In lungo e al largo
di
Roberto Bugliani
La Gang suonava Comandante e lui rammentava i murales della Realidad. Lo sguardo profondo e interrogativo dei due volti giganteschi dipinti sul muro della scuola dal tetto di lamiera devastato dalla sciaguarata incursione di Lolita de la Vega, da Angelo prontamente ribattezzata Lolita de la Verga, scrutava un po’ stupito il gruppo di visitatori.
Lolita era discesa sul villaggio a bordo dell’elicottero di Tele Azteca con l’arroganza d’un conquistatore d’altri tempi, e lo spostamento d’aria provocato dalle pale del rotore aveva abbattuto un albero e scoperchiato il tetto della scuola, mentre alcuni pezzi di lamiera erano schizzati via ferendo alla testa un bambino indigeno.
Ma loro, sembrava domandare lo sguardo severo dei due jefes guerriglieri, in quel villaggio dove un ritmo diverso scandisce il battito del cuore di chi non ha nulla se non dignità e ribellione, loro cosa erano venuti a cercare? Quale stillicidio di passioni, quale labirinto di specchi li avevano sospinti fino a lì in una sorta di blitz annunciato e quali grumi di rovelli speravano di disciogliere al calore estenuante della selva i dodici europei? Il vento, un vento fanciullo nato tra i rami frondosi della vecchia ceiba, aveva preso a spettinare pensieri ed emozioni, incerto se mutarsi in procella o posarsi in agguato sui fili reclinati dell’erba, e nella tregua studiava la smaniosa impazienza che tradivano i visi dei visitatori.
Naturalmente i poliziotti della Migra con i loro sguardi sospettosi e le loro maniere sbrigative li avevano fermati per un controllo circa una decina di chilometri prima della loro destinazione segreta. Ma la combi che li trasportava era in regola, e anche loro, turisti inconsapevoli desiderosi di visitare uno spicchio di foresta, lo erano. Almeno fino a quel momento. Poi avrebbero rischiato l’espulsione per essersi intromessi nelle faccende politiche del paese.
L’allestimento del lungo tavolo d’assi, il recupero delle sedie e la preparazione della cena li impegnò più del previsto. Erano stati lasciati a sbrigarsela da soli nell’area riservata agli osservatori occidentali. Quindi lo stonato e allegro sfrigolare di canzoni durante la sobremesa rinviò al giorno successivo il rosario delle domande.
L’alba si levò che il sole era già vecchio per gli abitanti del villaggio, nei campi le pannocchie di mais erano in piena maturazione e loro si dovettero spicciare perché il viaggio di ritorno sulla combi malconcia si prospettava lungo e snervante.
Le bocche sbadiglianti di dodici zaini accolsero nel più totale disordine indumenti, posate, amache, libri e le coloratissime tovagliette di cotone acquistate la sera prima dai bambini del villaggio, sulle quali le donne indigene avevano ricamato la fierezza del loro popolo. E nel ventre oscuro degli zaini ci finì anche, non si sa se deliberatamente o per negligenza imputabile alla fretta, la sfilza di domande mai formulate dei visitatori abituati ad avere una risposta a tutto. Perché la bocca era impastata dal caldo umido e la saliva collosa ingrommava la gola. Perché le cose prendono sempre una piega diversa da come ci immaginiamo o ci auguriamo che vadano. Perché quel gruppo di gringos spaesati dagli orologi ultrapiatti con cronometro a doppia cassa in acciaio, intento a togliere l’assedio alla verità, non era diverso dai tanti altri giunti fino a lì immaginando un santuario dov’erano solo baracche col tetto di lamiera zincata e un ruscello dalle acque cristalline dove gli uomini si bagnavano separati dalle donne.
Immobili sotto uno spesso strato di polvere grigia, le begonie della Realidad parevano accompagnare, con la loro teoria di capolini curiosi e di steli protesi in avanti al passaggio, il rientro a San Cristóbal dell’automezzo tappezzato di fango e ruggine che aveva portato alla Realidad (o forse si doveva scrivere realidad, ripetendo l’oramai abusato gioco di parole?) i dodici visitatori esausti, dai gesti intorpiditi e dagli occhi ancora assonnati per la levataccia, mentre il rosso omaggio floreale si stava lentamente mutando nel bianco saluto delle ultime begonie.
