Il vuoto
di Christian Raimo
Domenica scorsa apro il domenicale e vedo qualcosa di inedito: articoli di Luzzatto, Pedullà, Pacifico, De Majo, Ricuperati, Lagioia. Sono delle persone con cui ho condiviso dei percorsi, sono intellettuali (storici, critici, scrittori, giornalisti, politici della cultura…) che per anni hanno cercato un terreno di confronto comune che non si è quasi mai dato; trovarli tutte insieme per la prima volta dopo tanto mi ha suscitato una reazione ambivalente. Perché, mi sono chiesto, questa non è la normalità da tempo? Ma soprattutto: perché, da questo e da pochi altri piccoli esempi che si riconoscono in giro, non si potrebbe finalmente cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso politico e culturale, e che non avvenga, come al solito, all’interno di nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie?
Sarebbe una questione ovvia, se non fosse che in Italia – difficile non accorgersene – siamo invasi da un vuoto. Sono anni che sento i migliori giornalisti, i più interessanti intellettuali italiani, le persone che hanno a cuore il futuro politico di questo paese dar voce a un’unica geremiade che può assumere di volta in volta forme diverse ma ricorsive: non mi riconosco in un partito che non riesce a trasmettermi uno straccio di senso comunitario, scrivo per questo giornale di cui non condivido il progetto editoriale figuriamoci la linea culturale, lavoro per la rivista x perché almeno mi paga due lire, ho messo su un blog come forma di minima resistenza…
Il vuoto è il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l’impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile. È l’aver a che fare con un meccanismo che potrebbe essere descritto in questi termini: la scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice cittadino è questa – come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente? Come posso far sì che la mia attitudine critica, l’impegno civile, l’esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro? È il paradosso di Winston in 1984 di Orwell: come posso agire in modo che il mio intervento in una società che controlla la stessa parametrazione della verità sia credibile prima di tutto a me stesso? Quali parole userò, di quale retorica mi posso fidare? Quale pratica sociale avrà una sua efficacia per me e per gli altri?
Cominciate a riconoscervi? Metteteci anche che c’è un (non)modello relazionale che si è parallelamente imposto: e il paesaggio intorno a noi si è desertificato anche per la mancanza di rapporti personali. Al confronto, si è sostituita l’anti-politica, l’anti-intellettualismo, l’anti-elitismo di varia foggia, le crociate indiscriminate contro vecchi, professori, istituzioni…
E proprio mentre questa grande bolla anossica occupava l’intero orizzonte culturale trasformandolo in un immaginario collettivo nutrito solo di barzellette e recriminazioni, perdevano di corpo anche le ultime strutture residuali dell’umanismo novecentesco: le potenzialità della politica attiva, la credibilità della chiesa, la forza dell’impegno sociale, l’autorevolezza della scuola e delle università, il ruolo in generale di quello che da tre secoli in qua è stata l’opinione pubblica…
Come fare a resistere, ci si chiede. Così: al massimo si prova a occupare di volta in volta un pezzettino di questo vuoto. Scrittori a cui si chiede un’autorevolezza da statisti, case editrici indipendenti che si fanno succedanee nel ruolo che avevano i partiti (come è accaduto per il decreto intercettazioni o per il sostegno pubblico alla cultura), festival della letteratura o del diritto che provano a fare le veci di un’università allo sbando: tentativi apprezzabili, accidentati percorsi collettivi e prometeici sforzi individuali. Ma, proprio perché estemporanei e isolati, destinati ad avere semplicemente un valore di rifugio; compensatorio, quindi fragile. Fare politica si riduce a cliccare su facebook per salvare la vita a Sakineh. Per studiare biologia marina può bastare un abbonamento a Focus. Per farsi finanziare un’inchiesta sulla guerra in Somalia bisogna prima scrivere una decina di servizi sulle sfilate di moda a Addis Abeba…
Che dite? Possiamo finirla di contemplare questo deserto in una sorta di fascinazione apocalissofila e cominciare a pensare a come ricostruire una piccola civiltà culturale? Possiamo raddensare queste energie disperse iniziando a farle circuitare, e poi esplodere? Vi va di dismettere quell’espressione di disincanto che vi si legge negli occhi?
