NEW ITALIAN EPIC, un altro manifesto
di Carlo Tirinanzi
Nell’introduzione a New Italian Epic (Enaudi 2009) Wu Ming 1 nota che il «memorandum» sul NIE è stato scaricato oltre trentamila volte in pochi mesi. Un dato impressionante, come l’autore nota giustamente. E c’è da rallegrarsene: si scrive per essere letti e trentamila download vogliono dire che almeno ventimila persone (togliendo quel terzo di curiosi che scaricano e poi si dimenticano) hanno letto il memorandum. L’uso della rete, la particolare ricettività del pubblico di Wu Ming a questo strumento, il passaparola, hanno dato a Wu Ming 1 un vantaggio spesso fondamentale: egli ha potuto scegliere le posizioni, il che nel mondo letterario vuol dire nominare le cose — fissare una griglia attraverso cui leggere e conoscere il mondo (almeno una porzione di mondo). Questo è proprio quello che fa la teoria letteraria. In realtà però lo fa anche, nel suo piccolo, il libretto d’istruzioni della lavapiatti. Il «memorandum» però (cosa che non compete al libretto d’istruzioni della lavapiatti) fornisce coordinate per leggere un frammento di storia letteraria patria, stabilisce una serie di categorie esattamente come fa un testo di teoria letteraria. Si tratta allora per davvero di un testo di teoria letteraria, come dice l’autore?
La teoria letteraria è un esercizio, innanzitutto, di memoria. È un confronto con il passato, prima che uno sguardo sul presente. Di memoria nel «memorandum» ce n’è poca: Walter Benjamin ha l’onore di una breve citazione, ma più per quanto riguarda l’allegoria che per quanto riguarda il concetto di costellazione: che, con pochissime modifiche, torna nel testo di Wu Ming 1 sotto forma di «nebulosa». Mentre del formalismo russo non c’è traccia: eppure lo «sguardo obliquo» che tanto ha colpito l’autore assomiglia in maniera incredibile allo straniamento, termine che per altro compare qua e là nel testo, ma che per è uno degli aspetti fondamentali della «letterarietà», ovvero della proprietà fondante di ogni testo letterario. Questi sono solo due esempi, i più vistosi, di «dimenticanze» critiche che attraversano il testo. Per essere un testo di teoria, inoltre, il libro è incredibilmente scarso di rimandi ad altri pensatori, dà per scontate alcune categorie («romanzo», «narrativa»), mentre per altre si limita a una definizione a negativo («Unidentified Narrative Objects») che però forse crea più problemi di quanti non risolva.
Tutto ciò, prevedo, mi esporrà a rappresaglie durissime. Vorrei, tuttavia, solo sottolineare come tutta una serie di aspetti del «memorandum» non rispondono bene a una definizione di genere, «teoria letteraria», che si basa sui punti sopra espressi e su alcuni altri, altrettanto fondamentali. Un respiro ampio e una certa distanza critica tra fatto letterario e sua registrazione. I due punti possono non essere compresenti, ma uno dei due deve esserci — altrimenti possiamo, al più, parlare di “critica letteraria”. Ma anche questa definizione non sembra del tutto attinente. Allora questo «memorandum» è a sua volta indefinibile, un «oggetto critico non identificato»?
Mi sembra piuttosto che il testo sul New Italian Epic abbia la forma di una classica entità del XX secolo, il manifesto d’avanguardia. Il «memorandum» tocca dei punti nevralgici del nostro mondo, non del mondo di venti e nemmeno di dieci anni fa. Storia, narrativa, pop, stile, «transmedialità». C’è tutto l’oggi. Non lo ieri: l’oggi. Wu Ming 1 guarda al passato per parlare del presente, certo non per sistematizzare un’operazione già conclusa. Il dibattito sul NIE è un dibattito sul potere della letteratura di informare il mondo di oggi, di spiegarlo. E il «memorandum» offre, più che una semplice chiave di lettura, una serie di strumenti per farlo. Stabilisce canoni, metodi «vincenti»; teorizza una tipologia particolare di allegoria. Un’urgenza che non è descrittiva, ma direi prescrittiva. Come un manifesto codifica una serie di elementi formali e contenutistici propri del movimento. Come ogni manifesto sanziona l’esistenza di un gruppo di artisti che si muovono intorno a un progetto simile. L’unica vera differenza è che mentre un manifesto si pone come atto d’inizio di un’avanguardia Wu Ming 1 ne crea uno a posteriori. Questo dato è forse l’aspetto più interessante di tutto il progetto-NIE, quello che lo caratterizza maggiormente e che ci dice più cose su di esso. Perché tutto un dibattito intorno all’Italian Epic nasce proprio dalla labilità del confine che lo caratterizza. Le opere sono state incluse nel canone neoepico all’insaputa dei loro autori che poi magari (penso per esempio a Gianfranco Manfredi) se ne sono tirati fuori. C’è bisogno di fare massa: e le metafore sulla massa (campi di forze, nebulose) abbondano. È una necessità tipica dell’avanguardia, mentre la critica e la teoria si possono tranquillamente accontentare di tirar fuori tre o quattro autori da sette secoli di letteratura (penso alla linea Dante-Montale, per fare un esempio noto ai più). E altrettanto tipica è la necessità di essere nuovo: ecco perché nel «memorandum» lo sguardo dell’autore si posa su fenomeni stranoti e strastudiati come se li vedesse per la prima volta. Il che, peraltro, è il regno (guardacaso) dell’epica, laddove il romanzo sin dai tempi di Don Chisciotte si confronta sempre con il già detto, con il già accaduto. A essere epico è il memorandum stesso, come tutti i manifesti che fondano un mondo, uno spazio di pensiero.
Resta solo da vedere se, come avanguardia, questa avrà più o meno fortuna delle precedenti.
tirem innanz…
Anche in questa discussione sul NIE si tira in ballo l’avanguardia e l’uso parziale della memoria.
In realtà, l’esercizio della memoria nel NIE è anche praticato nell’indicazione di una sorta di linea genealogica (“La tradizione”, pag 15), dove si “rende omaggio” a una serie di romanzi a carattere essenzialmente storico. Ho sempre pensato che l’elenco proposto da WM 1, pur nella sua parzialità, sveli il tipo di estetica propugnata nel NIE. Significativo che si citi “Il gattopardo” e non il contemporaneo “Pasticciaccio” di Gadda.
A furia di leggere e seguire discussioni sul NIE, e per divertirmi un po’, la mia mente perversa ha composto questa farsa: Qui si vende storia.
ng
Trovo questo articolo un po’ troppo contorto. Mi sembra che, per sostenere una tesi, quella per cui il Memorandum NIE debba essere rubricato alla voce “manifesti letterari”, piuttosto che alla voce “saggio critico-teorico”, si tenti di far stare insieme posizioni contrastanti fra loro.
Procedo con ordine. Si imputa al testo di Wu Ming 1 una “mancanza di memoria”, che si risolverebbe, nei fatti, nella scarsità di riferimenti puntuali a testi e teorizzazioni precedenti, capci di sostanziarne la proposta. Non capisco cosa intenda Trinanazi con questa precisazione: forse intende dire che Wu Ming 1 avrebbe dovuto ampliare la quantità di note a piè di pagina, esplicitando ogni riferimento teorico? Oppure avrebbe dovuto realizzare un collage di citazioni altrui? E, al di là di questo, se la teoria letteraria deve essere un esercizio di memoria, allora Trinanzi si dimentica di fare riferimento a chi sostiene questa tesi, incorrendo nel medesimo errore che denuncia.
