Intervista a Luigi Di Ruscio

di Roberta Salardi

L’italiano è una lingua che non si parla nella sua famiglia a Oslo. Esprimersi in una lingua che non è quella quotidiana ma appartiene all’infanzia, un’infanzia per di più sgrammaticata e indisciplinata, un pezzo di vita lontanissima e perdutissima, rende l’operazione del suo scrivere fin dalle premesse un po’ surreale, fuori dall’ordinario. Vuole dirci qualcosa a proposito di questa lingua tutta particolare?

Che posso dirvi della mia lingua, la lingua con cui scrivo si è formata naturalmente dentro di me frequentando giornalmente il norvegese. Qui da Oslo scrivo e leggo in italiano ma io l’italiano lo parlo raramente tanto che la lingua italiana diventa lingua letteraria, il norvegese lo leggo e lo capisco come un norvegese ma lo parlo molto male,  l’italiano è come l’anima mia, certamente non è un’anima candida. Si sporca continuamente e non sarà più l’italiano dell’Italia di oggi. Insomma la mia “lingua particolare”, il mio “italiano particolare” è venuto a formarsi naturalmente, essere “sbattuto” nel posto più appropriato per la mia formazione. Tenete sempre presente che vivo in Norvegia dal 1957, cinquantadue anni di vita in Norvegia e appena per ventisette anni sono vissuto in Italia, come ho già detto il mio italiano è quello di quando sono partito, più di mezzo secolo fa, e delle mie letture continue.

A proposito dello stile sgrammaticato, ci sono in Cristi polverizzati almeno due frasi molto significative, una che rimanda al linguaggio familiare e una più propriamente politica: “Tutte le storie raccontate in maniera tanto diversa ed opposta, la menzogna del maestro espressa con un italiano illustre, dall’altra parte la verità che mi raccontava nonna con un linguaggio straziato che si sarebbe prestato solo all’irrisione, così ho intuito prestissimo che i linguaggi illustri, raffinati, aulici sono i linguaggi della menzogna, la verità si esprime con una verbalizzazione stritolata, inceppata e caotica, una verbalizzazione straziata.” (p. 41);

“Io avevo anni quattordici e sognavo di diventare partigiano, scappai via di casa e arrivai in un paese dove c’erano i partigiani che mi dettero un calcio in culo e mi rimandarono a casa: Vai a casa! Vai a casa, scemo! Ferito nell’orgoglio me ne tornai indietro, babbo mi chiese dove ero stato e io zitto, custodii il segreto del mio tentativo di essere anch’io tra i liberatori rossi e garibaldini. E nonostante il mio affabulare, mai sarò tra i liberatori. Allora mi chiudo qui, almeno a liberare le parole e poter dire come disse e scrisse il grandissimo poeta ho adoperato le parole che nessuno osava.” (p. 56).

La sgrammaticatura, conseguenza penalizzante di un profondo divario sociale d’origine, eletta a sistema, diventa consapevolmente eversiva, strumento di una battaglia culturale e politica portata avanti attraverso le matte scritture

E’ difficile dire qualcosa sul tema delle “trasgressioni” linguistiche perché quello che io scrivo ha una valenza poetica, non è una ideologizzazione, cioè è come fosse la voce di un personaggio, cioè quello che ho scritto sulle trasgressioni non sempre è vero, però è bello pensare in questa maniera. Insomma bisogna tenere presente che sono un poeta, poi è da tener presente il perenne conflitto con me stesso tanto da farmi scrivere che vedendomi improvvisamente nelle specchio ho avuto l’impressione di vedere il mio proprio assassino. Un professore universitario mi manda le sue poesie, non erano male e gli scrissi che la poesia è roba di disgraziati, come disse Montale in una sua intervista, basta un pezzetto di carta e una matita per scrivere dei versi, è meglio che uno dedichi la propria intelligenza in qualcosa di più utile a se stesso e alla società. Sono stato proprio io a scoraggiare un giovane poeta proprio io che avevo scritto questo: “Non disperate, mettetevi a scrivere le poesie, ne ricaverete rilassatezza, felicità gestuale, leggerezza nei contatti con il prossimo vostro, sentirete la presenza degli Dei in prossimità della tua ombra, gioia lavorativa, aumento vertiginoso nella creatività in tutti i campi, sviluppo della personalità. Leggermente folle correrai verso tutte le sciagure, ti crederai inseguito da bande antiblasfemiche armate di mazze ferrate, sfuggirai ai pericoli con rapidissime fughe, potrai metterti a volare come niente fosse, diminuzione vertiginosa della rigidità muscolare e anche mentale, diminuzione dei mali di testa, sarai in preda a dolcissimi spasimi sessuali. Iscrivere poesie a occhi chiusi, sgranare frasi una dietro  l’altra con la massima velocità sino al punto che la battitura segue perfettamente il ritmo delle pensate anche quelle più stravaganti, velocità massima nel concatenare libere associazioni, scrivere con la schiena bene appoggiata alla spalliera della sedia, tenere la testa non troppo reclinata sulla tastiera, da oggi tutte le ore sono le nostre mi disse un poeta, fa’ rimbalzare tutto sulla tastiera. Piove, nevica, suona il telefono alla porta tu inchiodato davanti alla tastiera della macchina da scrivere”.

