demetrio; e da me, ovviamente. Non metto i cognomi qui perché dovrei chiedere a ciascuna persona l’autorizzazione. E’ una comunità amicale, privata e non pubblica, che si è formata nel tempo. Ci sono altre persone che potrebbero farne parte ma non ne fanno parte per ragioni banali (ad esempio: i rispettivi ritmi di vita rendono difficile la frequentazione). Mi pare che le persone che fanno parte di questa comunità abbiano in comune una cosa: la disponibilità a mettere in comune il linguaggio.

    9. “neanche se ci riunissimo per scrivere insieme un’opera che faccia concorrenza allo Zingarelli potremmo essere d’accordo al cento per cento sul significato dei termini che usiamo”. D’accordo. Possiamo darci l’obiettivo di un accordo al 42% su quattro o cinque termini chiave? Oppure: possiamo decidere che, poiché l’accordo non è possibile, almeno tentiamo – ciascuno per suo conto – di esplicitare qual è l’uso che facciamo di quattro o cinque termini chiave? Possiamo accettare l’idea che discutere su questi quattro o cinque termini chiave significa discutere sulle pratiche sociali di inclusione ed esclusione e non riscrivere lo Zingarelli?

    Vedi, Galbiati, le mie risposte alle tue domande sono probabilmente insufficienti. Ma io, come vedi tu e come vede chiunque legga qui, ho prese sul serio le tue domande e ho provato a rispondere. Sarei felice se Nazione indiana prendesse suls erio le mie domande e provasse a rispondere.

    Come noto, ignorare le domande dell’interlocutore, sostenere di “aver già risposto” quando non si ha risposto affatto, rispondere indirettamente e in sedi improprie, eccetera, tutto questo è una delle più classiche pratiche di esclusione.

  44. Censimento parziale per Mozzi:

    Franco Cordelli
    Giulio Ferroni
    Luigi Baldacci
    Cesare Garboli
    Giovanni Raboni
    Alfonso Berardinelli
    Romano Luperini
    Pier Vincenzo Mengaldo
    Goffredo Fofi
    Angelo Guglielmi
    Piergiorgio Bellocchio
    Sebastiano Vassalli

  45. a gm

    stiamo predispondendo l’accensione di un mutuo collettivo al fine di commissionare alla demoskopea un’approfondita indagine quantitativa sull’esistenza di una presunta comunità indiana. Anche questo è un processo lungo. I criteri, esclusivamente quantitativi, dell’indagine saranno resi pubblici assieme ai risultati, tutti quantitativi, dell’indagine.

  46. Proprio sulla responsabilità dell’A/a-utore ho assistito ieri a un convegno in cui Wu Ming 1 ha annunciato la nuova mossa dei Wu Ming. Una sintesi dell’incontro di là da me.

  47. @giuliomozzi

    ieri ho parlato telefonicamente con un’amica francese che da molto tempo traduce dall’italiano, che ha tradotto alcuni nostri importanti classici, e che soprattutto con la sua testardaggine è riuscita a portare in Francia molti nostri ottimi autori contemporanei che altrimenti non sarebbero stati tradotti; da anni svolge questo fondamentale e faticoso lavoro di scouting e di promozione; bene, adesso questa conosciuta traduttrice dice che, a differenza di solo qualche anno fa, non riesce più a più a piazzare i libri che propone; le case editrici francesi vogliono solo la Mazzantini, Giordano etc.; sanno in molti casi che sono scritti male, e allora le chiedono esplicitamente di “sistemarli”;

    poi la nostra discussione è caduta non so perchè su Rosarno; la mia amica (che non sa niente di questa inchiesta, perchè non bazzica sul web) mi ha detto di essere scandalizzata che nessun intellettuale italiano sia insorto; mi ha detto che se fosse successa una cosa simile in Francia gli intellettuali francesi avrebbero fatto fuoco e fiamme (faccio notare che la mia amica non è certo tenera contro l’intelligentzia francese!);

    alla mia amica avrei potuto chiedere cosa intende per buon autore italiano, cosa intende esattamente per traduzione, cosa intende quando dice “casa editrice”, cosa vuol dire per lei “sistemare un romanzo”, cosa intende per “intellettuale” …;

    ma ho fatto un piccolo sforzo, e ho capito lo stesso, anche senza domande; e mi si sono rizzati i capelli (che ho tagliato da poco);

    questa nostra inchiesta, certo molto imperfetta, ambisce a coinvolgere e a far parlare scrittori molto diversi tra loro, anche molto lontani dal web (questo è un punto molto importante), su queste tematiche che ci stanno a cuore, in questa situazione che si sembra molto grave; accantonando per un momento le questioni di fondo che – lo sai meglio di me – hanno sempre trovato spazio su NI, e alle quali molti membri di NI dedicano gran parte della loro esistenza, sul fronte teorico o più semplicemente – come il sottoscritto – nel loro “lavoro letterario”; esattamente come – e anche questo lo sappiamo bene, e proprio per questo ti stimiamo e ti vogliamo bene – fai tu;

    per adesso siamo molto soddisfatti, e parlo a nome di tutta NI, di come sta andando quest’inchiesta; nessuno di noi si aspettava di arrivare a tanto; sarà come insinui tu (non so mettere il link alle frasi esplicite, e comunque mi sembrerebbe ridicolo farlo), che la capacità di discernimento della nostra “comunità” è molto scarsa!;

    sulle domande che poni, potremmo – e più in generale si potrebbe – e magari munendosi un po’ di umilta, perchè nessuno di noi ha la verità in tasca, discutere all’infinito (grandi pensatori e critici ci hanno dedicato la vita!); ma appunto, la nostra ambizione in questa occasione è quella di far parlare anche soggetti che di solito non si esprimono, o comunque non in maniera estesa; francamente, e anche qui mi prendo la responsabilità di parlare a nome di tutti, vorremmo evitare le scaramucce (che personalmente mi fanno pensare a quelle dei “collettivi politici”, che certo hai conosciuto anche tu) tra soggetti che (scusa, ma per me è così!) hanno visioni e background e posizionamenti e gusti e predilezioni in fondo molto simili;

    ma ripeto, restiamo interessati, ed è la nostra vita, e quindi contiamo che ci sia il tempo e il modo per abbordane almeno qualcuna, alle questioni di fondo;

  48. MOZZI su chi fa parte della comunità NI:
    “(c) Le persone che partecipano regolarmente (c.s.) alle discussioni in calce agli articoli di Nazione indiana esprimendo posizioni che non siano di fiera opposizione a Nazione indiana e, soprattutto, non mettendo in discussione il linguaggio

    Interessante! Quindi chi ha posizioni (anche saltuarie) “in fiera opposizione” o chi ne metta in discussione il linguaggio, automaticamente viene escluso dalla comunità? Lo avevo sospettato;-). Però Nazione è l’antitesi di Comunità, quindi faccio io una domanda: Perchè si chiama Nazione Indiana e NON Comunità Indiana? Nelle nazioni esistono del tutto legittimamente anche fiere opposizioni e, soprattutto se si affronta l’argomento scrittura, chi metta in discussione il linguaggio … mi sembra salutare farlo e demenziale NON farlo.
    Io personalmente vedo Vibrisse come una comunità e NI come una nazione, in base a questo, anche se alle volte intervengo, mi sento, in linea di massima, esclusa da vibrisse, mentre, pur essendo spesso in fiera opposizione con NI, non mi sono mai sentita esclusa … ho forse sbagliato a pensarlo fino ad oggi?
    geo