Anche sullo “sguardo obliquo” il discorso si dimostra sfuocato. Secondo l’autore, questo (lo “sguardo obliquo”) non sarebbe altro che una variante, o una ripresa, del concetto di “straniamento” eleaborato nell’ambito del formalismo russo. Con “straniamento” si intende una sorta di sospensione della vicenda narrata, che genera nello spettatore la presa di coscienza della realtà dei rapporti economici e sociali, sottesi alla vicenda (o almeno nella declinazione che del concetto danno Brecht e Godard). Lo “sguardo obliquo”, invece, deve molto di più all’idea di “soggettiva indiretta libera”, elaborata da Pasolini a proposito del cinema. Più che una sospensione, lo “sguardo obliquo” induce un’alterazione del punto di vista, una trasformazione, un vero e proprio “farsi altro dello sguardo”, per moltiplicazione degli Io narranti (Saviano) o per visioni inorganiche (il televisore McGuffin, lo sguardo in “plongee” di GMR).
Insomma, mi sembra che, oltre a non centrare con chiarezza l’obiettivo, Tirinanzi fatichi a riconsocere l’impianto teorico messo in campo da Wu Ming 1, che, essendo appunto orientato verso la transmedialità (termine, ahimè, più citato che compreso), si compone di riferimenti eterogenei e spesso appartenenti a discipline diverse.
Lo “ieri” c’è, solo che non è indicato esplicitamente. Tutto qui, con buona pace di Tirinanzi.
Vengo ora all’ultima parte dell’intervento, che mi sembra la più inconsistente. Si sostiene che il memorandum NIE sia, a causa della sua mancanza di memoria, un “manifesto” piuttosto che un “saggio critico-teorico”. L’intervento si fa qui, a mio avviso, schizofrenico, infatti, pur essendo un manifesto, secondo Tirinanzi, il memorandum sarebbe un manifesto atipico, anzi le sue caratteristiche sarebbero del tutto contrarie a quelle tipiche del genere “manifesto”. Non apre un movimento, bensì interviene a posteriori su di un fenomeno del quale si vogliono tracciare le coordinate. Non nasce da un consesso di personalità e da esperienze creative condivise, bensì opera per attrazione, aggregando autori che poi hanno rifiutato l’assimilazione (si cita l’esempio di Manfredi). Su questo punto Tirinanzi dimostra o di non aver letto il memorandum, o di piegarlo alle sue esigenze, per effettuare un salto mortale analitico senza rete. Wu Ming 1, infatti, specifica che ad essere NIE sono le opere, e non gli autori, i testi e non chi li scrive. Il movimento, il gruppo, componente costituitiva di ogni manifesto (dal Futurismo al Dogma di Von Trier), non esiste, e non esistendo non è possibile che dia vita ad un manifesto. Infatti, Wu Ming 1 specifica che gli autori di alcune opere NIE hanno lavorato ad opere che non lo sono affatto.
Anche nel tirare in ballo il concetto di “avanguardia” l’autore dimostra di aver scarsamente compreso l’operazione fatta dal memorandum. L’avanguardia si pone sempre più avanti rispetto al pubblico “di massa”, è il suo scopo e la sua aspirazione, costruire, progettare un futuro, necessariamente diverso da quello prospettato nel presente. Wu Ming 1, invece, rivendica l’attitudine popular dei lavori che fanno parte della nebulosa, in netto contrasto con l’attitudine elitaria di ogni avanguardia.
Concludendo, se lo scopo della teoria e della critica tout court è quello di creare strumenti analitici in grado di farci comprendere il presente, allora, è lo stesso Tirinanzi, contraddicendo se stesso, a confermare il valore teorico del testo di Wu Ming 1. E, se un manifesto sigla l’atto pubblico di nascita di un movimento composto da personalità artistiche, allora il testo analizzato non può essere un manifesto.
Resta da capire il senso dell’operazione di Tirinanzi, che si dimostra imprecisa e contorta. Personalmente mi sembra che piuttosto che voler evitare le “rappresaglie durissime”, Tirinanzi ne vada proprio alla ricerca, probabilmente per farsi pubblicità, visto che, volenti o nolenti, quello sul NIE è uno dei dibattiti più vive nel panorama letterario italiano. Insomma, come Mourinho, Tirinanzi prevede che gli avversari finiranno la stagione con “sseru tituli”, e così facendo attira su di se strali e rappresaglie, il perché mi resta ancora oscuro.
“Con “straniamento” si intende una sorta di sospensione della vicenda narrata, che genera nello spettatore la presa di coscienza della realtà dei rapporti economici e sociali, sottesi alla vicenda (o almeno nella declinazione che del concetto danno Brecht e Godard).”
Calma Pintarelli. Un po’ di memoria (appunto). Lo straniamento di cui parla Tirinanzi è l’ostraneinie di Sklovskij ed ha un significato un po’ diverso da quello teorizzato da Brecht (dopo) in sede teatrale e da Godard (dopo ancora), in sede cinematografica.
Non ho per ora letto NIE, ma questo intervento mi invita a farlo. Se si tratta di teoria letteraria, non arriverò certo in ritardo. Se è un manifesto (postumo), allora davvero sarà una lettura tardiva.
@andrea inglese: bene, il fatto è che non era specificato nel testo. Né in nota né altrove. Potresti spiegarmi cosa si intende con straniamento in Sklovskij? Si tratta di un autore che non conosco.
“Mentre del formalismo russo non c’è traccia: eppure lo «sguardo obliquo» che tanto ha colpito l’autore assomiglia in maniera incredibile allo straniamento,” ecc.
Ovunque, anche sul web, trovarai riferimenti allo straniamento considerato dai formalisti russi come categoria fondamentale della letterarietà, ossia di ciò che distingue il discorso letterario dal discorso non letterario.
Detto con parole mie: il procedimento che permette alla scrittura letteraria di farti vedere ciò che avendo sotto gli occhi tutti i giorni non riusciamo più a vedere.
sulla questione dello straniamento (o distanziamento?), belle pagine in G. Didi-Huberman, “Quand les images prennent position. L’oeil de l’histoire I”, Minuit, 2009 … dove si tratta dell’Abc della guerra e dei diari di lavoro (Brecht), del V-effekt (Verfremdung) e del concetto di montaggio (non credo che sia già stato tradotto in Italia… se sì, mi scuso)
faute de mieux, questa pagina di Blanchot (L’infinito intrattenimento):
«Secondo Brecht, l’immagine che realizza l’effetto di straniamento è quella che, pur permettendoci di riconoscere l’oggetto, lo fa apparire strano e estraneo. Dunque questo effetto cerca di sottrarre la cosa rappresentata all’adesione istintiva in cui si annullano comprensione e senso. (…) Uno spazio estraneo capace di rendere estranee e lontane le cose che vi si compiono, in modo che rispetto a queste cose, per quanto famigliari e consacrate ci possano apparire, sia sempre possibile mantenere le distanze, considerarle non più naturali, ma per lo meno insolite e ingiustificate. (…) Con l’effetto di straniamento Brecht intende appunto produrre e mantenere questa distanza, questa divaricazione».
@ andrea:
“Detto con parole mie: il procedimento che permette alla scrittura letteraria di farti vedere ciò che avendo sotto gli occhi tutti i giorni non riusciamo più a vedere.”
Non mi pare poi una declinazione così distante da quella che avevo adoperato. Lo straniamento, attraverso la sospensione della vicenda, ne mette in luce la realtà dei rapporti che la caratterizzano. Esattamente quella realtà che, pur avendo sotto gli occhi, non riusciamo più a scorgere.
