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Battute per un cinema muto: Carlo D’Amicis

Nota di lettura
di
Francesco Forlani
su La battuta perfetta di Carlo D’Amicis

C’è uno strano film, del 1966, Due marines e un generale, diretto dal regista Luigi Scattini e che vede, come protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Strano perché ad un certo punto, con una parte tutt’altro che secondaria, scopriamo Buster Keaton. Il quale, nei panni di un generale della Wehrmacht, da gigante del cinema muto, non dirà una parola. Solo una battuta, insieme sorprendente per i nostri comici, e terribile, nel finale della scena proposta qui in ouverture: Thank you. Dice.
Due anni prima, nel 1964, Buster Keaton aveva interpretato, O, il personaggio protagonista di Film, unica prova cinematografica di Samuel Beckett che ne aveva firmata la sceneggiatura. Film, privo di sonoro, e con un’unica battuta: «Shhh!» che nella parte iniziale l’autore fa dire a una signora appena travolta da Keaton, per zittire il compagno che vorrebbe reagire. La fortunata formula di Berkeley, “Esse est percipi” era stata la parola chiave dell’esperimento, certo poco capito all’epoca, del grande drammaturgo irlandese: “essere è essere percepito, sentito, visto. E allora perché rinunciare al silenzio se il silenzio può farci sentire quello che sta accadendo? Se può darci l’illusione di essere percepiti?
La battuta perfetta, di Carlo D’Amicis (1964) si apre sulla troupe di Pasolini che sta girando a Matera, terra d’origine del protagonista, Canio Spinato, in quello stesso anno, il 1964, il Vangelo secondo Matteo.
Il padre di Canio, Filippo, che sarà assunto alla RAI pochi anni dopo,” faccia da stronzo, da democristiano”, quando da Roma riesce a tornare in famiglia, se ne sta rinchiuso nel suo studio. Al figlio che vive quel mutismo come un lutto, si limita a spiegare:
il silenzio è ascolto. Dicevi. ma io non sentivo niente. Il silenzio è verità. ma a me sembrava chiaramente una bugia.

Leggendo la battuta perfetta, ci rendiamo conto che a dispetto di tutte le parole spese dai personaggi, imperdibili, sia quelli di primo piano che quelli secondari, delle lingue del narrato, in primis il lucano, dei capitoli che potremmo definire di formazione di Canio, o il brianzolo quando ormai la sua vita tenterà il successo a Milano grazie alla corte dei miracoli del Cavaliere, l’oggetto della quête, non sia la battuta comica. Si ha infatti dal principio la sensazione che nella trama fitta degli eventi, di un romanzo a mio parere imprescindibile, il vero oggetto della ricerca sia la battuta da intendersi come replica con cui rispondere all’assordante silenzio in cui si è precipitati.
Perché la storia, da intendersi qui come destino individuale di ognuno dei personaggi, che si tratti della fedigrafa madre di Canio, degli zii, della compagna di scuola, Graziella, diventata nel frattempo il GIP incaricato di indagare sull’ascesa del Cavaliere, sì proprio Lui, si intreccia con quella del paese e del suo più fedele specchio. Perché storia della televisione, in Italia significa, innanzitutto storia del paese e questa storia è la storia delle grandi illusioni. Ognuno dei tre protagonisti, Spinato, padre, Spinato figlio, nipote, vive nella propria illusione con un passaggio di testimone che si fa con un rituale semplice quanto autentico.
Nella prima (fotografia) . ritaglio di giornale datato 18 ottobre 1984 , vengo immortalato nell’atto di colpire mio padre con un calcio all’altezza del coccige (diciamo pure un calcio in culo). Nella seconda, molto più recente , sei tu figlio, all’incrocio tra Via Agonale e Piazza Navona, circondato da altri giovani in mimetica e passamontagna, a infliggermi una scarpata in faccia.

Della genealogia dei tre calci in culo, perchè possiamo ipotizzare che la catena non si interromperà, non diremo perché. Sarebbe come rivelare qualcosa che il lettore avrebbe sicuramente voglia di svelare da solo.
Allora come uscire dal gioco dell’illusione senza spezzare il rumore di fondo che il silenzio della nuova società italiana sta creando intorno a sé grazie a quello straordinario strumento di distruzione di massa che è la televisione? Quando Filippo Spinato inizia la sua carriera alla Rai come un fisico alle prese con l’energia atomica è pertanto convinto, illuso che quella scatola potrà rendere migliori le persone con le campagne di alfabetizzazione e di accesso alla cultura.
Infatti lo vediamo subito all’opera insieme al maestro Manzi per insegnare agli italiani di ogni età e ceto sociale che non è affatto tardi per imparare a leggere e scrivere. Certo non poteva immaginare che una volta creati i contenitori li si sarebbero riempiti non di pagine di classici greci e latini, ma di immondizia del culturame e dei cosiddetti beni di consumo.