  49. Mi stupisce l’ironia attorno a un problema reale. Le dieci domande sono formulate con un linguaggio abbastanza imperfetto; questo è grave, specie poi in un sito letterario e/o civile. Quando m’azzardai a criticare il linguaggio usato da Biondillo per la povera Brenda, o quando mi sono azzardato a criticare la forma dell’appello di Saviano a Berlusconi contro il processo breve, sono stato ignorato o spernacchiato o insultato in maniera becera o trattato come un poveraccio eccetera; e invece il linguaggio, specie quando diventa pubblico, è faccenda d’una serietà MORTALE/VITALE. Noi italiani berlusconizzati dovremmo averlo compreso bene. Se non si preoccupa del linguaggio NI dovrà farlo il tg 5, oppure Libero? E’ chiaro che chi critica le dieci domande le ha comprese per sommi capi, ma dov’è la colpa nel volerne eliminare il più possibile le (numerose) zone d’ombra e ambiguità? Faccio un esempio: la prima domanda è spaventosamente vaga e al tempo stesso spaventosamente circoscritta; questo obbliga già in partenza chi risponde a una torsione concettuale d’allineamento oppure opposizione, perché lo pone innanzi a un argomento sfuggente e vasto pretendendone un sunto attendibile (nonché sperabilmente in contrasto con ciò che sostengono “quei critici”, la cui aura maligna pure riluce sullo sfondo come nebbia mattutina in una gola di montagna); ma anche eliminando la seconda parte della domanda, la medesima domanda resta quasi assurda, a meno di non pretendere da chi risponde un trattato oppure un libro (sempre che ne sia in grado; e infatti il tanto – e giustamente – lodato Bortolotti ammette di non avere idea di cosa dire). L’ultima domanda invece così com’è formulata equivale a chiedere: “Ritieni plausibile che Jack lo Squartatore non fosse una brava persona?”
    @georgia
    Una nazione deve’ssere plurale ma civile. Su NI vige piuttosto un clima da giungla – non sempre, non da parte di tutti, ma comunque troppo spesso; e seppure NI è una nazione, è una nazione piena di province e campanilismi e amministrazioni locali eccetera; il che la fa assomigliare per parecchi versi più a una nazione italiana – le iniziali non cambiano.

  50. @macioci

    che palle, questo rimestamento delle stesse cose!; ma non ti stufi?:

    http://vibrisse.wordpress.com/2010/03/07/dieci-otto-una-domanda/

    se non ti piacciono le domande, e soprattutto se pensi che queste domande che non ti piacciono suscitino risposte che non sono interessanti, perchè ti ostini a interessartene, perchè non lanci tu un’iniziativa migliore? se davvero NI non ti piace, perchè la segui, perchè commenti?

  51. Enrico secondo me sbagli, essere spernacchiati, ignorati, o altro, fa parte della libertà reciproca di espressione in rete :-), l’importante è che ti lascino dire quello che tu credi sia interessante o importante dire. Beh a parte rarissimi casi (condivisibili) nazione indiana non toglie mai la parola. Certo se quella parola non gli piace mi sembra del tutto legittimo che abbiano anche loro la libertà, sia di ignorare che di spernacchiare … tu potrai sempre difenderti spernacchiando oppure ignorando, certo meglio farlo discutendo intelligentemente …ma non sempre è possibile.
    Invece altrove (comunità appunto e non nazioni) se dici qualcosa che li disturba, o ti lanciano contro i bravi che arrivano sotto mentite spoglie (e pensare che ufficialmente sono del tutto contrari ai nick;-) e non a spernacchiare, ma proprio minacciare, oppure chiudono improvvisamente i commenti al post (cosa del tutto legittima tra l’altro, in una comunità) :-).
    Lascia stare macioci, che con tutti i difetti che sicuramente hanno in NI (fra i più grossi un atteggiamento da abatini a volte), Ni è pur sempre fra i luoghi più democratici e liberi del web italiano (tenendo conto che la democrazia di per sé non esiste, ma è solo sempre un tendere a)
    geo

  52. @georgia

    “altrove (comunità appunto e non nazioni) se dici qualcosa che li disturba, o ti lanciano contro i bravi che arrivano sotto mentite spoglie (e pensare che ufficialmente sono del tutto contrari ai nick;-) e non a spernacchiare, ma proprio minacciare”

    Che canaglie! Chi sono?

  53. e-kanaglie vorrai dire :-)

    …. lascia stare ;-) per quanto ne so potresti essere anche tu uno dei giannizzeri … hanno una quinta colonna in ogni blog ;-)
    geo

  54. Giacomo, anche tu!

    Scrivi, rivolgendoti a me: “sulle domande che poni, potremmo – e più in generale si potrebbe – e magari munendosi un po’ di umilta, perchè nessuno di noi ha la verità in tasca, discutere all’infinito (grandi pensatori e critici ci hanno dedicato la vita!)”.

    Come se io avessi posto domande del tipo: “chi è lo scrittore?”, “chi è il critico?”, e cose del genere.

    Ma io non ho fatto questo. Ho chiesto a Nazione indiana di provare a spiegare come distingue – ad esempio – tra chi è e chi non è “scrittore”, come distingue tra chi è e chi non è “critico”. Non ho sollevato questioni generali. Ho chiesto a un gruppo di spiegare come agisce.

    E, in ogni caso, non mi pare che io ponga una questione sulla quale si possa “discutere all’infinito”, quando chiedo a Nazione indiana di dire quali sono questi benedetti critici che “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”. Ho immaginato che Nazione indiana, quando scriveva quella frase, che descrive una classe, avesse in mente un elenco degli appartenenti a quella classe. Almeno un elenco parziale.

    Tu hai scritto chiaramente chi, secondo te, appartiene a quella classe (qui). Di questo ti ringrazio e, come hai visto, non ho avuto nulla da ridire. Però la tua mi è sembrata (e l’ho scritto, e nessuno mi ha smentito) una risposta a titolo personale (tranne forse che per il nome di Berardinelli, del quale hai scritto che era “uno dei nomi a cui pensavate“). E comunque io la domanda l’ho rivolta a Nazione indiana in un testo che ho scritto su richiesta di Nazione indiana e che è stato pubblicato da Nazione indiana (qui); perciò penso che mi spetti una risposta pubblicata in Nazione indiana.

    (Un altro degli intervistati, Emanuele Trevi, qui, insinua addirittura il dubbio che questi critici non esistano, e che siano solo “una figura retorica”. Sono una figura retorica?).

    Se la risposta non arriverà, prenderò atto di essere uno al quale Nazione indiana non ritiene valga la pena di rispondere. Per il momento, prendo atto di essere uno al quale Nazione indiana ritiene si possa non rispondere – su una questione così terra terra, alla quale basta rispondere citando alcuni nomi – per venti giorni di fila.

