Maledetti i Zorzi Vila!
di Chiara Valerio
Zio Cesio in Libia, zio Treves che dalla Francia era passato in Russia insieme a mio zio Turati, zio Temistocle (…) che dalla Grecia era passato in Jugoslavia, mio cugino Paride tra la Dalmazia e l’Albania nella milizia portuaria e i fratelli del Lanzidei tutti in guerra pure loro (…) mio cugino Ampelio, era con la marina in Cina, pensi lei, su un incrociatore in Manciuria. Non c’era una parte del mondo in cui non ci fosse gente dei Peruzzi che si stesse giocando la pelle. Il tono è quello di chi ti sta raccontando una storia. Apri gli occhi e ascolti. Resti fermo, impettito un poco, concentrato, con la schiena ritta, perché la storia è una scomoda e spinosa storia patria, dove c’è da ammettere, ad ascoltarla bene, che ognuno ha le ragioni sue, che Per la fame. Siamo venuti giù per la fame, altrimenti non si sarebbe mosso nessuno. Canale Mussolini (Mondadori, 2010) di Antonio Pennacchi è la storia della famiglia Peruzzi, che è nessuna famiglia, e quindi tutte, che dalla pianura ferrarese, e da chiari impeti marxisti, passa all’agro pontino, e a scuri indumenti d’orbace. Ma non è una storia che avanza per idee, per generali astratti, per masse, per processi economici e industriali. È una saga che lega persone, esitazioni, inimicizie giurate e nate per un pallone da bambini e che continuano, assolute come amori, per tutta una vita. È anche una storia di amore.
Per raccontare Antonio Pennacchi sceglie un punto di vista laterale ma non troppo, profondo ma non troppo, si protegge con un cunettone centrale di magra, detto anche savanella, si ombreggia di eucalipti. Per raccontare la nascita, la strutturazione, la fine e un poco pure la ritrattazione dell’idea di fascismo (prima che il gallo canti tre volte e gli americani che poi sono inglesi comincino a distribuire a tutti sacchi di farina bianca bianca) Pennacchi sceglie la storia del Canale Mussolini, rivo artificiale e spina dorsale della bonifica delle pianure pontine. Canale Mussolini è un romanzo, non ha intenti dimostrativi o didascalici, non fa apologia di reato, non mitizza un’epoca, non condanna e non assolve, non assume una posizione ideologicamente connotata rispetto alla materia trattata se non forse quella che perché ci sia se non democrazia, almeno uguaglianza, deve esserci ordine e l’ordine è qualcosa che dà a ogni uomo in base alle proprie necessità e possibilità. Racconta ironico e mai greve del giovane Mussolini che occhieggia le donne, dell’antipatia di Balbo, del Papillon di Rossari, di contadini prima uniti contro il padrone e poi sempre contro il padrone ma divisi in rossi e neri, nemmeno fossero scacchi. Di come la pianura padana, poi la palude pontina, poi l’Italia, poi l’Europa tutta, si sia traformata in una schacchiera insanguinata. Senza retorica, solo giovani uomini partiti e che non tornano a casa. Ora io non le voglio dire che questa è la verità di Dio. Questo è quello che diceva mio zio Cesio e io le posso dire solamente che mio zio Cesio il più giovane, quello che prima di partire studiava da geometra, non era uno che raccontasse balle, se diceva che lo avevano menato , lei può stare tranquillo che lo avevano menato. Poi se però lei mi dice che mio zio Cesio era più giovane di mio zio Iseo, e aveva ancora quindi più bollenti spiriti (…) e avrà risposto male agli inglesi – e allora quelli si sono fatti girare le scatole e giù botte – io questo non lo so e non le posso dire. “Ognuno gà le so razon” diceva sempre mio zio Adelchi, ma certo era un Fascist criminal Camp quello in cui stava mio zio Cesio in India tale e quale al Fascist Criminal Camp in cui stava mio zio Iseo in Kenya. Però a mio zio Cesio in India lo menavano e a mio zio Iseo in Kenya no. Questi sono i fatti e così glieli racconto.