Lo “sguardo obliquo”, per come è descritto nel memorandum, resta, in buona parte, qualcosa di molto diverso dallo “straniamento”. Meno legato ad un disvlemento di una qualsivoglia realtà, che si darebbe celata, quanto la possibilità di sperimentare punti di vista “altri”, capaci di trasformare e scuotere la percezione. Sono due concetti abbastanza vicini da poter essere scambiati l’uno per l’altro, ma restano profondamente differenti nelle loro manifestazioni.
Salve a tutti,
volevo come prima cosa ringraziare tutti per i commenti. Si tratta di una riflessione ancora in fieri e i confronti fanno sempre bene. Dunque grazie ng per i molti spunti di approfondimento (non sapevo del libro di Huberman) e per i link.
Sono particolarmente contento di avere suscitato l’interesse di Andrea Inglese, che conosco solo attraverso i suoi lavori ma che sento a me molto vicino.
Passo ora a rispondere alle critiche di Flavio. Peccherò un po’ di sistematicità, prego i lettori di scusarmi.
1) “sguardo obliquo” e “straniamento”
Il punto è stato c’entrato già da Andrea Inglese, quindi evito di ripetere cosa intendevo con straniamento. Lo “sguardo obliquo” del memorandum, dice Flavio, “, resta, in buona parte, qualcosa di molto diverso dallo “straniamento”. Meno legato ad un disvelamento di una qualsivoglia realtà, che si darebbe celata, quanto la possibilità di sperimentare punti di vista “altri”, capaci di trasformare e scuotere la percezione.” Proprio questo è il risultato dello straniamento sklovskjiano. Attraverso il procedimento straniante la letteratura riesce a sciogliere gli automatismi percettivi. Se vogliamo assimilare a questo anche lo straniamento brechtiano facciamo pure; non so cosa ci possa lasciare una simile operazione né quanto sia utile a comprendere quello che Wu Ming 1 voleva dire.
2) Genere, memoria
Innanzitutto io non ho mai parlato (e non lo fa nemmeno Wu Ming) di “saggio critico-teorico”; io ho parlato di “teoria letteraria”. Che a sua volta è qualcosa di un po’ diverso dalla “critica letteraria”, ma non è questo il luogo, né il momento, adatto a una simile discussione.
Mi sono limitato a notare che in linea di principio i riferimenti ai pensatori del passato non sono resi espliciti – e la discussione sullo sguardo obliquo-straniamento ci dice quanto sarebbe meglio dire le cose chiaramente. Non a caso, Flavio, non ti sei soffermato sull’altro esempio, perché forse il prestito è in quel caso ancora più esplicito.
Non credo che il concetto di “transmedialità” sia così complesso da capire; a maggior ragione, però, se ci si situa al confine tra più discorsi, è un segno di rispetto per il lettore permettergli di capire da dove certe idee arrivano, come sono state modificate eccetera. Ben vengano i “riferimenti eterogenei” a patto che i “riferimenti” ci siano e io possa andare a trovarmeli.
E non si tratta solo di riferimenti puntuali, ma di mettere in gioco sistemi di pensiero che, se non vengono nominati, non possono entrare in gioco perché restano confinati nella rete di concetti che chi scrive ha in mente.
Ma mi sto dilungando. Volevo solo enucleare alcuni aspetti portanti di un genere, la teoria letteraria, che viene spesso, quello sì, “più nominato che compreso,” rispetto al quale NIE si situa altrove. Altri punti che avevo messo in luce, brevemente per motivi di spazio, sono la distanza e l’ampio respiro, due elementi programmaticamente assenti nel saggio sul NIE. Infine avevo notato come ci siano alcune definizioni intrinsecamente traballanti (come sempre sono quelle a negativo) che non so quanto potrebbero starci in un’opera di teoria.
Il punto che ho portato avanti nel mio breve scritto (perché è quello più icastico e in uno scritto breve non ci può star tutto) è che in sede critica i riferimenti non sono un vezzo, né (soltanto) un modo per “pagare i debiti”. Sono parte integrante del discorso, porte che si aprono sulla comunità che è venuta prima di noi e che con noi cammina. In un’opera che si definisce di teoria letteraria l’assenza di maestri è un dato atipico, una situazione marcatissima. Che qualcosa vorrà pur dire, come tutte le situazioni marcate. Sono totalmente d’accordo con quanto dice Flavio: “lo “ieri” c’è, solo che non è indicato esplicitamente.” La domanda che io facevo, infatti, non era “c’è lo ieri? Se si, allora bravi, se no allora tutti in punizione,” bensì: “dato che lo “ieri” c’è (e non potrebbe essere altrimenti) perché si scrive come se non ci fosse?”
3) Avanguardia, manifesto
La risposta che ho trovato, assommando frammenti di pensiero, è che il genere a cui implicitamente NIE si rifà è quello del manifesto delle avanguardie. Dunque scindere i due aspetti (“manifesto” da un lato e “avanguardia” dall’altro) non è un’operazione pertinente se si vuole rispondere alle mie osservazioni. Detto questo rispondo comunque ai due punti.
Secondo me no, NIE non ha caratteristiche “del tutto contrarie” a quelle dei manifesti. Mi è sembrato di avere enucleato diversi punti tipici dei manifesti (mi riferivo principalmente alle “avanguardie storiche”, ma possiamo riscontrare punti in comune anche oltre, almeno fino agli anni Sessanta) e non sto ora qui a ripeterli.
Non capisco dove sia il problema: “il movimento, il gruppo”, che scrive il manifesto, dice Flavio, non c’è. Ma ci sono le opere: c’è il canone. E un manifesto non è per necessità una scrittura collettiva.
Inoltre non è che un futurista, per essere tale, deve firmare col sangue un contratto con Marinetti, né è vincolato a produrre soltanto opere ispirate al futurismo. Può benissimo avere scritto un paio di opere futuriste e poi essere passato oltre.
Invece sull’idea di un’avanguardia che si pone in contrasto con la cultura di massa, e dunque è elitaria, non sono troppo d’accordo. Inoltre mi sembra un tantinello pretestuoso liquidare il centro del mio intervento con tre righe relative al fatto che NIE ha un’attitudine pop che l’avanguardia non ha (aspetto che, peraltro, potrebbe essere discusso e confutato)
Anche concentrarsi sul fatto che le avanguardie avevano “personalità artistiche” e il NIE invece semplici “opere” mi sembra un po’ un girare attorno a quello che dicevo.
In verità l’unico punto in cui mi sembra che NIE si distingua veramente dall’avanguardia, ed è questo il punto centrale che mi sembrava interessante, è che compone il suo manifesto a posteriori.
Nelle sue conclusioni Flavio parte da premesse che non sono le mie e mi becca in contraddizione. E ci credo! Se mi fai dire che “lo scopo della teoria e della critica tout court è quello di creare strumenti analitici in grado di farci comprendere il presente”, certo che mi trovi in contraddizione! Ma la teoria letteraria (la critica, l’ho già detto, è un’altra cosa e infatti nemmeno l’ho citata), appunto NON HA come primo obiettivo l’indagine del presente. Semmai tutto l’opposto.
Allo stesso modo, NO, il fatto che un manifesto debba essere stilato da più “personalità artistiche” non lo darei come precondizione per definire un testo come manifesto.
4)
Un’ultima osservazione. Il confronto è sempre molto gradito (è il motivo per cui si scrive in luoghi come NI) ma sarebbe meglio che rimanesse su piani più equilibrati. Perché un confronto sia tale si deve sempre supporre la buona fede dell’interlocutore. Dunque, Flavio, puoi risparmiarti di insinuare che io non abbia letto il «memorandum» o che io scriva perché voglio farmi pubblicità (per cosa, poi, nemmeno si capisce) invece che per portare un punto di vista in un dibattito. E a maggior ragione puoi risparmiartelo dato che ci conosciamo, seppure in maniera superficiale, da un po’ di anni. Proprio perché il dibattito sul NIE è vivo (anche se sta un po’ scemando) volevo inserirmi in un discorso con un mio punto di vista che magari non è condivisibile ma che vorrei fosse letto come è stato scritto, senza malafede.