  55. Giulio, ma sinceramente: perché fai così?
    Su questa storia dei critici ti hanno risposto Giacomo Sartori, Andrea Inglese, io (per restare DENTRO nazione indiana: e certo che parliamo a nome di nazione indiana, non dobbiamo mica stare ogni volta a fare le dichiarazioni di voto o di rappresentanza…). Poi ti hanno risposto titolatissimi critici (citando gli stessi nomi che erano venuti fuori da noi) come Andrea Cortellessa. Poi ti hanno risposto (sempre, più o meno, con gli stessi nomi) commentatori più o meno assidui di nazione indiana.
    Insomma Giulio, abbiamo tutti capito di chi e di cosa parliamo (rispetto alla tua domanda sui critici). Solo tu sembri non volerlo fare, o non riuscirci. Ma qual è il problema? Te lo chiedo serenamente e sinceramente. Davvero, per porre fine a questo strazio, dovremmo, come ha detto Galbiati, pubblicare un post collettivo a firma REDAZIONE, con l’Indice dei Critici?
    Sei una persona stimata e intelligente. Perché devi comportarti così? Non capisci che ti rendi solo ridicolo (e, ripeto, tutto sei, di solito, meno che ridicolo)?

  56. @ Mozzi

    ogni tua domanda la trovo legittima, ma posso chiederti perché non gliele hai fatte prima di rispondere al questionario?
    o perché non gli hai scritto dicendo, guardate che secondo me le domande sono mal poste?
    o perché non hai fatto una premessa alle tue risposte, esprimendo in poche righe il tuo dissenso?
    o perché non hai detto non rispondo a domande secondo me mal poste?

    mi sarebbero sembrate tutte opzioni più amichevoli, nei confronti di persone che altrove hai detto di ammirare.

    Io, da lettrice, ho come la sgradevole impressione che ci sia una polemica che mi sfugge, dietro a questo accanimento, perciò ti faccio la mia ultima domanda, c’è questa polemica che trascende le domande? e se c’è, qual è?

  57. a volte grossi malintesi nascono dalla sottovalutazione di piccoli problemi tecnici. magari mozzi ha semplicemente un virus nel pc e non se n’è accorto.

  58. Se i critici che «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea» sono Cordelli, Ferroni, Baldacci, Garboli
, Raboni
, Berardinelli
, Luperini
, Mengaldo, 
Fofi
, Guglielmi, Bellocchio, Vassalli, Cortellessa, allora comincerò a crederci anch’io. Se poi mi baso sulla mia esperienza di lettore, il sospetto che l’assunto, per quanto retorico, contenga una certa dose di verità è forte. Così come lo trovo plausibile se provo a pesare la qualità di taluni con la maggioranza di schifezze prodotte dall’editoria nel suo complesso, giacché è innegabile che la maggior parte dei libri rientranti nella categoria del “romanzo” e della “poesia” non raggiungono la sufficienza. Ma forse ha ragione Mozzi: è la domanda che è malposta, tra l’altro a fronte della domanda successiva sulla industrializzazione; e sì, perché se l’industrializzazione esiste, se è un processo già avvenuto, alla qualità non può che essere riservata una piccola quota di mercato. Sempre, ovviamente, se si osserva il fenomeno in termini generali (e se si dà per scontato, come mi fare facciano un po’ tutti qui, che la vitalità della letteratura non coincide con l’esito delle vendite). Ma anch’io, lo ammetto, penso DA MARXISTA, ovvero come chi sa che nel dominio della merce e del denaro la maschera principale dell’arte è quella dell’intrattenimento. A chi vuole semplicemente passare una serata davanti a un libro, non serve sapere che Bortolotti ha scritto un ottimo “Tecniche di basso livello”.

    ng

  59. se vi interessa nel mio blog ho rintracciato e linkato gli interventi sull’unità del dibattito su scrittori e politica sviluppatosi nel 2004 in seguito ad un articolo di Romano Luperini.
    geo

  60. @ sartori
    Mi stupisce il tuo stupore. Continuo a interessarmi perché:
    1) l’argomento è potenzialmente assai interessante;
    2) un argomento potenzialmente assai interessante potrebbe essere sviluppato meglio;
    3) le dieci domande sono postate su NI da svariate settimane di fila, e io seguo NI abbastanza assiduamente;
    4) seguo NI abbastanza assiduamente perché ritengo che rappresenti un luogo ricco di stimoli;
    5) il fatto che io ritenga NI un luogo ricco di stimoli non m’impedisce di coglierne i difetti, né il viceversa.
    Poi è ingenuo dirmi: fallo tu. Vostra è NI, con oneri e onori annessi. Io porto il mio contributo critico; e seppure sgradito è pur sempre un contributo di tempo e attenzione – infatti non mi sembra di cazzeggiare nei miei interventi, tanto per usare un francesismo.
    @ Georgia
    Democrazia non vuol dire cagnara. Reagire allo stesso modo? Non faccio una cosa che considero inutile e idiota. La libertà di cui si gode su NI e che tu sottolinei è senz’altro vera ed è senz’altro cosa buona e giusta, ma di lì alla maleducazione pura e semplice – e per giunta quasi sempre coperta da nickname – il passo purtroppo è spesso assai breve.
    ps: ribadisco quanto ho affermato alla fine del mio post precedente: mi sembra che NI stia tradendo la sua originaria vocazione e che si stia arroccando. La libertà a mio avviso non si quantifica dal fatto che ti permettano di pubblicare il tuo commento, ma dalla disposizione mentale con cui i commenti vengono accolti. Io, che adoro i dibattiti sugli argomenti letterari e che andrei avanti all’infinito, quasi sempre ho dovuto desistere perché i suddetti si tramutano ben presto in questioni personali, offese o sputazze.
    pps: un’osservazione al volo sull’elenco dei critici “incriminati”: si tratta di persone che hanno tutte superato la sessantina; non credete che la generazione dei critici oggi quarantenni – Cortellessa, Benedetti eccetera – sia quella da prendere come punto di riferimento in una discussione del genere? E difatti Cortellessa e Benedetti non affermano affatto la “totale mancanza di vitalità” di romanzo e poesia italiani.
    ppps: lo so che sono pesante, ma un’altra osservazione: lo “speditivo apprezzamento di massima” nell’ambito d’una domanda come la prima è un po’ come l’apoftegma di Kafka “Dormite in fretta, abbiamo bisogno dei cuscini!” Una richiesta impossibile e in certo qual modo castrante, perchè ammantata di plausibilità.