La ribellione permanente contro la lingua ufficiale, ma anche contro i vari condizionamenti e mode di questo periodo storico particolarmente conformista, la rende discepolo autodidatta di un continuo sperimentalismo e apprendistato: “In questi problemi abbiamo lasciato il nostro, che chiamiamo dilettante e autodidatta perché è rimasto in un apprendistato sperimentalistico eterno. Insomma fa le prove, apprendendo in maniera permanente (…) Forse questo sperimentalismo o apprendistato è inevitabile per ogni scrittura, ma lui questa posizione la spinge fino alle ultime conseguenze ed è come perennemente sospeso, come sempre sul punto di, sempre nella predisposizione, ma mai oltre…” leggiamo in Palmiro, il suo primo romanzo (Baldini&Castoldi, Milano 1996, p. 85; prima edizione Il lavoro editoriale, Ancona 1986). Oltre che per l’aspetto lessicale e sintattico, i suoi romanzi sono sperimentali anche come genere e struttura. A me pare che nascano e si sviluppino senza un’idea prestabilita…

I miei romanzi sarebbero sperimentali. Non è proprio vero, non faccio sperimenti, ho scritto nell’unica maniera che mi è possibile. Iniziai a scrivere il Palmiro verso il 1955 subito dopo aver scritto la prima raccolta nel 1953, avevo raccolto nella sezione del partito comunista di Fermo molti manifesti non adoperati, scrissi sul risvolto di quei fogli quello che sarebbe diventato il Palmiro. Emigrai in Norvegia nel 1957 e dopo alcuni anni ritornando per le ferie estive a Fermo a casa dei miei genitori ritrovai quei fogli dimenticati. Ritornai ad Oslo, decisi di ricopiare tutto, riscrivendo tutto mi liberavo, era come se fossi in una continua catarsi, ricopiavo, scrivevo e riscrivevo ridendo continuamente tanto che mia moglie pensava che fossi ammattito. Come vedi nessuno sperimentalismo, scrivo nell’unica maniera che in quel momento mi era possibile, non posso scegliere una maniera di scrivere, scrivo nelle sola maniera che mi è possibile.

Il nucleo originario di Cristi polverizzati è costituito dai ricordi d’infanzia e giovinezza (un’infanzia mitica, assoluta, secondo l’espressione di Andrea Cavalletti su “Alias” del 10-10-2009), che si addensano in un corposo memoriale “stravolto da furia espressionista” (Massimo Raffaeli su “La Stampa-TuttoLibri” dell’1-7-2009), o vi sono ceppi romanzeschi diversi, di romanzi precedenti forse rimasti allo stato embrionale e cresciuti poi tutti insieme in un più grande progetto narrativo?