Un caro saluto a tutti.
Carlo Tirinanzi
i love k
penso che il tempo – neanche molto- darà ragione a chi, come me, ritiene che questa sia solo paccottiglia culturale travestita da altro. il tempo, bravo lui, non perdona. un po’ come bud spencer contrapposto a dio.
dio perdona io no è un cult.
caro franz, condivido, e come avrebbe cantato quella matassa di capelli che fringuella spesso di deismo: tutto il resto è vanità
Carlo,
abbiamo già avuto modo di discutere le nostre diverse posizioni rispetto al fenomeno NIE. Qui ti ribadisco alcune delle mie convinzioni.
A Wu Ming 1, ancor prima che riconoscere la patente di teorico della letteratura, bisogna dare adito di aver saputo rivitalizzare un dibattito che sembrava ormai limitato alle aule universitarie, facendo circolare in una comunità allargata temi e preoccupazioni verso cui i media generalisti non sembrano dimostrare grande interesse e attenzione. Ad oggi, infatti, il memorandum è stato scaricato 60.000 volte (senza contare chi ha acquistato il volume cartaceo).
Da questo punto di vista la forza del memorandum si traduce soprattutto nell’avere imposto, dal momento della sua pubblicazione in poi, il frame di discussione letteraria prevalente oggi: tutti gli articoli o le analisi riguardanti la letteratura degli ultimi quindici anni, pubblicati dal giugno 2008 in poi, non hanno più potuto prescindere dal prendere posizione nei confronti del fenomeno chiamato “New Italian Epic”. Cogliere le tracce di questa mutazione paradigmatica, equivale ad accorgersi che i momenti concreti e specifici della produzione, della circolazione e ricezione della letteratura, che questo ci piaccia o meno, non si raccolgono più in un luogo deputato (la casa editoriale, la rivista letteraria, l’università), ma si spargono attraverso i più disparati canali mediatici.
Questo non significa che si debba dar credito a qualsiasi cosa si legga su Internet, e neppure che Wu Ming 1 abbia vinto il conflitto delle interpretazioni – che si gioca in tempi assai più lunghi e niente ha a che fare con una vittoria in stile calcistico -, ma che forse è venuto meno il tempo dello “scontro di posizioni” ed è arrivato quello del confronto e della “verifica testuale”. E’ infatti mia convinzione che solo grazie ad un lavoro interno alle opere, sui loro contenuti e sulle forme che sono chiamate a realizzarli, si possa individuare una serie di connessioni tra di esse.
Una cosa che Wu Ming 1 fa, ma solo ad un primo livello che lascia ancora troppe questioni scoperte o bisognose di approfondimento. Non si tratta dunque di schierarsi a favore o contro la sua proposta, ma di provare a restringerla, di riportarla a un campo d’osservazione maneggiabile dal critico attraverso gli strumenti a sua disposizione.
La verifica non può quindi che iniziare attraverso l’osservazione di alcuni “dettagli” a partire dai quali stabilire un territorio di esplicazione e inquadrarlo in un prospettiva che permetta di analizzare le opere per blocchi più compatti.
Rispetto all’esplicitare le proprie fonti: nel memorandum ci sono anche molto Deleuze e moltissimo Foucault. Il punto, mi pare, è che Wu Ming ha sempre professato una concezione “essoterica” o maieutica del discorso letterario, anche a costo di sacrificare certi riferimenti alla tradizione. E’ stato un lavoro progressivo a cui il collettivo di scrittori è giunto attraverso un lungo tirocinio. Nei testi di Luther Blissett, come ad esempio “Nemici dello stato”, l’apparato teorico è ben esplicitato, ma la loro lettura è assai difficile (e infatti non li ha letti quasi nessuno).
Personalmente la ritengo una scelta efficace, da cui anche “accademici” come te e me avrebbero molto da imparare. Insomma, io vorrei parlare ed essere compreso anche da chi non è un addetto ai lavori.
capito fernando? nel memorandu, ci sono molto deleuze e moltissimo foucault. attendiamo qualche chilo di lacan, che in una dispensa culturale è sempre utile.
e.c.: memorandum.
Caro Dimitri,
grazie per il tuo intervento che, come altri che abbiamo avuto in passato, è senza dubbio molto stimolante.
Credo che del mio piccolo scritto si tenda ad estrapolare alcuni punti senza prendere in considerazione il discorso di fondo. Mi riferisco alla questione delle fonti che era essenzialmente un esempio e non il nucleo delle mie osservazioni. Dunque rispondo, consapevole che si tratta di un aspetto tra i molti che ho toccato.
Tu definisci la volontà di non rendere esplicite le fonti una scelta “efficace.” Io non l’ho mai messo in discussione: non è Wu Ming il primo che pubblica saggi in assenza di riferimenti bibliografici anche vaghi e forse si tratta, per alcuni generi di scrittura non narrativa, del grado zero. Pure, se di teoria letteraria si parla, sarebbe forse il caso di rendere espliciti i riferimenti, perché altrimenti escludi d’imperio la verifica delle fonti usate. Che non è un optional, come certo tu ben sai, ma una delle fasi necessarie all’elaborazione critica.
Un comportamento simile non ha nulla di “essoterico” ma anzi il contrario: un discorso che non esplicita è un discorso necessariamente “per iniziati.”
In ogni caso, questo era solo un aspetto tra i molti che mi facevano dubitare che il «memorandum» appartenesse al genere “scritti di teoria letteraria.” Con questo non nego patenti a nessuno (non potrei farlo nemmeno se volessi, e tu sai che non è questo il mio scopo). Solo, cerco di inquadrare un testo in un panorama. E per gli scopi che ha NIE, forse è davvero più produttivo inserirlo nella tradizione dei manifesti più che in quella della teoria.
Sulla maieutica di Wu Ming 1 rimanderei ad altra sede, perché ci sto riflettendo ancora. Certo che il lavoro ha molti pregi, ma non lo vedrei, così a pelle, come fulgido esempio di scrittura dialettica, nel senso che appare un lavoro molto chiaro, molto definito, molto “sicuro di sè”: caratteristiche poco ascrivibili alla teoria letteraria che, con l’eccezione (forse) di Genette, è di solito più dubbiosa e perplessa.
A questo punto arrivo al nucleo delle tue osservazioni: tutto quello che dici è più che sensato. Io non parlavo di quello. Mi ero limitato a notare, come hai fatto anche tu e in maniera più chiara, che “la forza del memorandum si traduce soprattutto nell’avere imposto (…) il frame di discussione”. Io da lì ero partito, poi il discorso ha preso un’altra piega, ma m’interessava proprio vedere questo “frame”, vedere che nomi dava alle cose Wu Ming 1. Da lì mi sono mosso verso un’indagine sul rapporto tra forma e contenuti del «manifesto» che mi ha portato a determinate conclusioni.
Non ho dubbi nemmeno sulla metodologia da te indicata: partire dal dettaglio per creare blocchi concettuali più compatti intorno ad alcuni aspetti contenutistico formali, mi sembra l’unico modo per indagare la letteratura senza scadere nel clownesco. E penso che su questo aspetto butterò giù qualche riga nelle prossime settimane.