  61. @nevio
    domande non da poco quelle che mi hai fatto nel tuo commento delle 07:12!ti rispondo velocemente e un po’ a braccio.
    sulla questione “autonomia” mi sento di dire solo che il marxismo non è un determinismo e, diciamo così, nel salto tra struttura e sovrastruttura (sembriamo ad un seminario di galvano della volpe ;-), c’è sempre lo spazio di una libertà – pur con tutto quel che c’è di vero nella formula della “falsa libertà”. era quello che cercavo di dire nella risposta in cui dichiaro di usare un punto di vista marxista. marxismo di cui, per altro, ancora più che per le poetiche o le estetiche che se ne possono (o non se ne possono) trarre, mi interessa per l’elaborazione dei temi del lavoro, della merce, del plusvalore.
    sul discorso “comunità di scrittori e di lettori” devo dire che non è una “mira” ma che mi sembra proprio la direzione in corso, a prescindere dalle nostre intenzioni. la formula fortiniana mi va benissimo per l’idea che volevo passare, dato che la distizione scrittori/lettori aveva un valore solo funzionale e non certo categoriale; nota però che essendo l’argomento la letteratura era quelle le funzioni da citarsi e nota un’altra cosa: molte delle comunità in corso sono schizofreniche, proiettive e funzionali. a questo punto mi domando se fortini se la sentirebbe di parlare dei “propri”.

  62. Piero, le risposte di chi non è di Nazione indiana non mi interessano, visto che chiedo quali sono questi benedetti critici secondo Nazione indiana.

    Potrei dunque avere una risposta (un elenco di nomi, non serve mica altro), qui in Nazione indiana (e non altrove: la rivista che Inglese, mi ha citata, ad esempio, non so nemmeno da che parte cominciare per trovarla), pubblicata da una persona che appartiene a Nazione indiana e che parli esplicitamente a nome di Nazione indiana?

    Tieni conto che Heleha Janeczek, il 7 marzo scorso, mi ha risposto così (in vibrisse: “La richiesta di nomi e cognomi è pervenuta, ma a questo punto frugare negli archivi della memoria per rintracciare caio e tizio che si sono espressi così o cosà richiede un po’ di tempo” (qui).

    Mi domandi: “Davvero, per porre fine a questo strazio, dovremmo, come ha detto Galbiati, pubblicare un post collettivo a firma REDAZIONE, con l’Indice dei Critici?”.
    Be’, sì. Farebbe chiarezza, non ti pare? Oltretutto, se Nazione indiana dice che i critici Tizio e Caio e Sempronio, a suo giudizio, “denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea”, mica dice che sono dei cretini o degli infami. Mica li proscrive.
    (Lo “strazio” è questa resistenza a rispondere in modo chiaro, completo, ufficiale e nella sede opportuna. Non certo il mio reiterare la domanda).

    Alcor, quando le domande mi sono state proposte erano già state pubblicate (in altre interviste); quindi non aveva senso avanzare dubbi, perplessità o domande in privato. Ho risposto alle dieci domande pubblicamente, facendo capire le mie perplessità; ho ritenuto di rispondere comunque perché non ho l’abitudine di sottrarmi alle domande.
    Non c’è da parte mia nessuna “polemica che trascende le domande”. Perché mai dovrebbe esserci?

  63. ma come mi viene in mente di buttare nel discorso la discriminante o meglio la chiave interpretativa del marxismo. Non è, certo, il caso di affrontare un argomento che richiederebbe paginate senza fine. Si può certo dire che marx, in sostanza, considerava l’arte e la letteratura sovrastrutture con una valenza temporanea e non indispensabili per la creazione di un nuovo mondo. Sacerdoti di un’idea organica si, non scrittori liberi. Che c’azzecca il plusvalore con la letteratura?

  64. “Che c’azzecca il plusvalore con la letteratura?” esattamente non so ma io scrivo nello stesso mondo in cui produco plusvalore. questo mi fa pensare che le due cose una qualche relazione ce l’hanno ;-)

  65. di sicuro marx fa rientrare lo scrittore come il pittore nella divisione del lavoro come relizzato nelle società capitalistiche. “nella società comunista non esistono pittori, ma tutt’al più uomini, che, tra l’altro, dipingono anche”.

  66. effeeffe alias francesco forlani redattore di Nazione indiana risponde…

    effeffe

  67. @ mozzi

    non so perché dovrebbe esserci una polemica che trascende le domande, ma l’accanimento o se preferisci l’insistenza con cui chiedi che ti si risponda solo alle tue condizioni oltre che un registro personale e affettivo nel tuo commento del 16 marzo alle 11:26 e se ricordo bene anche in vibrisse, può dare l’impressione (a me la dà) che non sia una semplice questione di chiarezza formulatoria, ma una questione più complessa.

    Se però intuisco male e la polemica non c’è, non si potrebbe lasciar perdere, qui, sotto il post di Bortolotti, che non ha responsabilità?

  68. @ bortolotti

    curioso che tu dica questo “ancora più che per le poetiche o le estetiche che se ne possono (o non se ne possono) trarre, mi interessa per l’elaborazione dei temi del lavoro, della merce, del plusvalore.”

    il tema della merce e del plusvalore interessa molto anche me, dopo la critica dell’economia politica mi sono anche letta con parecchia fatica anche Sraffa, e forse per mia ignoranza ne ho ricavato che “la merce é”, non c’è niente da fare, e ogni scappatoia idealistica è inutile.

  69. @alcor
    prima di tutto complimenti per aver letto sraffa ;-)
    ma, a parte gli scherzi, quello che intendevo era che il marxismo mi interessa per quanto mi può dare in termini di analisi delle nostre condizioni di vita (la stessa vita, come dicevo più sopra, in cui scrivo e le cui dimensioni infraordinarie, per dirla à la perec, cerco di comprendere).
    la merce… la merce è, non ci sono scappatoie idealistiche come dici tu e saperlo, secondo me, è bene. però bisogna dire che la merce è anche una specie di soggetto aggiunto nelle nostre vite, una fonte di incantamento; il suo valore di scambio, la negazione che mette ogni momento in atto ha una specifica dimensione “magica” che deforma continuamente le nostre esistenze, con narrazioni, più o meno implicite, di vite perfette, crudeli, tremende. la merce è un feticcio e quindi, diciamo, è monstrum, meraviglioso e orribile e questo, secondo me, ha molto a che fare con la scrittura. generalizziamo pure a più non posso e diciamo che la merce è romanzesca ;-)

  70. Gherardo scrive:

    la logica della “produzione di contenuti”, che sta alla base del web e che valida qualunque cosa venga messa on line, è opposta all’idea che abbiamo della letteratura, un’idea invece costruita attorno a paradigmi di selezione e rarefazione. Tra le altre cose, questo rovesciamento va a toccare la figura dell’autore, come soggetto legittimato a produrre dei testi, dato che, appunto, il web sembra dare luogo ad una legittimazione apparentemente universale.