C’è un passaggio illuminante al principio della fine delle illusioni di Spinato padre. durante un colloquio con il dottor Mordacchia, dirigente Rai, alla domanda : Lei lo sa , Spinato, qual’è il nostro programma di punta? ” dopo aver sbagliato la risposta si sente “spifferare tutto d’un fiato,: segnale orario. E dopo?- riprende il solerte funzionario ” Che tempo fa. Edmondo Bernacca. E’ con queste cose, Spinato, che ci giochiamo tutto!.
Spinato padre proprio non ce la fa a capire. Forse è una battuta, e allora perché non ne ha colto ogni sfumatura? L’interlocutore se ne accorge e qui Carlo D’amicis incalza il lettore, nel ritmo che solo la consapevolezza della situazione può far dire. “Non mi prenda per cinico , ma se il telegiornale sostiene che la bomba alla stazione centrale di Milano l’hanno messa gi anarchici o i fascisti a noi poco ci importa. tanto la verità non la saprà mai nessuno. e se pure venisse fuori – sa cosa le dico- per la stragrande maggioranza della popolazione, per i nostri figli soprattutto non cambierebbe niente. Per verificare se una previsione del tempo è esatta, invece basta alzare la mattina gli occhi al cielo. Chiunque può stabilire se diciamo o meno la verità.

Ma allora se bastasse veramente affacciarsi alla finestra per vedere, sentire, che nulla è vero di quello che quotidianamente ci dicono i telegiornali, i reality, i comizi dei politici, com’è che nessuno vede, sente, la grande truffa in atto e non reagisce? Forse è già troppo tardi.
Una risposta sembra darcela proprio Canio, che per quanto criticabile, irresponsabile, colluso, non riesce a staccarsi dall’affetto del lettore, come se tra lettore e personaggio si fosse scoperta una malattia comune, quando, sulla soglia di una verità terribile da scoprire, sbotta dicendo: se non sai dare un nome alle cose, le cose non esistono..
Ma le cose esistono se non si possono raccontare?
Se crediamo alla parola di Carlo D’Amicis, sembrerebbe che niente, nessuno, potrà rinunciare al racconto senza portare ogni cosa al nulla, alla fine, perché solo il ricordo, ovvero il racconto possibile, sempre e ovunque di quello che è stato, potrà dirci che le cose, ogni cosa è davvero esistita. Non a caso il romanzo si chiude sull’immagine delle Teche Rai,dove andrà a lavorare il nostro, epilogo la cui definizione, in una Garzantina recita : “Grotta, antro da rigattiere, luogo di irrequietudine”.
Lo stesso luogo che Pasolini aveva in fondo cercato, tra i sassi di un universo popolato da voci di un autentico silenzio.

34 COMMENTS

  1. La parte di Buster Keaton nel film di Franco e Ciccio (che avevo vista da ragazzino e che da adulto rivedo sempre volentieri) è un vero canto del cigno per il grande attore. Il film di Beckett, per chi volesse rivederlo, è qui :
    su Ubuweb 2010, oppure cliccate sul mio nome, appare il mio sito; nella colonna a destra, proprio nell’ultima riga, appare il link col Samuel Beckett’s Film (1965).
    Buona visione e merci a effeffe per la stimolante nota sul libro di D’Amicis, che vedrò di leggere durante l’estate.

  2. “Perchè essere difficili,quando,con un minimo sforzo si può diventare impossibili?” dice Buster Keaton.
    Grande,forse impareggiabile, forse unico eroe dei nostri tempi.

    Effeffe, bisogna individuarne una mezza dozzina, di eroi come B.K.
    Questo libro non me lo perdo. Grazie per la segnalazione. Beautiful recenzione.
    Segnalo una perla.
    ChRONICLE OF WAR- film 2007 su 2 guerra mondiale .Vedere per non credere. Non vedere per credere.Credere per non vedere.Vedere per credere.INCREDIBILE OGGETTO SHIT SUPERIOR:o sublime?