Per concludere, ti prego di non pensare che io miri ad una critica “per iniziati”: soltanto, penso che non sia possibile, come diceva Vecchioni, «andare incontro, facilitare, semplificare…»
Un saluto e a presto
Carlo
Sembra che, qui su Nazione Indiana, “postare” sull’argomento NIE richieda più sprezzo del pericolo che partecipare, che so, a discussioni sulla mafia (almeno a giudicare dal livello di animosità raggiunto in un altro dibattito di circa un anno fa: https://www.nazioneindiana.com/2009/02/14/nella-stanza-separata/ ). – Mi espongo anch’io a rappresaglie, se affermo di non aver capito perché, secondo Tirinanzi, qualsiasi discorso sulla letteratura debba essere necessariamente o teoria letteraria spassionata, distaccata e “scientifica”, oppure manifesto d’avanguardia? Per dire: ciò che Pasolini scriveva su Dante nei primi anni ’60, a quale delle due categorie apparteneva?
Salvatore,
non ho mai pensato di suddividere il campo tra “teoria letteraria spassionata” e “manifesto d’avanguardia”. I discorsi sulla letteratura possono essere vari e molteplici. Ognuno ha di norma un suo stile. Volevo suggerire un possibile inquadramento alternativo, chissà perché si legge “non è teoria letteraria” come se avessi scritto “questa roba è una boiata pazzesca”. No, semplicemente, volevo dire: “non è teoria letteraria.”
Grazie per l’osservazione.
Caro Carlo,
a maggior ragione, visto che ci conosciamo (anche se non ero sicuro fossi tu, in prima battuta), penso che la schiettezza sia il punto di partenza. Del tuo articolo, onestamente, fatico a capire l’utilità. Mi sembra animato più da una volontà di ricondurre un testo sfuggente e particolare come NIE ad ambiti “consolidati” e “tranquillizzanti”, piuttosto che dal desiderio di metterne alla prova gli apparati concettuali. In questo coglievo un atteggiamento “pubblicitario” e antipatico. Mi hai provato, rispondendo puntualmente alle mie argomentazioni, che la malafede l’avevo vista io soltanto. Mi scuso se la mia irruenza ti ha infastidito.
Ciò detto:
1) Sulla questione straniamento/sguardo obliquo credo che bisognerebbe partire a confrontarci più che sulle definizioni su testi concreti, per capire realmente se i due concetti coincidono o presentano delle differenze.
Ad esempio se è obliquo il pdv in plongee di GRM lo è perché non si può attribuire ad alcun soggetto. Si tratta di un focolaio di percezione irreale o disincarnato, e in questo esprime un’alterazione (letteralmente è una visione impossibile, e, per questo motivo, perturbante). Oltre a questa dimensione, lo sguardo obliquo, è il caso dell’Io narrante di Gomorra, si presenta come il pdv di un soggetto collettivo dell’enunciazione ed ha quindi la capacità e la forza di sciogliere le identità e ricostruirle, appunto, in un soggetto molteplice Gli esempi che io ho in mente di straniamento non mi sembrano coincidere con questa operazione. Ma forse saprai farmene altri convincenti.
2) Sulla questione dei riferimenti Dimitri mi sembra stato molto chiaro. Aggiungo una cosa, una delle particolarità del lavoro di Wu Ming 1 è stata, anche, la capacità di dare vita ad una serie di altri interventi che riprendevano gli spunti del saggio, ampliandone lo sguardo. Sono sicuro che hai perfettamente presente ciò di cui sto parlando. Quella ampia produzione ha il merito di esplicitare, riprendere, ampliare i riferimenti che nel testo restano impliciti. In questo, soprattutto, NIE sa essere transmediale, diffuso, proliferante.
3) Non capisco proprio come si possa tenere separate critica e teoria, in ogni campo. Per formazione sono convinto che la teoria, che non si corrobori dell’analisi critica dei testi, sia impossibile. Ma forse abbiamo in mente cose diverse.
Caro Flavio,
tutto a posto. Passo a risponderti mentre cuoce la zuppa:
1) Straniamento (Sklovskji)/sguardo obliquo: non ci vedo grandi differenze. Ci provo, ma proprio non ci riesco. La citazione di “Grande madre rossa” cui ti rifai, e cui peraltro si rifà anche Wu Ming 1, è quella, tra tutte che mi convinceva meno: più che altro, direi che la spiegazione più elegante è che l’autore tenta di mimare un movimento di camera (tra i molti esempi cito la sequenza di apertura di “Burn After Reading” dei Cohen), ma su questo ci sto già lavorando e magari approfondiamo in seguito.
2) ancora sui riferimenti: Dimitri è stato molto chiaro e anche tu lo sei. Certo è un’operazione particolarmente interessante ma io non volevo metterne in discussione l’utilità e/o i pregi. Volevo solo dire: un saggio così, per una serie di motivi TRA CUI (ma NON ESCLUSIVAMENTE) questo dei riferimenti, non mi sembra possa passare come “teoria letteraria”. E in realtà, possiamo discuterne e anche fare le percentuali: teoria 30%, politica 15%… Resta il fatto che a me sembra ancora più produttivo, più “risonante,” porre il «memorandum» come manifesto e analizzare possibili implicazioni di un simile apparentamento.
3) A “critica” e “teoria” devi aggiungere “della letteratura.” Sono due discorsi simili, a volte sovrapposti, ma essenzialmente diversi nei mezzi e nei fini. Contini ha scritto molti brani magistrali di critica letteraria e pochi di teoria. Ma capisco che, detta così, sembri anche questa una definizione superficiale. Andrebbe scavata molto più a fondo, per ora accontentiamoci di dire che l’analisi critica c’è sia nella critica che nella teoria. Su questo mi trovi totalmente d’accordo.
Un caro saluto
C.
@Carlo: e hai detto niente! Non a caso Genna imita un procedimento cinemtografico. Il cinema è arte dello sguardo, lavora creando sguardi incessantemente. Quello di GMR, in gergo tecnico, è un plongee, uno sguardo dall’alto, inassegnabile ad un soggetto concreto. Un’altro nome per chiamarlo è “lo sguardo di Dio”. L’obliquità sta tutta nell’impossibilità di assegnare quello sguardo ad un soggetto percipiente ben definito. Spesso sguardi del genere, nel cinema, sono assegnati a soggetti dallo statuto indefinito: gli uccelli di Hitchcock, gli Zombi di Romero. Zizek ha scritto cose molto interessanti su qeusto, nel libro su Hitchcock.
Plongée, certo, è quello che dicevo anch’io. Genna non lo imita a caso, ovviamente. Ma caricarlo di significati mi sembra sovrainterpretare un procedimento mutuato dal cinema e che in verità non risponde alla valenza conoscitiva data da Wu Ming 1 allo “sguardo obliquo.” “Lo sguardo dai margini” di cui parla Wu Ming implica una maggior chiarezza sugli avvenimenti: un punto di vista “diverso”.
Perché per rispondere alla definizione ci vuole un punto di vista eccentrico E una qualche valenza conoscitiva. Oppure ogni volta che non vediamo attraverso gli occhi di un uomo abbiamo uno sguardo obliquo? E una simile osservazione a cosa ci servirebbe?
Per questo ho detto che la spiegazione più elegante è prenderlo, come anche tu noti, come un procedimento mutuato dalla cinematografia. E sempre per questi motivi ho affermato che, tra i vari esempi, è quello che mi convinceva meno.
Lo “sguardo obliquo” non è necessariamente “chiarificatore”, anzi, il più delle volte ha un effetto “opacizzante” sull’oggetto rappresentato. Ricorrere a un macro-concetto come “straniamento” però non aiuta, perché è una categoria che non rende conto della cosa più importante: il procedimento.