    Aggiungo che l’idea di selezione letteraria nasce semplicemente dalle condizioni materiali di produzione libraria: dall’avvento della stampa stampare libri è un’attività d’impresa dai costi certi per ogni copia stampata e dai ritorni vaghi, dove l’editore deve per forza operare una selezione tra i testi che intende stampare con le risorse finanziarie a disposizione. Così pian piano l’editore si trasforma, da esperto tipografo, stampatore, libraio, imprenditore, diventa anche un esperto nella selezione dei testi e pian piano esperto selezionatore letterario. Un ruolo naturale in un’economia della scarsità (scarse le risorse economiche ed umane per stampare tutto), ma del tutto contingente.
    In rete la pubblicazione di un libro non ha costi significativi oltre a quelli necessari perché l’autore lo scriva e viene quindi meno la necessità di una selezione editoriale a monte. Non che tutto quel che viene scritto in rete (su Nazione Indiana, su milioni di blog, in migliaia di ebook, in centinaia di forum e newsgroup) sia “buono” o gradito a tutti, ma non ha più senso la presenza di uno che decida cosa pubblicare e cosa no.
    Come ha fatto notare Sascha più sopra, c’è il problema di trovare quel che ci interessa, capire in che modo arrivare a testi interessanti saltando tante cose irrilevanti, ma è un problema onestamente secondario, di facile soluzione, personale. Ti costruisci i tuoi percorsi di lettura in rete, usi un aggregatore, segui i link.
    Ovvio che così oltre alla frammentazione dell’autore che dice Gherardo, abbiamo la frammentazione del lettore. Proviamo a frequentare un forum di fanfiction e vedremo quante correnti, stili, comunità e gruppi ci sono anche all’interno di filoni riconosciuti come la saga di Harry Potter.
    A differenza di Sascha, non credo che negli ultimi dieci anni l’accesso alla scrittura in rete abbia portato all’egemonia della televisione, semmai il contrario, ed è paradossale che lo scetticismo di Sascha si manifesti nei commenti (dove tutti i lettori “credono di saper scrivere” cose interessanti) di un blog come questo (dove noi “crediamo di saper scrivere” altrettante cose interessanti).
    A tutti ovviamente concedo: non mi sono curato minimamente del valore di un’opera letteraria oltre la sua dimensione di mercato.

    • Ora ho riletto il commento di Sascha e mi accorgo che ha scritto cose un po’ diverse, comunque piuttosto catastrofiste per le sorti dell’industria musicale e di quella editoriale. Ha ragione riguardo alla catastrofe, ma per l’industria, molto meno per gli autori e per i lettori.

  71. sono molto d’accordo con quello che dice jan, sia sulla parte economica che su quella della frammentazione (anche del lettore, certo!).
    sulla parte economica aggiungo solo una cosa: l’economia ha chiaramente avuto una parte rilevantissima nel momento in cui l’editoria è diventata industria ma considerazioni economiche rispetto alla produzione, diffusione e archiviazione di documenti c’è sempre stata (pensiamo, per dirne una, al lavoro ed alle risorse necessari per la realizzazione di un manoscritto su pergamena). oggi, invece, con l’apparizione di supporti di scrittura e archiviazione oltre che di sistemi di distribuzione quasi (sottolineo ovviamente il quasi) gratuiti e dalle capacità elevatissime la situazione si è ulteriormente trasformata.

    • Gherardo:

      pensiamo, per dirne una, al lavoro ed alle risorse necessari per la realizzazione di un manoscritto su pergamena

      Esattamente! Stavo pensando agli amanuensi, alla pergamena, alla stampa xilogafica cinese, ma mi sono trattenuto per brevità.

  72. Reister, Bortolotti: l’investimento a base della querelle, mercatabilita’ a parte, e’ cosa interessa tramandare, cosa contribuira’ a scrivere la Storia, cosa sara’ ritenuto significativo in letteratura da chi verra’ dopo di noi. L’operazione comunitaria, la “comunita’ stretta”, e’ un accordo tra competenti per stabilire il merito su basi condivise (tradizione, ermeneutica, intenzione, politica).

    Piu’ in generale e tornando al questionario, non capisco dove Mozzi offenda la comunita’: sta solo dicendo, in maniera puramente letteraria, che l’accordo tra competenti, per come gli e’ stato presentato e per come lo vede, gli pare fallace. Le mozioni dell’affetto, dello sconcerto, dell’ironia, del sarcasmo, del fastidio che sono seguite ai suoi commenti in colonnino, sono tribali. Anche la tribu’ e’ una comunita’, ma -ammetterete- abbastanza spaventosa, se “progresso” o “alternativa” ha da essere rispetto alla tribu’ (comunita’?) alla quale siete alternativi.

  73. ma forse ho capito: “la comunità tribale, la collettività naturale, appare non come risultato, ma come presupposto dell’appropriazione collettiva (temporanea) e dello sfruttamento collettivo del suolo” (cit.)

  74. Dopo aver letto anche il post indicatomi da Gherardo, trovo che che ci siano due problemi, uno sottovalutato e l’altro, indubbiamente futuro, del tutto ignorato.
    Il problema sottovalutato è la quantità. Più le opzioni aumentano, più aumenta la necessità di filtri per decidere. Scegliere fra dieci opzioni, per esempio romanzi, è facile; scegliere fra cento, parecchio difficile; scegliere fra centomila o un milione, insensato. Le possibilità di trovare quel che ci piace e interessa diminuiranno sempre di più e, come fa notare Jan Reister, ci dovremo affidare ad aggregatori automatici e impersonali. L’ideologia della Rete, in cui hanno un peso sproporzionato certe vecchie favole pop-rock, immagina gli intermediari come una barriera fra il genio e il pubblico e non come un mezzo che permetta al pubblico di scoprire il genio. Così si gioisce alla crisi degli intermediari e si fa finta di credere che l’arrivo di centinaia di migliaia di nuove opere ogni giorno sul web sarà un problema facilmente risolvibile mentre già non si riesce a tener dietro alle tradizionali uscite in libreria. I geni del futuro saranno perfettamente sconosciuti e scriveranno nelle pause del lavoro, indistinguibili nella folla sterminata o, al massimo, distinti da qualche motore di ricerca, obbiettivo in quanto non umano.
    Per il momento, lo ribadisco, la Rete parla di quello che si vede in tivù, cosa che consente un minimo di argomento comune. Il giorno in cui anche la tivù sarù fagocitata dalla Rete non ci sarà nememno più quello.
    L’altro problema cui accennavo, la possibilità di manipolare i testi propri e altrui è ancora agli albori ma in un prossimo futuro contribuirà alla creazione del blob universale in cui non vi saranno più autori ne’ lettori ne’ testi ne’ gerarchie ne’ forme ma solo una vasta chiacchiera di perdigiorno senza centro ne’ confini.
    Come accennavo, l’unica soluzione sarà stampare su carta a spese di qualche ricco mecenate.
    (ultimo dettaglio: chi tiene un blog o posta un filmato o diffonde la sua musica online lo fa perchè spera di passare al livello superiore – un libro, un film, un disco. Il giorno che non ci sarà più un livello superiore che effetto farà?)

  75. I geni del futuro saranno perfettamente sconosciuti e scriveranno nelle pause del lavoro, indistinguibili nella folla sterminata o, al massimo, distinti da qualche motore di ricerca, obbiettivo in quanto non umano.

    Ma e’ gia’ cosi’ probabilmente per le nuove generazioni. Quelle che forse non emergeranno mai attraverso i vecchi canali. Se si presentasse un ventenne geniale da Giulio Mozzi, questi gli riderebbe in faccia. Succedera’ sicuramente qualcosa, perche’ cosi’ non si puo’ andare avanti. Viviamo comunque tempi minori. E neanche nuovi.