Cristi polverizzati ha una gestazione estremamente complessa, negli anni settanta a Fermo c’era un foglio “Garofano rosso”, e i dirigenti di questo foglio decisero di dedicarmi un numero con il mio contributo, nel numero del 9 marzo 1977 compaiono in “Garofano rosso” 27 poesie, che verranno ripubblicate nella mia terza raccolta Apprendistati del 1978, e un racconto che verrà ristampato in Cristi polverizzati, stampato quest’anno nella collana “fuoriformato” diretta da Andrea Cortellessa. Cioè questo romanzo l’ho iniziato negli anni settanta e l’ultimo capitolo che ho scritto è proprio quello all’inizio di questo romanzo. Ho lavorato in questa maniera: rileggendo quello già scritto mi veniva in mente di fare aggiunte e queste aggiunte potevano capitare alla fine o all’inizio e nel mezzo del romanzo e tutto questo veniva fatto per impulsi rapidi, poteva venirmi in testa di adoperare un brano che avevo destinato per un racconto per esempio. Tutto questo insomma non per scelta ma per impulsi veloci. Il numero di “Garofano rosso” con le mie scritte è molto bello, è accompagnato anche da una serie di fotografie di Luigi Crocenzi che erano state pubblicate nel primo dopoguerra sul “Politecnico” di Elio Vittorini.

Il riferimento costante alle matte scritture (Cristi polverizzati) mi fa pensare allo studio matto e disperatissimo di Leopardi. Tra l’altro l’incipit di Palmiro contiene memorie leopardiane: “Nella biblioteca c’era un infinito tutto scritto. Si poteva anche riscrivere tutto. Quell’infinito emanava un grande odore di sudore seccato: da questo enorme odore venne fuori l’espressione le sudate carte leopardiane”(p. 13). In generale si trovano molte citazioni di poeti e filosofi nei suoi scritti. A quali poeti e prosatori si sente soprattutto legato?

Ero giovanissimo, avevo fatto solo la quinta elementare e verso i quattordici anni mi capita tra le mani la Divina commedia, iniziai a leggere con continuo entusiasmo tanto da imparare interi canti a memoria a forza di rileggerli. Veramente sono stato sempre un grande lettore, con i compagni d’infanzia ci scambiavamo i libri i fogli i fumetti che riuscivamo a trovare, solo verso i quattordici anni mi imbatto nella Divina commedia, non fu certo questo libro a farmi iniziare a scrivere le poesie, nello stesso periodo leggevo Leopardi e Foscolo ma chi mi fece diventare poeta fu la lettura dei Lirici nuovi di Luciano Anceschi del 1942, trovato nella biblioteca di Fermo che frequentavo molto spesso. Ho scoperto il verso libero, poi in questi lirici nuovi non trovai un verso che dicesse della nostra vera vita, della nostra miseria e così nacque la mia prima raccolta Non possiamo abituarci a morire, che venne pubblicata per puro caso nel 1953. Avevo spedito ad una rivista di giovani una mia poesia e venni invitato ad un convegno di giovani poeti a Pontedera, non potevo recarmi a Pontedera perché non avevo una lira per il viaggio, parlando di questo con Luigi Crocenzi ebbi da lui i soldi per il viaggio. (Luigi Crocenzi  è conosciuto per aver illustrato con le sue fotografie una edizione di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini). Durante il convegno fu letta una mia poesia e all’uscita mi fermò Arturo Schwarz che mi disse che dovevo mandargli tutte le mie poesie, ho spedito la raccolta che aveva per titolo semplicemente Poesie per un vicolo, fu Franco Fortini a trovare il titolo definitivo: Non possiamo abituarci a morire.

Lei è stato più volte associato allo scrittore ceco Bohumil Hrabal, i cui personaggi, dal punto di vista di umili lavoratori emarginati, riescono a vedere la realtà in una luce insolita e straniata, carnevalesca e rivelatrice. Pure lei rivendica una posizione straniata ed emigrata (“… qui c’è solo l’abbacinazione per la mia condizione disoccupata e straniata che diventerà anche emigrata…”, Cristi polverizzati, p. 151). Riconosce questa somiglianza con Hrabal?

Disgraziatamente Hrabal non l’ho mai letto, anche Enrico Capodaglio mi disse di questo scrittore che non mi sono neppure preoccupato di cercare.

Nell’opera di Carlo Emilio Gadda la lingua non è mai accettata passivamente ma costantemente trasformata e reinventata (anche se Gadda lavora più sul lessico che sulla sintassi, mentre in Di Ruscio troviamo costruzioni ad sensum, anacoluti, una sintassi contorta e distorta, con frasi secondarie che si ribellano all’egemonia della principale, si sganciano e disarticolano, la lingua, sentita come carcere sociale e di classe, forzata il più possibile). Lei sente una vicinanza per esempio al Gadda del Pasticciaccio?