Faccio un esempio, tratto da Genna, che spero essere chiarificatore.
In Dies Irae lo sguardo di Giuseppe , il protagonista, si focalizza spesso su personaggi o eventi che possiedono un forte valore mnestico, la cui apparizione è cioè capace di “marcare” luoghi dell’immaginario condiviso, evocando un preciso mondo storico e culturale. Ma il lavoro di memoria è reso, a livello del suo procedimento narrativo, tramite l’inserimento di un periodo di latenza, di un intervallo che apre ad associazioni di significati profonde e rivelatorie. Un procedimento che emerge molto bene nella scena in cui Giuseppe, che è stato appena assunto in una squallida televisione privata, assiste per la prima volta a delle riprese in studio.
“Sul piccolo palco, riprese, sono due donne, scatenate, ululano come menadi ed impartiscono ordini nel nulla come gorgoni, se ignorassi le tre telecamere a cui si rivolgono sarebbe una rappresentazione dinamica lettrista.
[…]
Invece è reale, pesantemente reale. Sono sotto curatore fallimentare, le due donne, e fanno finta di non accorgersi della sua cerea presenza nella penombra dietro le telecamere e urlano di comprare, comprare, comprare.
Sono madre e figlia.
[…]
Sono Wanna Marchi e sua figlia Stefania e qui c’è da ripagare una bancarotta. Sono costrette a vendere le merci in giacenza per pagare i creditori.”
In questa breve sequenza sono riconoscibili tre passaggi: nel primo si assiste a una stilizzazione che riduce a pochi tratti essenziali i formanti figurativi che compongono l’immagine delle due donne – “menadi”, “gorgoni” -, nel secondo vengono invece integrati alcuni tratti che mettono in situazione il racconto, permettendo al lettore di orientarsi – “Sono sotto curatore fallimentare…”, “Sono madre e figlia…” – mentre il terzo raggiunge e nomina le menadi – “Sono Wanna Marchi e sua figlia Stefania” – , garantendo l’identificazione e l’attribuzione di soggettività e di identità precise.
Una seriazione della figura funzionale ad una sottrazione volontaria di senso, che impedendo al lettore una sintesi percettiva, non permette la pacificazione dello sguardo sul cliché. Ma si tratta anche di una stratificazione verticale dell’immagine, il cui attraversamento convoca inevitabilmente i luoghi formativi e i processi compositivi che producono i significati strutturali, e non solo tematici, del romanzo. Il lettore è costretto ad allungare il proprio percorso cognitivo, perché il racconto taglia via e reimpasta quei formanti figurativi che per primi consentono un riconoscimento “rassicurante” della scena. Ma se un tale passaggio delle figure, da Menadi a Wanna Marchi e sua figlia, produce un effetto perturbante, è perché la sottrazione iniziale di senso (di tratti iconizzanti) non preclude alla riconoscibilità di una configurazione strutturale profonda, una postura, che rende possibile l’accostamento tra le Menadi e le tele-venditrici.
Ecco dunque che i corpi di Wanna Marchi e di sua figlia divengono delle superfici permeabili e porose, pronte ad occupare uno spazio intermedio, di attraversamento e di fuoriuscita, che costituisce il confine su cui convergono molteplici direttrici di significazione. Un movimento che dall’astrazione procede verso l’iconicità, ma che quando arriva all’icona la colpisce e la scheggia, ne deturpa la struttura simbolica rendendola uno spaventoso segno premonitore del tempo a venire.
In definitiva, se ci si lavora un po’, dal memorandum di teoria se ne cava a palate, ma solo se si passa preliminarmente dall’analisi del testo.
“il racconto taglia via e reimpasta quei formanti figurativi che per primi consentono un riconoscimento “rassicurante” della scena.” “Una seriazione della figura funzionale ad una sottrazione volontaria di senso, che impedendo al lettore una sintesi percettiva, non permette la pacificazione dello sguardo sul cliché.” Questo è Sklovskji. E il formalismo considera sempre l’arte come procedimento. Lo straniamento è un procedimento.
“In definitiva, se ci si lavora un po’, dal memorandum di teoria se ne cava a palate, ma solo se si passa preliminarmente dall’analisi del testo.” Sono assolutamente d’accordo. Dire che non si tratta di un testo di teoria letteraria ma di un manifesto non implica assenza di teoria, ma che la forma è diversa.
In ogni caso mi sembravano più chiari gli esempi che ho trovato nel «memorandum» perché qui ci sono in gioco, mi sembra di intuire, due procedimenti insieme: lo “sguardo obliquo” e lo “straniamento” brechtiano.
Una domanda per Carlo Tirinanzi. Nelle prime righe dell’articolo scrive: trentamila download vogliono dire che almeno ventimila persone (togliendo quel terzo di curiosi che scaricano e poi si dimenticano) hanno letto il memorandum.
La domanda è: come fa a sapere Tirinanzi che due persone su tre leggono ciò che scaricano? E: si tratta di letture integrali o di letture parziali?
La questione mi interessa molto, e sarei felice se Tirinanzi potesse indicarmi di quali osservazioni o studi si è servito.
Giulio, era una battuta per dare una stima prudenziale del numero di lettori, come quello che diceva (era Jacopo Fo?) che nelle votazioni c’è sempre un dieci per cento contrario a tutto, per principio.
No Carlo, non è Sklovskji. Se proprio ti interessano le fonti, si tratta di Jankélévitch, che però non usa il concetto di straniamento, ma di “intravisione”: una specie di sguardo tra le cose e dentro il soggetto. A questo si aggiunge un lavoro sulla densità figurale (CFR Denis Bertrand) e, volendo essere puntigliosi, la riflessione di Aby Warburg sulle pathosformeln.
Oltre a ciò, “straniamento” è un concetto generale e astratto, mentre un “procedimento” si lascia definire solo all’interno di una determinata chiusura testuale.
Io però dubito che spiattellare tutti i riferimenti teorici aiuti a far chiarezza, anzi, come dici tu stesso, è “più chiaro” Wu Ming 1. Sono d’accordo, ed infatti credo che la sfida consista nell’alleggerire la scrittura. Provando, per quanto possibile, a fare della teoria sul testo e non sui teorici.
Ciò che trovo problematico nella tua impostazione, è che vai cercando un principio da cui le forme discenderebbero come un corollario. E dunque, la mia impressione, è che per te la teoria sia qualcosa di essenzialista. Tu definiresti prima “cosa è” il romanzo, o “cosa è” un procedimento, e poi andresti a vagliare tale forma sull’opera.
WM1, e in questo mi pare consistere la bontà del suo suggerimento euristico, propone invece una “teoria locale”, ovvero fa di ogni testo un oggetto teorico da cui partire. E dunque non più “cosa è” , ma “come funziona”.
Scusami Dimitri, ma quello che ho citato è perfettamente applicabile allo straniamento formalista.
Oltre a ciò, “straniamento” non è un concetto generale e astratto ma un procedimento. Tutto il metodo formale considera l’opera d’arte un insieme di procedimenti. Il procedimento dello straniamento si storicizza, poi, di volta in volta perché ha a che fare con la percezione, che cambia con il passare del tempo. Di sicuro, non è niente di “astratto.”
Tu, dici, dubiti che spiattellare i riferimenti aiuti a far chiarezza. Ma tutto questo nostro scambio sarebbe stato ben diverso se nel «memorandum» fossero stati presenti i riferimenti.
E io mi riferivo, sulla chiarezza, soltanto all’esempio che hai portato che mi sembra meno chiaro di quelli fatti da Wu ming perché unisce due aspetti distinti che nel memorandum sono riportati separatamente. In ogni caso, ti ripeto, la faccenda dei riferimenti è soltanto una tra le molte che metto in campo per arrivare a definire «Nie» come qualcos’altro – nello specifico, un manifesto.