  76. Reister, Bortolotti: l’investimento a base della querelle, mercatabilita’ a parte, e’ cosa interessa tramandare, cosa contribuira’ a scrivere la Storia, cosa sara’ ritenuto significativo in letteratura da chi verra’ dopo di noi. L’operazione comunitaria, la “comunita’ stretta”, e’ un accordo tra competenti per stabilire il merito su basi condivise (tradizione, ermeneutica, intenzione, politica).

    Guarda, che ci piaccia o meno, bisognerebbe proprio fare i conti col vecchio Francis Fukuyama, tu che dici?

  77. @ Bortolotti

    Io non ne farei solo un problema di economia della produzione e distribuzione. Che la crisi politico-economica venga velocemente riassorbita o meno, noi stiamo gia’ vivendo una tarda antichita’.

  78. ad Ama (17 marzo, ore 22:54)

    (anche se ti rivolgi a Gherardo, se posso intromettermi)

    io dico che è tutto il POSTMODERNO intero intero ad aver fatto i conti con il senso della FINE di tutto, come unica storia possibile da suonare ad libitum e direi che devo rileggermi con calma Fredric Jameson. Torno a meditare.

  79. Meditiamo tutti su questo nostro basso impero. Senza contare che, ci piaccia o meno, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, Jean Baudrillard un paio di cosette le aveva azzeccate…
    Mi ricordo quando alla fine degli anni ’90 chiesi ad un commesso della Feltrinelli Lo scambio simbolico e la morte. Mi guardo’ come se fossi stato un pervertito. E lo ero di fatto.

    Comunque, al di la’ dell’entusiasmo di Giulio Mozzi, tutti noi dovremmo avere consapevolezza del periodo storico che stiamo attraversando. O no?

  80. @ Dinosauro
    linguaggio e produzione – direbbe Rossi-Landi – sono due dimensioni strettamente intrecciate «in un’azione di mutua interferenza e di mutua determinazione» (è tutto qui il discorso marxiano di struttura e sovrastruttura). Un libro, insomma, non è mai solo un evento di parole: è anche carta, inchiostro, lavoro retribuito del magazziniere o dello stampatore, etc.. Il plusvalore c’entra eccome, così come c’entra con la letteratura l’alienazione e la merce.

    E proprio perché ogni “discorso”, letterario o meno, oltre che essere determinato, determina a sua volta, non è esatto dire che Marx considerasse l’arte e la letteratura «non indispensabili per la creazione di un nuovo mondo». Certo, per Marx – ma direi per gran parte della migliore arte del Novecento (e per le persone sagge) – la letteratura non cambia il mondo; al limite cambia se stessa e il proprio interlocutore. Ma una funzione “accrescitiva” – di conoscenza particolare, direbbe il Della Volpe citato da Bortolotti – gliela concedeva. Cioè, per farla breve, gli concedeva il giusto spazio che dovrebbe avere; a meno che non si creda che la letteratura sia più importante della povertà, dell’oppressione, etc..

    E in ogni caso, qui, si discute di responsabilità dell’autore nei confronti del contesto sociale e culturale in cui è inserito e non della sua responsabilità nei confronti della disposizione dei segni. E Marx, in merito a ciò, ha detto cose importanti. A me, francamente, mi frega di più della seconda, giacché dò per scontato che lo scrittore sia prima di tutto un cittadino e come tale non possa che interessarsi al contesto. Ma quale autore non lo fa? Esiste forse un autore, uno solo, che non abbia anche un’idea di mondo o che non faccia qualcosa al di là della pagina? Che, insomma, non si responsabilizzi? L’ultima domanda di questa inchiesta è chiaramente rivolta a un autore di “sinistra”. Ma non esistono solo gli autori di sinistra, e qualcuno potrebbe rispondere che Libero e Il Giornale non sono affatto xenofobi, razzisti, etc.. Solo che, per l’appunto, c’è una selezione a monte dell’interlocutore. Eppure, a me piacerebbe leggere le risposte di un Parente, di un Brullo, di un Zizzi, così come di un Wu Ming o di un Evangelisti e, soprattutto, anche di “autori” non di ambito letterario. Il quadro sarebbe più completo.

    ng

  81. Scusatemi, arrivo tardi e ho letto solo i primi commenti e mi pare che sulla musica si faccia un po’ di confusione: è un po’ superficiale pensare di capire la musica ascoltandola e che questo la renda diretta mentre il libro va letto, mentre temo che l’ascolto sia una parte ed è comunque mediato da chi la ha suonata, mentre sempre per accesso diretto è la vera lettura (suonandola o leggendola comunque con uno strumento qualunque). Tanto per capirci Schubert lo avvicini davvero solo se in qualche modo sai leggere la musica o sai decifrarla e credo valkga per ogni altra cosa anche quando non è scritta, ma il disco o l’ascolto è uno dei procedimenti, altrimenti è come dire che tu Goldoni o Shakespeare li conosci perfettamente basandoti solo sulle messe in secna delle loro opere, e qui il secondo appunto: credo che realizzare un libro costi meno che realizzare una qualunque cosa di musica (se ti servono dodici musicisti costano tanto e si spera siano almeno decenti).

  82. non dirmi così, @ Lucia, io amo profondamente Schubert, lo ascolto moltissimo, ma purtroppo la musica non la so leggere, pensare a tutto quello che mi perdo mi addolora, ma veramente

  83. …scusa Alcor, non volevo dire in questo senso, semplicemente quando poi se ne deve parlare in forma simil-critica credo che sapere che delle volte si sa fino a un certo punto sarebbe utile. E Schubert è proprio da amre profondamente

  84. lo dici perché sei di animo gentile, ma so che hai ragione a dire che si avvicina davvero un musicista solo conoscendo davvero la musica, le poche volte che sono stata accompagnata all’ascolto da chi le competenze le ha per davvero ho sempre ascoltato poi diversamente

    non capisco perché i lettori di parole non si rendano conto che la scrittura non si sottrae a questa regola e rinuncino a provare un piacere e una comprensione più profonda

  85. Io credo che non si possa affrontare certi temi senza tener conto di Zygmunt Bauman. Che ci solletichi o meno.
    ________________________________________________________

    In ogni caso, mi pare che oggi siamo noi la merce e la differenza fra il nostro potere d’acquisto ed il nostro valore contrattuale il suo plusvalore.

  86. @ lucia cossu

    Non saprei. Ci pensero’… Cosi’ a caldo, credo che si possa scrivere della buona musica senza conoscere una nota. Non sarebbe un fatto nuovo. Cosi’ come credo che si possa avere un buon orecchio senza saper leggere la musica.

    Se ti riferivi comunque a qualche mio commento, io intendevo semplicemente dire che l’ascolto della musica e’ spesso condiviso con gli altri. La lettura no. Ma probabilmente ho scritto l’ennesima sciocchezza. E ci sta.

  87. AMA, i nomi che fai, a partire da Fukuyama, mi sono neutri, ho altra formazione. Non credo che il pop sia una chiave di lettura/valore pari alla competenza di comunita’ strette di vario tipo. Il pop e la cupa sensazione di dis-valore associata ai consumi di massa mi sembrano fenomenologie dei tempi correnti, divenute mainstream perche’ oppiacee come religioni e proficue come il cioccolato, piu’ che teleologie ultime.