(pubblicato sul Sole 24 ore, il 3/10/2010)
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il sole 24 è quello della confindustria?
o.t.
rovelli se lo lasci dire, lei è un briccone di-vino – un vero apocalissofilo, se posso esprimermi in questi termini -un furbacchione di quattro cotte (e di quattro crude): secondo me lei sta raccattando, praticamente a costo zero, materiali e ricette per un trattato di cul-in-aria. mi lasci indovinare il titolo…
Spesso si parla di questo tema anche tra amici.
La mia risposta, in genere, e’ che e’ importante parlare di quello che si crede, e di speranza nel futuro, di progetti. Parlarne parlarne e convincere, poco a poco, le persone che si hanno attorno.
Pero’, per contro, di fronte a questi amici e a quest’articolo, mi viene anche da pensare, ma di cosa queste persone/ l’autore, sente il bisogno?
Di un autorevole intervento dello stato e dei partiti politici nella cultura? Della creazione di nuove istituzioni culturali/ di una rigenerazione delle esistenti? Di cosa si va in cerca, quando ci si lamenta del vuoto e dell’assenza di qualcosa? Che cosa e’ questa cosa che manca?
Mr., Raimo, la risposta alle sue ultime tre domande non è un “sì”, che è scontato, ma una domanda: “come?”
al-halim ma che vuoi da me? e soprattutto che stai dicendo?
si calmi rovelli, mica c’è bisogno di incazzarsi tanto per dire che non sta scrivendo un trattato di culinaria. soprattutto quando c’è tutta questa carne al fuoco qua sopra da commentare… pensi a pedullà & co. come ci rimarrebbero male. e pure la compagna marcegaglia
p.s.
ma lei l’ha mai letto “il briccone divino”?
quoto galbiati
Al-Halim, ho scorrazzato sul tuo blog, e adesso capisco che vuoi e che stai dicendo. Se non ti piace l’articolo che ho scritto sul manifesto di recente, beh è legittimo. Ma quel che intuisco è che quel che non ti piace è altro. Però non vedo la ragione, davvero, di sospettare “bande e gruppuscoli, schiere di adepti, premi e premietti ad personam, festival e sagre paesane”: ma dove? Ora, visto che parli di cul-in-aria: io e Christian, per dire, siamo amici da anni, è possibile? Peraltro, per quanto mi riguarda, è uno dei pochi amici in questo ambiente. Gli altri, non sono “intellettuali”. Ed è un costume malsano vedere le cose sempre con occhio malfidato.
Comunque scrivimi una mail, se vuoi il modo per farlo ce l’hai.
??????
tolgo il disturbo e ti lascio ai tuoi doveri di ospite. il dibattito si annuncia scoppiettante e, viste le domande capitali, foriero di soluzioni che ci ridaranno finalmente un futuro. il nano e la sua banda si stanno già cagando addosso
?????? significa che non capisci a cosa mi riferisco? Lo capisci benissimo, dai. Ho citato le tue parole, il tuo post.
Christian, abbiamo età e percorsi diversi ma ti seguo con una certa assiduità perchè credo che tu abbia una percezione molto simile alla mia di quello che succede.
E quello che succede è che
1) le intelligenze sono per lo più irretite nella auto-rappresentazione di sè stesse, perchè sono cadute nella trappola della Rete, che non è l’Altro dalla televisione ma il suo inveramento, ossia il luogo in cui essere diventa sinonimo di essere pubblico o pubblicato (tra parentesi, questa è anche la ragione dello svilimento dello spazio editoriale, che si è Internettizzato)
2) la politica è irretita dall’ossessione del posizionamento. Sembra in contraddizione con quello che dico sopra, e invece ne è il logico effetto compensatorio. In una comunicazione che non ha più pareti nè filtri, si cerca la territorializzazione. Peccato che questo significhi combattere la guerra precedente, come quando ci si ostina a credere che Berlusconi sia il leader di un partito di destra (che potrebbe essere battuto da una sinistra) quando invece è la cifra di un orizzonte epocale.
3) se la seduzione del mito si smaschera con la ragione, dall’inferno mimetico che compie il “delitto perfetto” (Baudrillard) assorbendo il reale nell’immaginario ci si salva con la storia. Piaccia o no, depositari della storia restano il libro e la scuola. Non la cronaca, non la marcescibile leggerezza dei media elettronici. Le battaglie che vale la pena combattere e su cui vale la pena di contarsi e contare si chiamano costituzione (e più in generale legalità, ciò su cui si è fondata la nostra convivenza), editoria (reperibilità e accessibilità economica del libro) e scuola (universalità e qualità dell’istruzione). Chi capisce questo e si espone per questo sta lavorando per l’arca, che sembra un gesto conservativo e invece è l’unico modo per garantire il futuro. Il resto è simpatia momentanea, contagio ideologico di breve durata, per lo più vacua esibizione.
