Provincere o morire
incontro alla festa di Nazione Indiana, domenica 30 maggio, ore 14, al Castello Malaspina di Fosdinovo
a cura di Giacomo Sartori e Helena Janeczek con Vincenzo Pardini
L’Italia che si accinge – fra le polemiche- a celebrare i 150 anni della sua unità, sembra sempre più un’entità politica astratta: da superare per alcuni, per moltissimi un luogo che non suscita sentimenti di appartenenza più profondi e naturali del tifo per la nazionale ai mondiali di calcio. Forse anch’esso, stavolta, piuttosto tiepido.
Qualcosa – è evidente – è andato storto. Qualcosa ha fatto sì che pur con l’alfabetizzazione della tv di Stato nel dopoguerra e poi quella privata, pur con i grandi flussi di emigrazione storici da Sud a Nord e il loro inquietante, silenzioso ritorno in massa negli ultimi anni, l’Italia sia oggi un paese che non si conosce più. Un luogo dove i ragazzi di ogni provenienza volano in low-cost a Amsterdam, Parigi, Londra, Berlino, ma dove un ragazzo di Siracusa fatica a immaginare la vita di un suo coetaneo a Trento, a meno che non vi ci sia trasferito per studi o per lavoro. Ma forse questo vale già a una distanza assai minore.
L’Italia è rimasta provinciale e al tempo stesso è cambiata. Mentre un tempo la provincia custodiva risorse produttive capaci di conservarne la vitalità economica, sociale e culturale del territorio, oggi c’è la crisi. E la parziale illusione che la crisi sia sempre peggio altrove o almeno che sia altrove la sua causa. Eppure oggi tutte le realtà locali sembrano omologate solo nei consumi e negli immaginari, e al tempo stesso sempre più chiuse e insulari. E ogni scambio, ogni dialettica fra tali realtà come anche con il centro diventa sempre più difficile. Forse perché persino Roma, Milano, Torino soffrono della stessa sindrome di svuotamento e di autoreferenzialità. Perché di fatto sono anch’esse diventate luoghi provinciali. Ma anche luoghi polverizzati nelle differenze fra quartieri, fra centro e periferie sempre più vaste e autonome, nella globalizzazione che ne riplasma il volto in tanti modi che si preferiscono negare.
Le rappresentazioni di questa complessità sono quasi sempre semplificatorie, rimandano al passato. Nei mezzi di informazione prevalgono i collaudati cliché, colorati e consolatori, autocompiaciuti. E la provincia preferisce, per definizione, non guardarsi da troppo vicino, con troppa lucidità.
Cosa si trova di tutto questo nei libri che oggi vengono scritti dai narratori dispersi fra le varie parti del paese? Quali difficoltà incontrano nel voler parlare a tutti attraverso un linguaggio e un immaginario in qualche modo collegato alla realtà in cui essi vivono, quella che altrove non si conosce? Come si confrontano con i cliché della cultura nazionale e con quelli che vengono dalle altre culture?
Abbiamo il piacere di parlarne con Vincenzo Pardini, scrittore profondamente radicato in un territorio vicinissimo al luogo che ci ospita – quello della Lucchesia- e forse anche per questo alieno, e non riconosciuto come meriterebbe.
fra quartieri, fra centro e periferie fra le polemiche per alcuni, per moltissimi per la nazionale è evidente – è andato altrove o almeno e al tempo stesso fra tali fra quartieri, fra centro e periferie cliché, colorati per definizione nei libri fra le varie parti a meno che non vi ci sia
Bel pezzo. davvero.
a proposito di Trento, ricordo sempre fra il basito e la curiosità il racconto di un mio caro amico di Trapani che decise di trasferirsi a 19 anni nel capoluogo trentino per studiare economia. La prima settimana, dopo pochi giorni, ci fu una manifestazione con fiaccolata per protestare contro gli insegnanti del sud che rubavano il lavoro ai trentini.
Mi disse qualcosa di simile (perdonate le imperfezioni, sono veneto, non siciliano): “Minchia cumpare miu, giustu arrivai!”
A proposito di Trento anch’io, ricordo, non moltissimi anni fa, una bibliotecaria trentina, simpatica intelligente e credo per nulla sfiorata da idee separatistiche, che a proposito di Firenze dove aveva studiato, diceva gli “italiani” intendendo i fiorentini e “noi”:D
Non capisco la preoccupazione. Il fatto che esista una formazione geografica peninsulare che chiamiamo Italia, dove si parlano lingue simili, non comporta necessariamente l’unità politica. Mi sono convinto che quello dell’unità sia stato un esperimento (in parte dettato dalla necessità geo-politica di esistere in un’Europa fatta di Nazioni) che poteva riuscire, come non poteva riuscire. Non è riuscito. Ora è in atto il processo storico inverso. Amen. Gli italiani si odiano tra loro e si odiano in quanto italiani. La nostra è una nazione che odia se stessa, che si disprezza. È una cosa che colpisce molto i non-italiani. Essere nazione non è obbligatorio. Si può anche smettere di esserlo: d’altra parte dopo Berlusconi francamente tutto è possibile. Siamo sempre stati provincia, almeno dalla seconda metà del Settecento in poi. Tali continueremo ad essere.