  88. @ GiusCo

    Resta il fatto che queste tue comunita’ strette di vario tipo vivano in questo nostro basso impero, o no?

    Io poi credo fermamente che l’oppio abbia una funzione terapeutica. Anche se oggi magari ci facciamo di codeina ed analgesici vari. Non sono poi contro l’uso di psicofarmaci.

    Certe letturine pero’, che ci piacciano o meno, bisognerebbe averle fatte. Godiamo dell’ultimo libretto Einaudi e snobbiamo Fukuyama. Ma perche’? Boh!

  89. @ AMA intendevo dire che nella musica come nella lettura conta l’accesso diretto, poi si può non sapere il nostro sistema di notazione ed essere ottimi musicisti perché si son sviluppate le stesse capacità complesse in altro modo (ma se devi parlare di Bach temo sia difficle non dire scemenze senza conoscere la musica) ma comunque vale l’accesso diretto e sempre pensi all’ascolto, che è in genere diretto a un pubblico: ti sentiresti di affermare che uno si può formare in letteratura solo andando a teatro o ascoltando i libri letti? Tendenzialmente concorderai con me che è un modo parziale e in genere fonte di deformazioni abbastanza irrinunciabili.

  90. Caro AMA, agli effetti pratici le “comunita’ strette” non vivono nel tardo impero, ma chiuse nel loro castelletto/fortalizio (accademico, bancario, laboratoriale o anche solo internettico). Le masse, da quelle prospettive testimoniate anche da Alcor coi “vecchi-ombra” di cui si tiene conto, sono appunto masse indistinte che poco o nulla scalfiscono il lavoro. Le mescolanze, ancora citando Alcor, sono interessanti ma rare e tutto sommato poco proficue: dal punto di vista del fortalizio, la massa nulla aggiunge e anzi svaluta; dal punto di vista delle masse, il fortalizio e’ un luogo di privilegio o, ben che vada, di astrusita’. L’apertura empatica alle masse, da cui anche il pop, e’ una fenomenologia del mercato (e qui torniamo a Bortolotti-Reister).

  91. @ GiusCo

    Bisognerebbe indagare per bene, e capire cosa c’e’ in questi castelletti di basso impero. Di sicuro tanto ciarpame pop. Non si scappa.

  92. @ lucia cossu

    Tendenzialmente sono d’accordo con te.
    Non pretenderai che io parli di Bach, spero! Adesso su dei voli low cost mettono della musica classica per farti rilassare prima della partenza, in attesa che tutti siano al loro posto ben allacciati. Bene, io non saprei dire con certezza chi ha scritto e quando quei brani. Pero’ da ragazzino andavo matto per Michael Nyman. Dici che sono irrecuperabile?

  93. @ lucia cossu e Ama e Alcor, naturalmente OT

    per capire Schubert, il saper leggere la musica di per sé non dà alcun vantaggio, è come conoscere l’esatta pronuncia di ogni parola di una lingua straniera senza saperne il significato. Ovviamente per provare a capire Schubert dal punto di vista tecnico allora è necessario saper leggere la musica. Ma, e qui penso a te Alcor, non so fino a che punto potrai amarlo più profondamente anche sapendo il perché e il percome di tal nota o accordo o intervallo. Questo è un dubbio forse insolubile. Magari non ti stai perdendo niente.

  94. @ paperinoramone
    ho solo e modestamente detto che per fare dei discorsi critici o similcritici si dovrebbero possedere gli strumenti dei quali si tratta, ovvero per esempio sapere se si ascolta le scelte del tale interprete o direttamente Schubert. Poi amare capire o non capire possono essere difficili comunque, ma quasi certamente si diranno anche scemenze e si sarà schiavi di deformazioni di ignoranza se non si ha un cervello musicalmente preparato ( e non parlo esclusivamente del saper solfeggiare una pagina di musica, dico di poter capire a livello musicalmente rilevante ciò che si ascolta o si dovrebbe ascoltare)

  95. @ paperinoramone
    … e poi ti verrebbe in mente di dire a qualcuno che solo dal punto di vista tecnico è importante saper leggere? Pensi che leggere sia solo sapere la esatta pronucia delle parole?

  96. @ Alcor
    ti capisco e capisco che non riesci a capire una sorta di superficialità che impoverisce. Per me già fare bene una cosa sola è tanto e abbastanza per una vita, e arriva facilmente l’equivoco di chi crede che saper leggere la musica sia solo un saper decifrare parole mentre non capisce come in realtà l’accesso diretto anche imperfetto svela e fa liberare il profondo specifico di quella opera, il senso complesso e il profumo di quel brano. E poi viva i buoni interpreti che ne svelano altri, e i dischi che ci fanno rimanere presente un Fischer o certe cose di Lilli Lehmann o Backhaus o Schneideran, Bruno Walter al pianoforte con la Flagstad o la Ferrier e altri insostituibili.

  97. …se qualche chitarrista scoprisse quanto non solo Bach, ma anche Girolamo Frescobladi con chitarra elettrica e distorti siano gustosi!; ma mi immagino anche Erstarrung dal Winterreise di Schubert per basso elettrico brutalizzato quel tanto da essere struggente senza sentimentalismi… smetto con gli OT

  98. @ lucia cossu e Alcor

    Magari il mio esempio era sbagliato, ma intendo dire che se Alcor sapesse leggere la musica, e comunque se volesse in pochi mesi sarebbe in grado di farlo, ciò non la aiuterebbe minimamente a comprendere Schubert e ad apprezzarlo di più. Cioè tutto l’approccio analitico, basato sui testi, gli spartiti, che tu Lucia, giustamente tiravi in ballo per poter parlare di musica come di solito si parla di letteratura, ha senso da un punto di vista tecnico.

  99. @paperino

    racconto spesso delle lezioni di De Grada su Beethoven che ho seguito alla Statale tanti anni fa, dopo quelle lezioni il mio ascolto di B. è cambiato, se prima sentivo alcune cose, poi ne ho sentite molte altre, come i diversi tipi di frutta in una macedonia, immagino che De Grada la sapesse leggere, ma immagino anche che non si fosse fermato alla lettura del pentagramma, per leggere la musica (e ti do ragione) intendevo un ascolto anche tecnicamente consapevole, io la musica un po’ in effetti ho imparato a leggerla, ma non mi diceva niente, sapere che quella pallina su quel rigo è un do, non serve a niente, mentre avevo un amico che leggeva lo spartito e la sentiva, beh, quello mi sarebbe piaciuto farlo

  100. @ Alcor, ho capito il tuo rammarico, quando ho parlato di lettura della musica, e mi scuso con lucia cossu se le sono apparso antipatico, era perché in qualche modo volevo consolarti, anche se non siamo per nulla in confidenza.