  3. ciao a tutti,

    il libro è piaciuto molto anche a me: confesso qui lo stupore per come d’amicis sia riuscito a ricostruire, dispiegare e condensare buona parte della storia italiana – dello spirito del popolo italiano – ricorrendo alle fasi, ai mutamenti, ai personaggi della storia della televisione italiana, pubblica e privata.

    ma la cosa che rende prezioso questo romanzo è aver rappresentato in maniera folgorante e compiuta un’intuizione che appare in tanti studi e analisi delle comunicazioni di massa, ma che ancora, vuoi per il potere dei luoghi comuni, vuoi per l’economia dei neuroni impiegati, fatica ad uscire fuori e contaminare la percezione delle cose: la televisione non è tutto il male possibile, tantomeno l’oggetto magico se non demoniaco che ha permesso lo sciogliersi ed il parcellizarsi della società e dei suoi valori. i personaggi del romanzo – filippo spinato (l’incarnazione di buona parte della paleo e neotelevisione, tanto per citare eco) e canio spinato (la metafora esasperata e grottesca della reality tv) – sono tipologie umane che preesistono al piccolo schermo.

    la televisione qui non sembra far altro che catalizzare, velocizzare, far esplodere fino alle estreme conseguenze modalità di agire e di pensare che in qualche modo erano già nell’aria. la televisione è sì fonte di cambiamento, lo sappiamo bene, soprattutto cambiamento delle modalità percettive e valoriali dello spettatore, ma soprattutto ed in modo velocissimo un accelleratore di cambiamento. la televisione è insieme specchio e motore degli spostamenti di valore – e muta, anticipa, segue e riformula le forme della rappresentazione mediando e lavorando parte dei fenomeni che comunque accadono fuori dai suoi regimi di visibilità.

    dire che la televisione “è un’arma di distruzione di massa” non basta davvero. uno, perchè presuppone che lo spettatore sia una tabula rasa e basti l’esposizione alle rappresentazioni dello schermo per assorbire e ricalcare le posisioni percettive e valoriali della televisione, qualcosa a metà tra automa e burattino. due, perchè sembra un lavarsi le mani rispetto ai cambiamenti sociali, come se noi in quanto esseri umani non avessimo nessuna responsabilità, e paradossalmente seguendo questa impostazione basterebbe elimare dalla dieta mediale la televisione per cambiare lo stato delle cose. tre, perchè gli effetti sociali dei media non sono immediati, ne sembrano sempre perseverare il binomio causa-effetto (uno dei più grandi indagatori delle trasformazioni sociali dovute ai media, joshua meyrowitz, nel suo “oltre il senso del luogo”, rielaborando tanto mcluhan tanto goffman, ha infatti chiarito che i media elettronici hanno interferito nei cambiamenti sociali non tanto per il potere del messaggio veicolato, ma per la riorganizzazione degli ambienti sociali in cui le persone interagiscono, indebolendo il rapporto tra luogo fisico e sociale, erodendo mura e barriere tra le comunità sociali, tanto che alcune prese di coscienza del mondo femminile o delle minoranze sono state possibili per esempio e paradossalemente assistendo alle soap opera degli anni settanta).

    a presto

    giuseppe

  4. ah, dimenticavo:

    c’è una frase bellissima, ne “la battuta perfetta. questa, p.176:

    “i nostri padri non sono in cielo. se sono in terra, subito la terra si fa fango. eppure continuiamo a cercarli, come se non potessimo mai smetterla di sentirci figli”.

    mi è sembrata bellissima – sia per la formulazione, sia perchè mette in luce qualcosa che emerge sempre più nella narrativa italiana contemporanea. non tanto il rapporto padre-figlio, che è una costante della letteratura mondiale. quanto l’attenzione per il delicattissimo momento di passagio in cui il figlio diventa padre, e si accorge di diventarlo.

    credo che la cosa discenda dall’aver interiorizzato quanto disse tempo fa il caro vecchio david foster wallace:

    “Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.”

    e credo pure che le questioni della scrittura in qualche modo si leghino a ragioni anagrafiche, non è un caso che molti degli scrittori che abbiano questa idea ossessiva abbiano tra i trenta e i quarantanni.

    però credo sia necessaria e fondamentale, tanto per la scrittura stessa, tanto per la società in cui gli scrittori vivono: perchè oltre a tutto ciò che della figura paterna abbiamo capito leggendo freud, deleuze, foucault, lacan, una cosa è chiarissima. il principio di responsabilità. fare figli, diventare padri, e uno dei momenti più alti e immediati in cui il principio di responsabilità s’incarna. e se per tutto questo tempo proprio questo è successo – vivere come figli a tempo indeterminato, cercare padri e maestri senza trovarne alcuno – diventare padre è la migliore occasione per smuovere il fondo paludoso di questi anni. vivere, e vivere nel pieno della propria responsabilità, è questo che muoverà le cose.