Gadda mi ha profondamente affascinato, lessi qui in Norvegia il Ducato in fiamme, soprattutto il racconto L’incendio di via Keplero, che considero uno dei capolavori della letteratura non solo italiana. Certo Gadda mi ha aiutato non certo ad imitarlo ma mi ha aiutato a rendermi più libero, nel senso che potevo andare oltre alla scrittura normale, potevo toccare anche argomenti scabrosi, insomma la lettura di Gadda mi diede vigore. Ho trovato Gadda in una biblioteca pubblica di Oslo, trovai uno scaffale di romanzi italiani, tutti i libri messi per ordine alfabetico, Bacchelli era il primo e mi lessi molti libri di Bacchelli, poi tutti gli altri, oltre a Gadda mi ha colpito anche un libro del fratello di De Chirico che in questo momento non mi ricordo come si chiama. Io di De Chirico ho appeso in cucina la riproduzione di un quadro metafisico che mi è caro perché mio figlio quando aveva quattro o cinque anni, indicandomi col ditino l’illustrazione, disse una cosa che non dimenticherò mai: “QUELLO E’ IL POSTO DOVE ERAVAMO PRIMA DI NASCERE”.

[questo è un estratto (la parte centrale) dell’intervista di Roberta Salardi a Luigi Di Ruscio (Cristi polverizzati), pubblicata sul numero 52 (aprile 2010) di Nuova Prosa (Greco&Greco)]

6 COMMENTS

  1. Ai compagni con cui ho lavorato
    per quasi una vita

    Questa notte vi ho sognato tutti
    splendidamente vivi
    ritornammo a rivedere
    tutti gli orrori di quel reparto ridendo
    non sono riusciti ad ammazzarci
    siamo ancora tutti vivi
    nuovi come fossimo risuscitati
    non più contaminati della sporca morte

    Luigi Di Ruscio, da POESIE OPERAIE

    C’è tutto, o quasi, in questa breve poesia “operaia”, emblematica non di UNA condizione OPERAIA ma DELLA condizione UMANA, ora, qui.
    E lo dico col cuore gonfio di vuoto e di dolore perchè se n’è andato dalla vita (in modo atrocemente volontario) un ragazzo di 20 anni. Un ragazzo come tanti, senza “voce ufficiale”. C’era tutto il paese vero al suo funerale, ma non lo straccio di un politicante, sordi e ciechi, consustanziali all’inferno in cui ci hanno precipitati…

  2. Un professore universitario mi manda le sue poesie, non erano male e gli scrissi che la poesia è roba di disgraziati, come disse Montale in una sua intervista, basta un pezzetto di carta e una matita per scrivere dei versi, è meglio che uno dedichi la propria intelligenza in qualcosa di più utile a se stesso e alla società. Sono stato proprio io a scoraggiare un giovane poeta proprio io che avevo scritto questo: “Non disperate, mettetevi a scrivere le poesie, ne ricaverete rilassatezza, felicità gestuale, leggerezza nei contatti con il prossimo vostro, sentirete la presenza degli Dei in prossimità della tua ombra, gioia lavorativa, aumento vertiginoso nella creatività in tutti i campi, sviluppo della personalità. Leggermente folle correrai verso tutte le sciagure, ti crederai inseguito da bande antiblasfemiche armate di mazze ferrate, sfuggirai ai pericoli con rapidissime fughe, potrai metterti a volare come niente fosse, diminuzione vertiginosa della rigidità muscolare e anche mentale, diminuzione dei mali di testa, sarai in preda a dolcissimi spasimi sessuali. Iscrivere poesie a occhi chiusi, sgranare frasi una dietro l’altra con la massima velocità sino al punto che la battitura segue perfettamente il ritmo delle pensate anche quelle più stravaganti, velocità massima nel concatenare libere associazioni, scrivere con la schiena bene appoggiata alla spalliera della sedia, tenere la testa non troppo reclinata sulla tastiera, da oggi tutte le ore sono le nostre mi disse un poeta, fa’ rimbalzare tutto sulla tastiera. Piove, nevica, suona il telefono alla porta tu inchiodato davanti alla tastiera della macchina da scrivere”.

    grazie.

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