caro Pecoraro, la nostra preoccupazione, come potrai immaginare, non è nè storica né sociologica; né esistenziale;
è piuttosto quella, terra terra, di cercare di individuare tra i tanti romanzi e racconti che sono legati in qualche modo a una regione/provincia italiane quelli che per noi valgono qualcosa, o anche molto; e di segnalarli, tanto per cominciare;
e poi anche quella di ragionarci un attimo sopra; perchè alcuni testi riescono a parlarci e soggiogarci, perchè la maggior parte non ci riescono?
personalmente penso che i romanzi e racconti che più mi piacciono e/o mi interessano hanno tutti in comune il fatto di riuscire a evitare tutti i clichè – e sono moltissimi – con cui l’Italia guarda a se stessa, a cominciare proprio dalle differenze regionali; clichè in alcuni casi molto smaccati, in altri più subdoli; credo che una delle difficoltà per chi scrive nella nostra lingua sia appunto trovare il modo di smarcarsi dai luoghi comuni, ben radicati beninteso anche nella lingua stessa; certo i luoghi comuni esistono in ogni cultura, è ovvio, ma forse in forme meno totalizzanti (già una compresenza di vari e infiniti e spesso contradditori livelli di luoghi comuni, pensiamo agli USA, crea una condizione completamente diversa), meno egemoniche;
tantissima nostra narrativa, per dirla esplicitamente, anche quando vorrebbe essere spigliata e “laica”, e sembra vedere se stessa come tale, mi sembra desolantemente inoffensiva e acritica e convenzionale proprio per questo riflettere le rappresentazioni che vanno per la maggiore; spesso addirittura con un più o meno esplicito autocompiacimento;
certo, c’è poi tutta una narrativa italiana in cui le differenze regionali non ci sono più, o comunque sono solo anedottiche (e anzi sembrerebbe anzi che questa presa di posizione sia una conscia scelta di “contemporaneità”); ma a parte qualche eccezione, mi sembra che tanti, forse la maggior parte, dei testi di valore rimangano pur sempre, come succedeva in passato, ancorati a realtà geografiche ben precise, all’ineluttabile “provincialità” di cui parli tu stesso; penso, tanto per intenderci, alla “grandissima” Roma – nello stesso tempo conosciutissima e completamente nuova – di Siti; o, su un versante diversissimo, arcaico e rivolto verso il passato, al magnifico Pardini;
Più che una questione geografica, o geopolitica, credo che il punto sia di ordine sociologico. Forse uno scrittore che tale possa definirsi deve irriducibilmente immergersi nel suo contesto, nella realtà umana (che è contaminata dalla geografia che si trova a vivere) che ruota attorno, e che la sua scrittura trasudi dell’esperienza di un luogo, non importa che sia centro o periferia. Più importante dei punti è la rete che li connette, è la relazione che li fa dialogare, che arricchisce chiunque ne sia agglomerato. E parlo da una regione come le Marche che è e sarà eterna periferia perché sprovvista d centri, checché se ne dica e pensi. A meno che il centro non sia quello delle comunità che pensano, leggono e scrivono restituendoci il loro lavorio critico, e non una matassa di autocompiacimenti rilegati per il miglior acquirente.
mdp
Non vorrei che anche questo fose il tipico discorso provinciale, molto italico, che vede sempre in se stessi, nell’essere italiani, i peggiori mali, e immagina che fuori non esistano i difetti che avremmo noi qui.
Il rischio c’è.
La storia del Risorgimento è piena di ombre, lo sappiamo. Il Regno di Piemonte e Sardegna condannò a morte in contumacia i due principali eroi del Risorgimento, Mazzini e Garibaldi, che sono gli italiani più noti e stimati dell’Ottocento. L’unità di Italia avvenne grazie alla loro azione, e fu sfruttata da un Cavour che vi aveva partecipato pensando a un’espansione del regno sabaudo. Avvenne in qualche modo a spese di una buona fetta di popolo, che la subì.
L’Italia ora è molto disunita e presenta molte differenze regionali, vero; è anche vero che con B. l’Italia si è spaccata in due e presenta una anomalia autoritaria e di conflitto politico-economico fuori dalla media.
Ma non è che allì’estero tutto brilli.
Se prendiamo la Spagna, non dovremmo considerare forse i conflitti interni relativi ai paesi baschi e alla Catalogna?
Se prendiamo la Francia, non dovremmo forse dire che fuori da Parigi è tutto provincia, tutto essere provinciali?
Chiedo.