  5. caro Giuseppe, quello che dici, sia nel primo che nel secondo commento, mi pare pertinente, rispetto al libro e anche per quel che riguarda lo skazz geist che viviamo. Tuttavia non condivido alcune tue posizioni, più particolarmente due.
    Quando scrivi:

    “dire che la televisione “è un’arma di distruzione di massa” non basta davvero. uno, perchè presuppone che lo spettatore sia una tabula rasa e basti l’esposizione alle rappresentazioni dello schermo per assorbire e ricalcare le posisioni percettive e valoriali della televisione, qualcosa a metà tra automa e burattino. due, perchè sembra un lavarsi le mani rispetto ai cambiamenti sociali, come se noi in quanto esseri umani non avessimo nessuna responsabilità, e paradossalmente seguendo questa impostazione basterebbe elimare dalla dieta mediale la televisione per cambiare lo stato delle cose. tre, perchè gli effetti sociali dei media non sono immediati.”

    Per arma di distruzione di massa ho in un passaggio precedente usato un azzardato paragone, tra televisione e nucleare. Dire arma di distruzione di massa (o di costruzione di massa il che vuol dire la stessa cosa,) significava per me valorizzare le due missioni televisive rappresentate da Spinato figlio e Spinato padre. Esemplare da questo punto di vista il passaggio in cui catapultato sul set di una sorta di drive in o chi per esso, lo Spinato comico si inventa suo malgrado il personaggio trash che farà la fortuna di Ricci e company. Ha appena vomitato su Moana Pozzi, e la troupe intera, Ricci compreso grida al miracolo!
    ” Grande! Guy Debord allo stato puro!
    Io, figlio, (aggiunge spinato, chi fosse Guy Debord non lo sapevo, nè mi interessava più di tanto sapere fino a che punto facessi schifo. Ciò che contava era che quello schifo coincidesse col sublime”
    Sai Giuseppe, a conti fatti, mi sembra che non si possa non prendere atto di questa trasformazione. Qualche giorno fa tra un tempo e l’altro, c’era una pubblicità sulla salvafoufunne, di un’elegante signorina che finalmente risolveva il problema della perdita d’urina. Come una macchina l’olio, un lavandino guasto, una cosa, appunto. Che la televisione, media, trasformi tutto in cose, cose che si possono vendere e acquistare, cose buone, e meno, dal mondo è un dato di fatto. Certo , questa televisione (che non è la stessa di mac Luhan nè di Pasolini e Debord) sta diventando altro. E non sappiamo se sarà migliore o peggiore. Youtube ne è un eccellente esito, para mi, per esempio, che trasmette, su semplice domanda, uno spezzone del maestro Manzi, facendolo rimbalzare su Facebook o su un noto blog letterario.

    Per il secondo commento. Molto naif del resto, se pensi al tipo di comunità a cui ti rivolgi. Certo che viviamo una situazione già descritta una decina d’anni fa da Peter Sloterdijk , quando parlava di convergenza tra “l’ultimo uomo” senza progenie, e consumatore finale (quello che in pratica si può sputtanare tutto il patrimonio ereditato o costruito senza trasmetterlo ad altri)
    In un’intervista troviamo cotest:

    “Chaque individu vit sa vie comme s’il (ou elle) voulait dire : “Je suis content d’être le dernier homme, la dernière femme. Si le monde devait s’arrêter après moi, j’aurais été consommateur de ma vie, un consommateur final, ce qui signifie que j’aurais profité de mes chances jusqu’au bout et que je ne me pose pas la question de savoir s’il y aura des êtres humains après moi qui auront comme moi la chance de consommer leur vie.” Le dernier homme et le consommateur final sont dans une convergence profonde.
    .
    Verò è però che io, cioè proprio io al pari di molti miei coetanei (o più anziani) che non hanno messo su famiglia, posso sentirmi parte di una tradizione e non certo espressione di un mutamento. In fondo a quarantatre anni non ho figli come figli non ne avevano tanti ben prima di me, e molti dopo. No? Se bastasse davvero fare un figlio per diventare padri, credo che non saremmo al punto in cui siamo. Ho incontrato nella mia vita molti padri che di figli non ne avevano affatto. L’ultimo, per esempio, Milan Kundera.
    effeffe

  6. ciao effeffe,

    credo anch’io come te: la trasformazione c’è stata, (a queste ne sono seguite altre, altre ancora seguiranno), ne prendo atto, e come te cerco di capire come e perchè mai. non a caso ho scritto che i media, in questo caso la tv, sono specchio e motore dei cambiamenti sociali. e proprio per questo rifuggo qualsiasi teoria che non tiene conto della complessità dei fenomeni sociali se non estetici, e appiattisce le possibili spiegazioni su scorciatoie di pensiero più facilmente percorribili.