PS. La Realidad è il villaggio zapatista situato nella Selva Lacandona, stato messicano del Chiapas.
Scrittura di selva. Lo sguardo si immerge el rosso di un begonia. Il begonia si porta sul petto lo sai. Il sole più vecchio per gli abitanti, sole sgorgando dalle favole di America del Sud, sole dei centi anni di solitudine, si perde la traccia della storia nella vista colorata del paesaggio dipinto da Roberto Bugliani. E’ strano come il racconto mescola
immaginazione e realtà. Il nome del villagio La Realidad sembra in contradizione con il mio sguardo di straniera, fuori della linea tropicale o equatoriale, ma ancora nella magia della scrittura soprannaturale.
Una frase è in rottura ” mentre alcuni pezzi di lamiera erano schizzati via ferendo alla testa un bambino indigeno”…
ciao véronique,
si, in effetti il pezzo mescola realtà e fantasia, ma gli accadimenti descritti, come l’incursione nel villaggio zapatista della giornalista legata alla destra messicana, sono tutti successi.
In sostanza il cuentito racconta delle “visite” di appartenenti alle società civili europee e della loro voglia, puntualmente frustrata, di avere risposte chiare sul “che fare”. Naturalmente, mi rendo conto che l’insurrezione zapatista e la ribellione delle comunità indigene del chiapas, che dura da 16 anni, siano distanti anni-luce dalla nostra cultura politica occidentale. Una volta che si è stati in chiapas, ha detto saramago, non se ne esce più, ma il problema per noi è entrarci (politicamente e culturalmente, intendo).
Grazie per la risposta Roberto. Chiara. E’ vero siamo distanti anni-luce delle situazioni in America del Sud. Per me, l’America del Sud è legata alle voci di letteratura meravigliose contando uno spazio magico e reale: è questa tradizione della favola che mi accativa, che trovo anche negli libri di Saramago, portogese, ma nella sua scrittura, vivendo l’avventura di essere in un mondo primitivo nonstante la sua modernità. Uno scrittore appartiene al suo paese con la lingua, ma la sua ispirazione è nel paese del suo immaginario dove trova lo suo spazio per dire il mondo.
nei libri
@véronique
se non lo conosci e lo trovi guarda La canzone di Carla di Ken Loach (je ne sais pas son titre en français, en anglais c’est Carla’s song)
Grazie, Lucia. Non conosco il film. Penso trovarlo alla Fnac.
Un abbraccio,
véronique
@ lucia,
bellissimo il film, ma peccato che una volta al potere i sandinisti abbiano perso tutto il loro charme, diciamo così, e alla fine “se fueron con la pignata” (se ne sono andati via con la grana) come diceva una battuta in voga anni fa in AL. Ma questa è stata, purtroppo, una costante di tutti i movimenti guerriglieri latinoamericani, dalla Colombia al Salvador al Guatemala al Nicaragua, fino agli anni ’80-’90, allorché quei movimenti smobilitarono, si inserirono nella vita civile e iniziarono la loro corsa al potere. Un’altra parte di quei dirigenti, che non si sono corrotti, sono stati scientificamente eliminati in incidenti strani. Anche in questo gli zapatisti sono diversi, e marcano una distanza abissale dai loro presunti “omologhi”.
Per gli innamorati di America del sud, consiglio Fausta la testa asustata, un film peruviano di tutta bellezza.
Films preferiti dunque:
Fausta la testa asustada di Claudia LLosa
Mon ami Machuca d’Andrès Wood
Agnus Dei di Lucia Cedron.
Nella mia vita ho avuto un solo contatto diretto con uno scrittore di America di sud è Luis Mizon chi è fuggito dal Chili
Nella cultura di America di Sud mi piace questo universo reale abitato dal magico. Cosa che ritrovo in un film che ha lo stesso incanto nonostante gli anni Cria Cuervos : la bambina non fa la separazione con l’immaginazione e la vita, è quello che trovo bellissimo. L’assenza di parete tra i mondi.
grazie véronique e grazie della risposta roberto