Canale Mussolini è un racconto di terra, di bestie, di minuzie, di donne circondate e consigliate da api, come una favola, di uomini giovani, quasi bambini, che minacciano i preti col coltello, di rivoluzione e di dittatura. È un racconto di povertà nera, di figli fatti per lavorare i campi, di bambini mandati a spigolare dopo il raccolto per non lasciare niente o poco alle spigolatrici di professione, di vendette, di furbizie, di un bottone messo nei cappelletti di Pasqua, Natale e feste comandate per ricordarsi che la disgrazia è sempre in agguato, della meglio gioventù che finisce sotto terra, di Zio Pericle, l’eroe, che non torna dal continente nero come la camicia che porta nemmeno fosse a lutto, di zia Bissolata che quando parla avvelena come una biscia, di Paride che è bello e buono e manda tutto in rovina, di donne che amano uomini e uomini che amano donne e amano pure i fratelli morti in battaglia tanto da tornare e prendersi cura della moglie e dei figli che non sono i propri, come fossero i propri, Can d’un Turati, canetto mio, di piccole evasioni fiscali ai danni di uno stato distratto e per continuare a percepire la pensione di guerra, del podere cinquecentodiciassette, degli incendi appiccati per vendicarsi di altri incendi, di forza e di morte, di vita e di debolezze. È il racconto della vanagloria urbanistica, sociale, statale che avrebbe potuto funzionare, le cui intenzioni erano ottime, migliori, sane e talvolta pure violente. È un racconto di casualità e di pervicacia. Ludovica Koch, nel saggio su Beowulf, osservava che là dove c’è epica non può esserci tragedia, perché l’epica celebra l’eroe mentre la tragedia ne celebra la morte. Antonio Pennacchi, in un romanzo di guerra e di giovinezza (dove anche la vecchiaia è sempre stata giovinezza e così viene raccontata) nonostante gli eroi talvolta muoiano, costruisce un’epica coinvolgente, che per i toni, le ambientazioni la furia dei personaggi che mai è rabbia, mi ha ricordato Una terra chiamata Alentejo.
Fu un esodo. Trentamila persone nello spazio di tre anni – diecimila all’anno – venimmo portati quaggiù dal Nord. Dal Veneto, dal Friuli, dal Ferrarese. Portati alla ventura in mezzo a gente straniera che parlava un’altra lingua. Ci chiamavano “polentoni” o peggio ancora “cispadani”. Ci guardavano storto. E pregavano Dio che ci facesse fuori la malaria. Il mio preferito rimane Pericle Peruzzi, perché è biondo, perché è spavaldo, perché è fumino, perché sposa una donna che è tutta una seduzione, e che mentre aspetta un bambino cammina in mezzo a un campo minato per tracciare il percorso agli altri, perché un poco mi ricorda mio nonno che pure se è stato sette anni in Africa è tornato. Io non sono ferrarese, sono nata nell’estrema provincia di Latina e conosco da sempre quei posti descritti con il piglio scanzonato e necessario di Tom Sawyer e con un italiano inventato e increato che un poco echeggia le costruzioni parlate di Gadda e un poco non è altro che se stesso e che per tutte le pagine rimane una lingua riconoscibile, che segue e fa il ritmo della narrazione, che emoziona, strugge e infastidisce. Perché Antonio Pennacchi, con tutti i limiti e tutti gli eccessi, tutte le ossessioni e le distrazioni, è uno scrittore. E lo dico leggera, allegra, fiduciosa nella letteratura italiana e lo dico pure con qualche gratitudine, perché Canale Mussolini è un libro che mi ha fatto compagnia. E il Canale stesso, il punto di vista, è una metafora, umile e fattiva, di che cosa sia la scrittura, per sé e per gli altri. Qualcosa che non nasce da solo in natura e che pure ti permette di vivere in un posto, qualcosa che se per un motivo futile o mondiale viene distrutto, può essere ricostruito con le mani, con le intenzioni, con l’attenzione. Qualcosa che sta in qualche luogo prima di te e quindi con te e che rimarrà dopo di te e quindi anche grazie a te. E che ragionamenti sono, è chiaro che l’ho accorciata. Mica mi posso mettere a raccontare tutto quanto, particolare per particolare.
A. Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori (2010), pp. 460, eu 20,00.
Beh, questa recensione è un po’ meglio. Brava Chiara
Sono d’accordo con Alessandro Paris. A me la Stregatura di Belpoliti è parsa un po’ troppo punitiva. Non credo che Pennacchi ambisse a “raccontare la storia d’Italia dalla Prima guerra mondiale, e dalla nascita del Fascismo, al secondo dopoguerra”. Se si tralascia questa premessa (peraltro tutta da dimostrare), questo bel romanzo si legge con autentico piacere e dimostra (qualora ve ne fosse bisogno) il valore e il passo felice del Pennacchi narratore al netto – concordo con Chiara – di “tutti i suoi limiti e tutti i suoi eccessi”.
Grazie, Chiara.
Mi associo: recensione più consona al romanzo, a Pennacchi e ai suoi intenti.
Limiti ed eccessi io? Brutta marocassa anticispadana, aspetta che t’acchiappo, pòzza sprofonda’ tutta scauri.