    è vero: la tv, nella figura dei due personaggi del romanzo, cambia modalità e missione. paradossalmente un mezzo di (in)formazione è a sua volta (in)formato. logiche e modalità di pensiero esterne al mezzo presiedono al funzionamento del mezzo. anche se, e lo sappiamo bene, i media non sono affatto neutri, e nel momento in cui vengono guidati, a loro volta e in maniera sottolissima corrodono, trasformano, dirottano le linee guida in modo del tutto imprevedibile.

    a questo punto consiglio due libri secondo me fondamentali per capire la questione:

    – oltre il senso del luogo, l’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, di joshua meyrowitz, baskerville editore;

    – i linguaggi dei nuovi media, di lev manovich, edizioni olivares.

    riguardo alla paternità, hai ancora ragione, ed è parte di quanto pensavo: non è solo una questione biologica, ma uno dei possibili modi di stare al mondo. e in questa figura coabitano tanto un senso rigenerativo del mondo quanto un senso protettivo del mondo.

    per esempio, ne “la battuta perfetta” questo anello salta. c’e la generazione ma non c’è la cura, e questo illumina bene la deriva tutta italiana e il mancato passaggio di consegna tra padre e figli.

    invece, leggendo “la strada” di mccarthy, (mi dicono anche “l’uomo verticale” di davide longo, ma purtroppo ancora non l’ho letto), questo anello rimane e si rafforza nel corso degli eventi, rendendo così possibile la speranza utopica nel migliore dei mondi possibili.

    giuseppe

  7. salvo impedimenti domani verso le 19 dialogherò con Carlo intorno al suo libro. Naturalmente siete tutti invitati a partecipare, se volete, attraverso lo spazio commenti
    effeffe

  8. Come annunciato ieri proveremo insieme a Carlo D’Amcis a dialogare sul suo ultimo romanzo prendendo spunto anche dalle cose dette finora. Carlo ci sei?

  9. Ciao Francesco. Prima di tutto grazie della recensione, che guarda (e mi fa guardare) al libro con quellala prospettiva, obliqua e tridimensionale, che rende ogni intervento critico una “narrazioen di narrazioni”, come direbbe Pasolini. E grazie anche agli altri che sono intervenuti, a cominciare da Giuseppe Zucco. Io sono qua!

  10. in una intervista di qualche mese fa, e che uscirà domani su NI, a peter sloterdijk, a un certo punto lui parla di questa necessità di guardarsi non più come individui isolati ma come una generazione che riesca a compiere una mediazione tra la generazione precedente e quella che seguirà. Nel tuo libro questo posizionamento da mediano di Canio Spinato mi sembra fondamentale

  11. E’ una sensazione che diventa più precisa a mano a mano che lavoro sulla scrittura: la letteratura è il luogo dei conflitti. Non c’è storia, né narrazione, senza uno scontro: e i rapporti generazionali, inevitabilmente, sono scontri! Inoltre trovo acuta, e solo apparentemente ovvia, l’idea della mediazione: si parla sempre di padri-figli come di una dialettica dai ruoli definiti e immutabili. Ma i padri sono stati figli, e i figli saranno padri (o almeno, in un modo o nell’altro, faranno i conti con la genitorialità)! Canio Spinato è un “eterno figlio”, ma la sua sfida, immane e perdente, è quella di diventare (a modo suo) un padre diverso da quello che ha avuto…

  12. la sensazione che ho avuto leggendolo , è che abbia richiesto molto tempo, come se tu avessi avuto da tanto, voglia di proporre una narrazione per cose successe su un arco di tempo assai ampio visto che il romanzo copre praticamente mezzo secolo, Per mettere a punto questo progetto quali sono stati gli arnesi del tuo atelier? Un posto sicuramente importante l’hai dedicato alla ricerca dei linguaggi con cui raccontare questo pezzo importante della nostra storia