La mia osservazione ha dato origine a una critica che mi sembra, tutto sommato, in realtà non critichi la mia osservazione: tu contesti l’utilità dei riferimenti. E sono d’accordo: in certe tipologie di scrittura come il saggio essi non sono indispensabili (anche se poi, se vai a vedere, spesso si trovano in coda note bibliografiche “ragionate” che servono proprio al lettore voglioso di approfondire quanto ha letto). In altre sono la norma, o quanto meno sono il «grado zero.»
In ogni caso, ripeto ancora, la mia definizione di «NIE» come manifesto poggia su due fasi: la prima mira a vedere se il «memorandum» è o meno un’opera di teoria letteraria, e mi è sembrato che la risposta fosse “no.” La seconda, basandomi su alcuni indizi, mira invece ad includere quello scritto nel genere del manifesto, con il quale mi è sembrato avesse molti punti in comune.
Per quanto riguarda l’essenzialismo, non sono d’accordo — anche se Francesco, e ora anche tu, sembra convinto del contrario. Innanzitutto, distinguiamo: “cosa è un procedimento” è una domanda un po’ diversa da “cosa è un romanzo.”
(Detto questo, mi sembrava che almeno sulla definizione di procedimento, fin qui fossimo d’accordo!) Sul “come funziona”, questa è la domanda che guidava i formalisti e che guida anche le mie indagini critiche. Ma non si può evitare, prima o poi, analizzando come funziona, di cercare di capire che cosa è. Che poi è quello che fa anche Wu Ming, prescrivendo gli aspetti salienti che deve avere il nuovo epico italiano.
L’utilità dell’induzione nelle elaborazioni teoriche è stata messa in dubbio da più parti, e in particolare da Popper. Ciò non implica essere essenzialisti. Ma il genere è una costruzione di compromesso, sempre mutabile certamente, che indirizza la creazione e la ricezione di un’opera. Questo significa che, pur non esistendo un assoluto transtorico, trascendentale, di romanzo, ogni epoca si aspetta da un romanzo alcune cose. E lo stesso dicasi per altri generi, come la teoria letteraria, la critica, il saggio, l’autobiografia eccetera.
Mi scuso per il periodo un po’ confuso tra le righe 14 e 15. Suona meglio se dico: “una critica che, tutto sommato, mi sembra in realtà non criticare la mia osservazione”?
“Il procedimento dello straniamento si storicizza, poi, di volta in volta perché ha a che fare con la percezione, che cambia con il passare del tempo”.
E’ esattamente questo che critico del tuo ragionamento. Se qualcosa deve storicizzarsi vuol dire che tale “cosa” precede l’atto concreto che lo incarna, ovvero presenta un carattere essenziale a-priori.
Dal mio angolo prospettico, è questa la prescrizione.
Scusami, ma mi sembra che si stia un po’ imbrogliando la matassa.
Tu hai detto: il concetto di straniamento non rende conto del procedimento. Io ho replicato che lo straniamento è un procedimento. Tu hai ribattuto che il procedimento si trova solo nei testi perché sennò siamo essenzialisti aprioristici. Ok, ma a un certo momento dovrai anche tirarlo fuori dai testi, questo procedimento, se vuoi parlarne. Cosa che, del resto, fai con lo sguardo obliquo e che fa anche wu ming. Ora, perché lo sguardo obliquo sì e lo straniamento no?
Esempio di quanto intendevo quando parlavo di prescrizione: questo è un elenco di procedimenti che un’opera deve avere per essere new italian epic – tra questi, un’opera NIE deve averne almeno il 50%.
Questa è una poetica prescrittiva. Di questo stavo parlando. Poi, come ho già scritto, il discorso sul genere è un po’ diverso.
Esatto Carlo, tirare fuori il procedimento dai testi per via analitica, non prendere il concetto di straniamento e modellarci il testo attorno. La teoria viene dopo l’analisi, non prima. Dal breve stralcio che traggo dal Dies Irae è abbastanza facile vedere che il procedimento adottato da Genna nulla ha a che fare con quello messo in uso da Brecht.
Dunque, la questione non è “straniamento” no/ “sguardo obliquo” si, ma comprendere le procedure testuali che un testo adotta. Poi puoi chiamarlo anche “piripicchi”.
Le tassonomie, e quella di WM1 lo è, pongono un discrimine convenzionale, ma passibile di trasformazione.
Infine, una curiosità. Se giudichi il memorandum un manifesto prescrittivo, cosa puoi dire delle tesi di Luperini o di Donnarumma?
Il primo spacca la letteratura contemporanea in due: postmodernisti cattivi, neomodernisti buoni (senza neppure individuare opere che riempano il canone!). Il secondo utilizza la categoria di realismo in modo tutt’altro che “descrittivo” (cosa che persino Cortellessa, su questa stessa rivista, gli ha rinfacciato https://www.nazioneindiana.com/2008/10/29/reale-troppo-reale/).
il link giusto all’articolo di Cortellessa è questo
https://www.nazioneindiana.com/2008/10/29/reale-troppo-reale/
Fammi capire bene, Carlo: stai dicendo che non hai la minima idea se sia vero o no ciò che hai scritto, ossia che trentamila download vogliono dire che almeno ventimila persone (togliendo quel terzo di curiosi che scaricano e poi si dimenticano) hanno letto il memorandum?
Ho un’altra domanda. Come fa il lettore, leggendo quella tua frase, a capire che si tratta di “una battuta”, come ora scrivi? Io l’ho letta e riletta, ovviamente tenendo conto del contesto, e ti dirò: a me sembra proprio una frase semplicemente informativa.
@ dimitri
In che senso «persino Cortellessa»?
giulio, trattasi di una “battuta informativa”. woody allen per informarci della sua nevrosi ne ha fatte di splendide.
Andrea, hai l’occhio di un falco.
Quel “persino” è un lapsus freudiano. Intendevo che nonostante noi due non si sia d’accordo quasi su nulla, in quell’articolo centravi in pieno l’aspetto problematico dell’impianto “descrittivo” di Donnarumma.
Insomma, per una volta volevo darti ragione.
@ dimitri
Allora avevo capito (c’era anche la possibile lettura «persino quer cojone…»).
Ok, provo a dirla così:
a) Sklovskij non crea il concetto di straniamento in laboratorio ma attraverso un’indagine dei testi
b) lo stesso fa wu ming 1 per individuare lo sguardo obliquo, e io non ho mai avuto intenzione di metterlo in dubbio
c) i risultati delle due operazioni sono abbastanza simili.
Per quanto riguarda Donnarumma o Luperini: che c’entra? In questo articolo parlavo del «memorandum» di Wu Ming 1 e non di Donnarumma o Luperini. Non so se Wu Ming sia più o meno prescrittivo di questi ultimi, ma mi sembra che ponga in essere una poetica prescrittiva (ovvero, che prescrive dei comportamenti, non che determina categorie rigide), come sottolineavo nell’esempio del “decalogo” del NIE.
Mi sembra, però, che stiamo andando un po’ fuori strada. Io ho elencato alcuni aspetti del «memorandum» e ho cercato di trovare una spiegazione a certe strategie testuali, questa spiegazione per me è che il «memorandum» deve molto ai manifesti delle avanguardie. Lo straniamento è solo uno dei punti che ho sollevato, e a mero titolo di esempio insieme al concetto di “nebulosa”, alla prescrittività dell’elenco e altri elementi.
Hai letto “Teoria della prosa” di Šklovskij. Ne convengo.