Perchè frasi come:
“Eppure oggi tutte le realtà locali sembrano omologate solo nei consumi e negli immaginari, e al tempo stesso sempre più chiuse e insulari. E ogni scambio, ogni dialettica fra tali realtà come anche con il centro diventa sempre più difficile. Forse perché persino Roma, Milano, Torino soffrono della stessa sindrome di svuotamento e di autoreferenzialità. Perché di fatto sono anch’esse diventate luoghi provinciali. Ma anche luoghi polverizzati nelle differenze fra quartieri, fra centro e periferie sempre più vaste e autonome, nella globalizzazione che ne riplasma il volto in tanti modi che si preferiscono negare.”
Mi pare si possano applicare un po’ a tutti gli stati europei, e in particolare l’ultima mi sembra calzi a pennello per Parigi.
Forse dovremmo calibrare bene il discorso, e se vogliamo vedere l’unicità italiana, dovremmo evitare facili generalizzazioni e far sempre confronti con l’Europa senza la solita lente deformante italiana che vede all’estero rimpiccioliti i mali che in noi vediamo ingigantiti.
Per quanto riguarda la produzione letteraria, il discorso mi sembra ancora poco impostato.
Cos’è che si lamenta, la mancanza di scrittori europei, che mancherebbero a dispetto della presenza eccessiva di scrittori “provinciali”?
Chiedo.
Fatemi capire.
Perchè anche qui io ho l’impressione che la migliore letteratura sia da sempre quella calata nel territorio, quella che rende universale uno scorcio di provincia.
E a me pare piuttosto che in Italia manchino – da molto tempo – romanzi di grande respiro sulle vicende storiche e politiche che hanno caratterizzato la nostra storia civile. Per es. avendo l’Italia una storia legata al terrorismo e alle stragi di stato di gran lunga più incisiva che in altre nazioni, mi pare che manchi un corrispettivo letterario di una certa visibilità e qualità.
@sartori
hai ragione.
del vostro discorso, di per sé stimolante, ho colto solo il tema fattuale, piuttosto che letterario, del processo di dis-unione in atto, che è una delle cose che più mi stupiscono del mio paese in questi ultimi decenni.
da un po’ di tempo penso che provinciale non è un luogo dove arriva poco o niente, ma da dove verso l’esterno non emana nulla o quasi.
il che comporta da parte del provinciale una trepida dipendenza da tutto ciò che proviene dai luoghi culturalmente egemoni situati altrove, che diventano perciò l’unico vero referente cui possibilmente porgere il proprio prodotto e da cui assorbire l’assorbibile.
la convenzionalità nella rappresentazione dei luoghi e delle culture de-centrate forse nasce da qui, da una sorta di volontà di confermare il risaputo, il convenzionale, il condiviso.
la catena dialettica centro-periferia si è come sostituita all’opposizione città campagna, sia a livello regionale che nazionale che sovra-nazionale e tuttavia è proprio l’accessibilità mediatica ai centri culturali mondiali, la cui emanazione giunge ovunque ad aver per così dire pareggiatoil rapporto città provincia…
è certamente una delle questioni cruciali della cultura di massa italica dell’oggi, dove la molteplicità delle specificità locali sembra non produrre più ricchezza…
eccetera.
@pecoraro
sono assolutamente d’accordo con quanto dici (ma anche sull’intervento precedente!):
“a un po’ di tempo penso che provinciale non è un luogo dove arriva poco o niente, ma da dove verso l’esterno non emana nulla o quasi.”
Trento è un esempio perfetto; grazie ai soldoni dell’autonomia (pensata per far convivere le due comunità italiane e tedesca, quando in realtà quest’ultima si è isolata) ha un’università che primeggia in Italia (giurisprudenza, ingegneria, lettere …), ha centri di ricerca scientifica a livello internazionale etc., ma non ha uno, dico uno, intellettuale che possa confrontarsi a livello nazionale, possa elaborare o esportare appunto qualcosa;
e quindi come dici tu: “ll che comporta da parte del provinciale una trepida dipendenza da tutto ciò che proviene dai luoghi culturalmente egemoni situati altrove,” per dirigere qualsiasi cosa, per progettare qualsiasi cosa, per decidere qualsiasi cosa, si va cercare il dirigente, l’architetto o l’esperto, in “Italia” (o all’estero), perchè appunto il livello culturale della dirigenza è infimo; la provincia, nonostante i generosi inoculi, resta profonda e arretrata e timorosa provincia, che non sa e non può riflettere su se stessa (nonostante la spocchia e l’arrogante convincimento del contrario), e dipendente dai modelli importati; ogni tentativo di riempire di contenuti il discorso dell’autonomia, fallisce sul nascere (se non forse, lì sono tutti d’accordo, il maggior peso della religione cattolica e delle sue istituzioni);
(personalmente, per tornare alla narra ho scritto tre romanzi che parlano della regione, e tranne qualche illuminato giornalista, e un manipolo di fedeli lettori, nessuno li ha mai nemmeno presi in considerazione: ma è solo un esempio dell’incomunicabilità);
e poi si sa, lo dice anca lù, il Bossi, il Senatùr, l’ha bofonchiato ieri,
ex magna cathedra sua:
” Del resto – ha aggiunto – se uno prova a tagliare la provincia di Bergamo, scoppia la guerra civile…».
Orpa!