  13. Sì, per scrivere un romanzo devi stare là con la lampada a illuminare la pagina; ma sono i corti circuiti a fornire (anziché disperdere) l’energia davvero necessaria. In questo caso il corto circuito è scattato tra le mie emozioni personali (diciamo pure il mio vissuto) e questa Italia apparentemente così lontana e diversa dal clima etico, dignitoso e forse anche austero in cui sono cresciuto. Voglio dire che, a un certo punto, ho capito che il berlusconismo, con il suo “pattume”, in qualche modo mi riguardava. Che c’era un punto d’origine (come tu scrivi antecedente anche alla televisione commerciale, ma che le TV di Berlusconi hanno colto appieno) in cui il mio bisogno infantile, e poi adolescenziale, di rompere il silenzio, di non sentirmi escluso, di partecipare “alla festa”, specchiava, seppure deformato, il bisogno di piacere su cui Berlusconi ha fondato il suo consenso. C’è una ferita narcisistica, troppo a lungo trascurata, che ha generato un’infezione: tutti devono piacere a tutti…

  14. ho sempre pensato che il mondo della radio stesse a quello della televisione come il teatro al cinema. a proposito di vissuto che si intreccia con le narrazioni, la tua esperienza maturata in radio quanto ti ha aiutato, o inibito nell’esplorazione dei dispositivi legati all’altro mezzo? e sempre a proposito di vasi comunicanti è stato quanto meno straordinario il modo in cui hai travasato la tua infanzia pugliese in quella lucana regalandoti un’origine materana così verosimile come mi ha fatto notare un giovane poeta lucano, Nunzio Festa

  15. Ma, sempre a proposito di conflitti, forse c’è un’unica idea di meridionalità che si contrappone al resto del mondo. Il Sud, almeno quello anticonvenzionale a cui sto pensando, è sempre polverosa e primitiva origine del mondo (e quindi delle storie). Del resto, quanto a primitivismo e polvere, Matera non la batte nessuna…Che ne dici?…In fondo, in questo senso, si può dire che anche la radio (alla quale lavoro da tempo) sia Sud: o che almeno stia alla tevisione come il mezzogiorno del mondo sta ai paesi industrializzati…

  16. il romanzo ha avuto una meritata eccellente accoglienza tra i lettori. Mai come per questo tuo libro ho avuto la sensazione che il lettore stesse sulla pagina un po’ come lo spettatore in copertina su cui si concentra il raggio di luce del televisore. come ultima battuta di questa nostra chiacchierata. che cosa ti auguri per questo tuo libro, cosa desideri che provochi nei tuoi lettori?

  17. Mah…ho già una certa età e qualche libro alle spalle, ma che il mio mondo possa intercettare lo sguardo di qualcuno mi sembra sempre un evento straordinario, improbabile…Non voglio apparire snob, e tanto meno (falso) modesto, ma continuo a pensare alla scrittura come a un discorso intimo che il narratore racconta principalmente a se stesso: ovviamente questo non vuol dire guardarsi l’ombelico (anzi, è il mondo e la mia relazione con esso che mi interessa), né ignorare tutto ciò che c’è tra la scrittura e l’oggetto libro (e oltre). Ma alla fine, più di ogni altra cosa, scrivere un romanzo per me significa provare a incontrare me stesso in un territorio diverso da quello in cui mi ritrovo abitualmente, e con un linguaggio diverso, più provocatorio e profondo. A ben vedere, poi, questo è anche quello che mi accade da lettore: con i libri degli altri non mi interessa imparare qualcosa a proposito chi l’ha scritto, e forse nemmeno aderire necessariamente alla sua visione del mondo, ma capire meglio qualcosa di me: è come se da lettore “riscrivessi” i libri che leggo. Quando questo processo è nitido, forte e coinvolgente, quando leggo un libro come se fosse “mio”, vuole dire che sto amando quel romanzo. Quando, semplicemente, ascolto una storia e ne rimango fuori, posso apprezzare il racconto, ma quella storia…”non sono io”. Ecco, forse è proprio questo che spero accada a chi legge “La Battuta Perfetta”: essere Canio, Filippo Spinato, o gli altri personaggi del libro, esserci dentro, esserci come attori-autori di questo romanzo…Vabbé, per ora grazie, Francesco. Se vuoi, o se altri vorranno, ci sentiamo nei prossimi giorni.