Su Luperini e Donnarumma: era una curiosità, appunto. Padrone di non esprimerti.
Ultima cosa e poi chiudo. Quando un post deraglia ciò accade, di solito, perché quest’ultimo non è interessante o è debolmente argomentato.
Stammi sano
donnarumma. all’assalto.
Dimitri, mi sembrava il dialogo stesse mantenendosi su un livello buono.
Non capisco bene, adesso, il motivo che ti spinge ad assumere questo tono.
In ogni caso se ti va di approfondire ne parliamo di persona quando passo da Siena.
Un saluto
Carlo, rispondere a qualsiasi cosa con la parola “Šklovskij” non è un dialogo, ma una petitio principi.
Comunque hai ragione, meglio parlarne di persona.
Ecco, bravi. A me ‘sto Sklovsky mi sta pure un po’ sui cosiddetti…
@ Carlo Tirinanzi
Grazie per la risposta (quella del ventidue marzo, diciotto e cinquantasette). Io leggo il libro di Wu Ming sul New Italian Epic in parte come un saggio di critica militante e in parte come una dichiarazione di poetica. La tentazione d’interpretarlo come un manifesto d’avanguardia è forte; quando l’ho letto, anch’io sono stato colpito dall’incipit che ricorda (non so se volutamente o meno) il manifesto di Marinetti. Ma, a ben vedere, questa lettura è poco convincente. In primo luogo, perché gli stessi autori hanno negato che NIE fosse un manifesto (fra gli altri luoghi, qui: http://www.carmillaonline.com/archives/2010/01/003299.html) – e direi che, trattandosi di uno scritto teorico e non di un’opera letteraria, le intenzioni degli autori abbiano una qualche rilevanza ai fini della sua interpretazione. In secondo luogo, perché alla pubblicazione non hanno fatto seguito le attività, in senso lato “politiche”, che di solito definiscono un movimento d’avanguardia: non è stato indetto nessun convegno di autori neoepici, né è stata pubblicata alcuna rivista, né sono state organizzate “serate neoepiche” con letture dei testi del movimento, ecc.
Inoltre non mi pare che gli enunciati del saggio di Wu Ming abbiano un valore prescrittivo. Tranne forse uno: il rifiuto di considerare l’ironia e il disimpegno come unico approccio possibile alla realtà, cioè il rigetto del “postmodernismo da quattro soldi”. Ma, anche in questo caso, si tratta più di una constatazione che di un imperativo: si dichiara che il postmoderno è (finalmente) morto, e che occorre necessariamente muoversi su un territorio nuovo. Il libro sul NIE sarebbe allora un parziale tentativo d’esplorazione di questo nuovo territorio. Tutto qui.
Il link corretto all’articolo su Carmilla è questo
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/01/003299.html
Caro Salvatore,
parlo del «memorandum» come di un manifesto che è in qualche misura anomalo: nessuno potrebbe pensare di rifare pari pari quello che si faceva cinquanta o cento anni fa. Tu, giustamente, citi l’autore (la cui voce è a mio avviso sempre da considerare) che dice, parlando del New Journalism e con riferimento alla propria proposta ” una lettura a posteriori, che guardava all’indietro (a quanto scritto nei dieci anni precedenti), venne strumentalmente presentata come una lettura a priori, cioè un manifesto, una dichiarazione programmatica.”
In primo luogo vorrei farti notare come la novità della proposta di Wu Ming 1, nella mia lettura, è proprio quella di essere un manifesto a posteriori. La continuità con il mondo dell’avanguardia è portata dal bisogno di nuovo, dalla necessità (anche retorica) di identificare una serie di “novità” (strumenti teorici e/o pratiche scrittorie) che identificano l’oggetto letterario di cui l’avanguardia si fa portatrice. Un bisogno che porta l’autore addirittura a riprendere concetti già definiti (i due esempi erano lo “sguardo obliquo” e la “nebulosa”) e proporli come nuovi.
Per il secondo punto che tu porti, notando la mancanza di quelle attività che definisci “politiche” e che sono spesso state collaterali alle avanguardie, dovrei rifletterci con più calma. A naso mi viene da dire che ci sono certo molte differenze tra le avanguardie di oggi e quelle di ieri, ma il nucleo duro dell’arte d’avanguardia (l’arte come politica che produce il futuro: cfr. “noi dobbiamo essere i genitori”, uno stile aggressivo, la faccenda della novità, la volontà di creare un aggregato ampio, ecc.) è comunque presente.
Sull’ultimo punto permettimi di spiegarti il mio punto di vista. In soldoni, il saggio dice: per essere NIE, un’opera deve avere cinque tra queste caratteristiche. A me sembra che in tal modo egli prescriva alcuni comportamenti. Questa lettura, ovviamente, implica un distanziamento dalle posizioni di Wu Ming1, il quale considera la fase NIE conclusa.
Per ora ti saluto e ti ringrazio per gli spunti di riflessione.
“Nebulosa” è un concetto o è semplicemente un’immagine, una metafora usata dall’autore per far capire cosa intende? A me non sembra un concetto. Non tutte le immagini corrispondono a concetti. Aristotele spiega che un concetto è sempre parte di una classificazione, ogni concetto è “specie” di un concetto più universale e “genere” di un concetto meno universale. Ad esempio, il concetto di “chiesa” è specie del più universale concetto di “religione” e genere di concetti meno universali, come “ordine religioso” o “diocesi territoriale”. Un concetto è sempre “scientifico”, anche quando chi lo propone non è “uoo di scienza”. In che senso il termine “nebulosa” è un concetto? Di quale altro concetto è specie, di quale altro concetto è genere?
E poi Tirinanzi dice che la “nebulosa” è una “costellazione”. Almeno in astronomia, si tratta di due cose molto diverse. Una nebulosa è in buona sostanza un ammasso di polvere. Una costellazione invece è un insieme di stelle, che non hanno niente in comune tra loro, ma sono messe in relazione in modo arbitrario, perché noi dal nostro pianeta le vediamo vicine e ci sembrano formare un disegno. Insomma, una nebulosa esiste davvero, a prescindere dal punto d’osservazione. Una costellazione no.
Margherito Hack,
ho detto semplicemente che Wu Ming usa “nebulosa” in una maniera abbastanza simile a come Benjamin usa “costellazione”. Si tratta ovviamente di metafore, in entrambi i casi.
Tirinanzi, io ho letto questo:
“Un bisogno che porta l’autore addirittura a riprendere concetti già definiti (i due esempi erano lo “sguardo obliquo” e la “nebulosa”) e proporli come nuovi.”
E ho dunque chiesto: nebulosa è un concetto? Un “concetto già definito”? Definito da chi?
Se poi la frase era solo mal costruita, e non si intendeva affatto dire che “nebulosa” è un concetto, ritiro la domanda. Quindi rimane solo la somiglianza tra lo “sguardo obliquo” e lo “straniamento” a sorreggere la lettura del testo in questione come manifesto caratterizzato da un “bisogno di nuovo”. O sbaglio?
Margherito,
Ciò che “nebulosa” è per Wu Ming sembra proprio quello che Benjamin chiamava “costellazione.” Che sia un’immagine o un concetto, non cambia la relazione tra Wu Ming e Benjamin. Inoltre sia la faccenda della nebulosa che quella dello sguardo obliquo erano due esempi della tensione alla novità presente nel testo. E due esempi dello stesso tipo, relativo alle fonti. Come esistono altre fonti non citate da wu ming, così esistono altri modi retorici di puntare al nuovo. E uno dei brani, tanto per fare un altro esempio, s’intitola appunto “sentimiento nuevo.”