  101. @paperinomane
    ..probabilmente non mi accorgo di parlare in gergo quando parlo, ma io per leggere la musica e accesso diretto intendo tutte quelle capacità complesse che fanno sì che uno sente e immagina ciò che normalmente e senza aver imparato la musica nella sua interezza non si percepiscono, non la mera comprensione di che note siano sul pentagramma, intendo che ti danno uno spartito o una partitura e dopo un certo tempo sei in grado di sentire i cambi di tempo necessari, la fluidità e la necessità di intervalli non del tutto temperati, le ombreggiature o il carattrere invece roccioso o meno, sentire insomma quel pèezzo o pagina o anche pezzzo rock come un organismo che ti parla, e non si impara in pochi mesi di applicazione sul pentagramma, è il cervello che si forma e riforma l’orecchio. E non c’è nulla di analitico in questo, al contrario.

  102. aiuto, divento la fustigatrice di incapacità o quella che dice agli altri che non possono capire come chi non ha accesso diretto (e che spero vivamente non essere), mentre di fondo parlavo solo di chi parla di musica con tono critico o simil critico, non di chi la ama e la apprezza e certamente un suo modo complesso di ascoltarla ha trovato.

  103. @ paperinomane
    il nostro sistema musicale decise a un certo punto di dividere la distanza tra le note in intervalli standard uguali chiamati semitoni (i tasti neri del pianoforte per semplificare molto) e rendere le varie tonalità molto simili tra loro e poter suonare in tutte le tonalità con lo stesso strumento (pianoforte e organo per esempio). Si hanno esempi in organi antichi di accordature mesotoniche (con intervalli invece ancora naturali nei gradi importanti della scala, quegli intervalli che ne danno il sapore) e direi indispensabili per gustare la musica di Girolamo Frescobaldi (a San Bernardino all’Aquila ce n’è uno famoso non so in che stato dopo il terremoto e restaurato qualche anno fa). Anche se questo tipo di accordatura è magnifico e lo è stato per lo sviluppo della musica, gli intervalli sono al pianoforte una media e son in realtà, piuttosto spesso, se suonati sulla intonazione precisa del pianoforte stonati per un cantante o un flauto o un violino. Infatti i buoni musicisti riadattano sempre al sistema tonale nel quale si trovano secondo gli intervalli che secondo il loro orecchio e la loro espèerienza son davvero giusti, e parliamo di cose forse impercettibili in senso analitico per orecchi non addestrati, ma percepibili anche per loro nel senso che in un caso sembra giustissimo e appropriato e invece se non stonato in genere banale e ininteressante l’altro, direi insipido. Quando insegno ai miei allievi tendo sempre a far sentire e rendere necessaria la giusta intonazione e il senso per la non immutabilità di essa, cioè un do è fatto di tantissimi do e si deve anche da dilettanti sensibili alle loro differenti esistenzee il gusto del poi scegliere o lasciare che lòa musica li scelga per te. Il prendere piede degli strumenti elettronici nelle case e nei conservatori rende ancora più piatto il senso dell’orecchio perché è un suono ancora più standard e povero della parte sporca e “naturale” del suono stesso che nel tempo aiutava e aiuta anche un non avvertito a fargli sentire quelle differenze e necessità di selezione di suono, per me vitali. Spero di non essere stata troppo incomprensibile, semmai dimmi e cerco di spiegarmi meglio.

  104. @paperinoramone
    per intervalli non del tutto temperati intendevo prorpio scegliere e usare dei suoni non sempre coincidenti perfettamente con gli stessi su una tastiera o un pianoforte, e non perfettamente collimanti col nostro sistema di accordatura, anche chiamata temperata

  105. non ho capito la parte “i buoni musicisti riadattano sempre al sistema tonale nel quale si trovano secondo gli intervalli che secondo il loro orecchio e la loro esperienza son davvero giusti”.
    semmai ci sono esempi musicali da ascoltare in merito?
    ma cosa insegni?

  106. @ paperinoramone
    ero una solista di musica classica (opera, lieder, musica da camera,musica sacra e alcune cose contemporanee) e avendo dovuto smettere di cantare insegno canto classico e fino a un certo livello moderno e jazz. Cerco degli esempi, ma la cosa è abbastanza impercettibile dal punto di vista perfettamente uditivo e non so se in registrato. Conosci lo Stabat mater di Pergolesi e sai leggere un po’ di musica?

  107. leggere so leggere, l’orecchio è in formazione, lenta, ma si fa quel che si può.

  108. @ lucia cossu

    lo stabat mater di Pergolesi ( che non conosco ), l’ho trovato su youtube
    ci sono anche le partiture.

  109. @ paperinoramone
    http://www.youtube.com/watch?v=Nhvyo8Bi_T4

    l’attacco sulla parola vidit al 0′ 40” il “vi” è un do ed è lo stesso do al 1’29” sempre sulla stessa sillaba “vi” di vidit …noterai che sono uguali (ignorando che il secondo è un po’ più forte del primo e più stentoreo e accentato) e il secondo porta a una frase che sembra anche proprio stonata. E’ una scelta del direttore credo avere il primo poco brillante, dato che già dall’inizio il suono dell’orchestra è quello, con pochi armonici acuti e un suono un po’ piatto e senza far notare che son le due volte tonalità diverse e per me è forse una scelta l’inizio ma nel secondo mi sarei aspettata qualche cosa di ancora differente, altrimenti è uguale e senza scopo il cambio di tonalità.
    Eccone un altro diverso ma assolutamente simile anche se la voce è meno schiacciata di impostazione e risulta tutta più brillante e di nuovo sono uguali e nulla cambia tra il primo e il secondo http://www.youtube.com/watch?v=oOk79FxGImM (al 0′ 44”e 1’46”)

    non riesco a trovarne uno che mi soddisfi e ti completo dopo…

  110. @ lucia cossu

    ma, è un’allucinazione mia oppure la cantante esegue mezzo-tono sotto?

  111. io ho provato a suonarlo con la tastiera, seguendo il canto. Il do dello spartito, quello della sillaba “vi” , sulla tastiera mi sembra un si.

  112. @paperinoramone
    il senso per quel do della sillaba vi è che dal primo alla battuta 8 si va su un fa e per me il fa deve essere già contenuto nel fa, cosa non per foza vera per il secondo do sulla sillaba vi della battuta e che per me riesce meglio se davvero si sente l’intervallo e il sapore più cupo e denso e questo permette di non forzarlo con accenti che già ci saranno dopo naturalmente con i salti più ampi e con gli acuti. Alla battuta 26/27 (levare di 26 e battere di 27) vedrai che c’è il mi bequadro. Se lo canti con il vero semitono temperato risulterà stonato, mentre lo dovrai stringere un po’, ovvero farlo più vicino alla nota superiore, il fa. E’ questione di pochissimo, magari un comma o due ma è determinante.

  113. beh, grazie, sei molto gentile e disponibile. No, non mi sembrano uguali, spero per me che non sia solo perché me lo hai fatto notare tu.
    Ti saluto,
    Stefano

  114. * uffa i refusi
    “nel fa, cosa non per foza vera per il secondo do sulla sillaba vi della battuta..” va corretto con
    nel do (lo si fa con un suono in cui gli armonici li rendono stretti parenti e il do risulta non proprio più alto ma più sospeso e si sente meno la nota vera ma una sorta di brivido dato da una posizione vocale che i cantanti bravi conoscono bene e gli fa sembrare sia l’ambiente circostante a suonare non loro), …della battuta 21

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