  18. ciao a tutti,

    mi spiace non aver potuto prendere parte al dialogo ieri sera, leggo solo ora – però mi sembra una buona idea questa, associare a una recensione un momento in cui scrittore e lettori possano incontrarsi e confrontarsi sincronicamente.

    così, anche se fuori-sincrono, volevo chiedere una una cosa a carlo d’amicis (tra l’altro, ci siamo incontrati qualche giorno fa alla presentazione del romanzo a milano, alla libreria centofiori, ero quel ragazzo che ti aveva chiesto se la tristezza che pervade il romanzo, così bene evidenziata da belpoliti, fosse in parte dovuta alla conoscenza diretta degli ambienti televisivi).

    alla fine, il romanzo è una piccola saga familiare. anzi, stringendo proprio all’osso, il romanzo si avvera nel nome del padre: è la stilizzazione di una linea di sangue che passa dal padre al figlio al figlio del figlio. le madri stanno in disparte, il rapporto tra padri e figli emerge per contrasti e conflitti sottilissimi ed evidenti, un confronto che raggiunge l’apice edipico di un calcio assestato dai figli sul volto dei padri. eppure i padri sopravvivono, non muoiono, restano vivi nella trama della storia come fantasmi persistenti che perdono la memoria e richiedono la cura dei propri figli – un po’ come la divertentissima parentesi narrativa dell’appartamento di filippo spinato che non sarà mai di sua proprietà fino a quando andreotti non muore, altra figura metaforica e patriarcale che sopravvive ed impone la sua presenza, il peso della sua presenza. solo che non c’è passaggio di consegne. c’è vicinanza, convivenza, una paradossale forma di affetto, ma non c’è alcuno scambio, nessuna fiducia nel possibile scambio di ruoli e posizioni tra padri e figli.

    ecco, detto questo, mi piacerebbe sapere se d’amicis ha calibrato la propria storia considerando anche l’evoluzione generale e tutta italiana della figura del padre, se è consapevole del lavoro sincrono che altri scrittori italiani contemporanei stanno compiendo sulla figura del padre, (ricordo adesso che anche “le rondini di montecassino” di helena janeczek è un romanzo che rielabora la figura del padre come anello di congiunzione tra verita, menzogna, comprensione della storia), se l’idea di narrare una storia di padri viene dalla conoscenza dell’ultima letteratura italiana o per aver captato una sorta di spirito del tempo.

    grazie

    giuseppe

  19. @effeffe

    caro francesco, effettivamente, se clicco sul mio nome dopo aver postato il commento, non c’è più il rimando al mio blog, come avveniva prima, ma escono varie mascherine. E ciò accade solo qui, non in altri blog dove scrivo. Non so da cosa dipenda, perchè mi sto appena alfabetizzando in questo linguaggio.
    Ti sarei grato se mi dessi un po’ d’informazione o se tu potessi por rimedio all’inconveniente da lì.
    Scusa a te e a tutti per l’OT.
    Intendo prima leggere il libro di D’Amicis e poi eventualmente raccogliere il vs invito a interagire nel thread dei commenti.

  20. Ciao Giuseppe, felice di ritrovarti qua. Sulla questione dei padri penso dica molto il brano di David Foster Wallace che ha inserito in uno dei tuoi precedenti interventi, e che ho riletto da poco nella nuova edizione dell’ “Assalto a un tempo devastato e vile” di Giuseppe Genna. C’è un sincronismo forse involontario, ma devastante, a cui hanno contribuito il protezionismo dei nostri genitori, il rito liberatorio del tubo catodico, la paralisi economica e sociale che ha reso l’Italia “un paese per vecchi”: di fatto siamo ancora là ad attendere l’arrivo dei “grandi”, raggelati dalla sensazione che non torneranno, impotenti davanti alla prospettiva di diventarlo (come scrive giustamente FF, non basta avere un figlio per sentirsi padri). Non so, penso che questo impasse sia molto di più di una semplice crisi “da mezza età”, o di una sindrome da Peter Pan: ci sono un paio di generazioni, ormai, che (sì, lo testimonia anche la letteratura, perfino con la sua ricerca di epicità) si guardano indietro per non sapere come andare avanti, e provano a ridisegnare se stessi attaverso la ricreazione mitica di un’età dell’oro, chissà se mai davvero vissuta, in cui padri che sembravano scolpiti nelle querce camminavano accanto ai figli fino alla linea d’ombra, e ne benedicevano il passaggio. Qualcosa, nei pressi di quella linea, è andato storto…

  21. ciao carlo,

    quando si dice la telepatia! ho letto “assalto a un tempo devastato e vile” proprio prima di leggere il tuo romanzo, e oltre a trovare la risposta di david foster wallace, che ormai vaga liberamente per la rete, ho trovato anche il capitolo che giuseppe genna dedica ad una bambina piccolissima nel capitolo “pulsazioni della vocazione a padre”, e lì è scatta la scintilla delle associazioni di pensiero…

  22. “… Qualcosa, nei pressi di quella linea, è andato storto…”
    Forse l’aver ostinatamente continuato a pensare, da parte delle generazioni affluenti, che il mondo ( e per mondo intendo tutto) incominciasse proprio allora, con le generazioni affluenti, senza un prima e senza un dopo; e aver continuato a pensarlo ben oltre “la linea d’ombra”. Il blob dell’eterno presente dato dalla fortissima accelerazione massmediatica non ha fatto altro che rafforzare questo falso pensiero. Ma il fatto che se ne cominci a prendere atto è un buon segno, però. L’altro passo è “guardare indietro” (vedi lettera di Sebastiano Vassalli) per imparare a “leggere” il presente e guardar meglio nel futuro.

  23. però non credo che la letteratura italiana contemporanea stia ridisegnando chissà quale mitica età dell’oro. piuttosto credo, in via del tutto immaginifica e allegorica, che la letteratura indichi un ritorno alla responsabilità incarnata nella figura del padre, una responsabilità collettiva e individuale, supplendo alla completa deresponsabilizzazione della classe dirigente italiana, politica e non.

    e la cosa mi ricorda il finale di un altro libro, “non è un paese per vecchi”, di mccarthy (aspetta che lo trascrivo)…

  24. …se ne ricaverà una lezione molto importante che “le età dell’oro” (metaforicamente parlando) molto spesso sono un mito. Ciò che resta è l’io (individuale e collettivo) davanti alla realtà che gli è data di vivere e l’ agire in e su di essa con la miglior consapevolezza possibile…Ma sarà poi così? Boh!

  25. “dopo che è morto [mio padre] ho fatto due sogni su di lui. il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in città da qualche parte e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. ma nel secondo sogno era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, io ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. attraversavo un passo in mezzo alle montagne. faceva freddo e a terra c’era la neve, lui mi superava con il suo cavallo e andava avanti. senza dire una parola. continuava a cavalcare, era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa, e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi, e io vedevo il corno alla luce della fiamma. era del colore della luna. e nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi. e poi mi sono svegliato”

    (non è un paese per vecchi, cormac mccarthy, pp. 250-251)

    ecco, qui, in questo bellissimo passaggio, mccarthy non solo anticipa la scrittura futura di “la strada”, ma piuttosto indica chiaramente cosa sta facendo la letteratura italiana oggi: riporta a galla la figura del padre.

    padre che è insieme rigenerazione del mondo e cura del mondo. padre che i lettori sognano ad occhi aperti leggendo i libri, e che poi cercano, o cercano di essere, qui e ora, quando assumersi le proprie resposabilità sembra un gesto tragico e anacronistico – il realtà, la piccola grande cruna dell’ago della storia in cui passerà il nostro futuro.

  26. caro Giuseppe
    secondo me non è così.anzi trovo che più i padri facciano confusione più il silenzio delle madri si faccia ascoltare. Trovo infatti che “il femminile” sia tutt’atro che “presenza faible” nel romanzo di Carlo. la madre di spinato canio è tutto, per esempio. Spinato Padre è convinto di essere l’uomo giusto per lei, e spinato figlio vuole piacere a tutti i costi al mondo (e farlo ridere) perché voleva piacere e far ridere principalmente lei. E poi parlare di un’emergenza della figura del padre nel romanzo italiano di questi ultimi anni, a mio parere è fuorviante. Come dire che i romanzieri italiani scoprissero “la famiglia” solo ora. Perché torno a ripetere, secondo me la battuta perfetta è la storia della famiglia spinato, la storia della grande famiglia (RAI),con tutto quello che di buono o malamente succede in essa). Insomma questo per dire che secondo me i romanzieri, almeno loro, non reclamano uomini forti :-)
    effeffe

  27. nessun reclamo di uomini forti, francesco. piuttosto di uomini e donne responsabili, questo sì. e questa responsabilità per me dovrebbe essere una dote diffusa e collettiva, mica la medaglietta appuntata sulla giacca blu di un qualsiasi leader, o quasi leader, e men che meno forte e leader…

    giuseppe

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017