Un appello a ricostruire “una piccola civiltà culturale” fatto dalle pagine del Sole 24 è quanto meno ambiguo. Se leggo Rossi-Landi, scopro che il contesto di diffusione di un enunciato vincola il senso del discorso: e infatti m’è venuto spontaneo mettere in relazione il “vuoto” di cui parla Raimo con la frase della “apertura dei cancelli dello zoo” pronunciata qualche giorno fa dal maggiore azionista di Confindustria …
Certo, ora l’articolo è pubblicato su Nazione Indiana: cambia l’uditorio e quindi il modo di codificare il contenuto. Ma cosa hanno da spartire i lettori di NI con quelli del quotidiano confindustriale? Siamo davvero tanto confusi?
NeGa
Subito prima di questo post ho letto il pezzo di Cortellessa su Alafabeta, dove mi pare che per la cultura e la politica si caldeggi un salto dimensionale rispetto alla bi-dimensionalità attuale, fatta di essere contro o pro SB.
Qui Raimo caldeggia la ricostruzione di una “civiltà culturale”, più o meno a partire dalla stessa analisi.
Va bene. Ammettiamo che già adesso manchi una civiltà culturale (invece credo esista, ma che sia a misura dei suoi nuovi fruitori), ammettiamo che sia necessario un salto dimensionale (?), attraverso quali processi si potrebbe costruire la prima e compiere il secondo?
Con riviste come Alfabeta?
Con le battaglie per l’editoria indipendente, per l’auto-produzione, per la qualità letteraria non bestselleristica?
Non sarà che, banalmente & come si disceva una volta, il problema è a monte ed è politico, nel senso che è un problema di contribuire (mettendo da parte l’ego, per una volta) alla costituzione di una forza capace alla lunga di abbattere SB?
Allora, visto quello che passa il convento, come contribuire a questo?
Come mettersi, ciascuno per il suo, al servizio di questo processo?
[…] (pubblicato sul “Sole 24 Ore – Domenicale” del 3 ottobre 2010 e consultabile su: https://www.nazioneindiana.com/2010/10/05/il-vuoto/#more-36829) Domenica scorsa apro il domenicale e vedo qualcosa di inedito: articoli di Luzzatto, Pedullà, […]
Nevio, è da un paio di anni che ho praticamente smesso di lasciare commenti — preferisco leggere. Quello che mi spinge a lasciare il mio stato di lurkatrice è però il fatto che per la seconda volta nell’arco di poco tempo mi è successo di sentirmi respinta proprio qui su NI, “una nazione composta da molti popoli diversi”.
Vedi Nevio, io sono una lettrice del Sole. Che dici, posso leggere anche NI? Posso farlo senza dovermi sentire “confusa”?
Quoto Galbiati e in parte Binaghi sull’importanza della scuola. Io credo che nell’articolo ci sia una chiamata a raccolta senza offrire delle soluzioni. Per me, quest’ultima cosa, non è un problema. Credo nei piccoli movimenti, nelle cose impercettibili. Un piccolo gesto, in fondo, può cambiare tutto, come ci insegna la teoria del caos. Ecco cosa ci vuole, un po’ di caos. Non nel senso banale del “disordine”, ma del piccolo gesto che può generale l’imprevedibile(come nel caso dell’effetto farfalla). Un caos che si opponga alla attuale “cosmesi” politica, che faccia parte, al di là di ogni ordine delle parti. La strategia politica del potere oggi è cosmetica e, nello specifico chirurgica: non si fanno che tagli, non si modellano che parti. Come diceva il caro Nietzsche, bisogna avere il caos dentro di sè per generare una stella danzante!
@ Pensieri Oziosi
non c’è differenza tra la borghesia italiana – il referente principale del Sole 24 ore – e l’intellettualità diffusa – e spesso proletarizzata – che legge NI? L’invito a uscire dal “disincanto”, se raccolto da questi diversi soggetti sociali, avrebbe le stesse ricadute pratiche?
Se metto insieme natura dell’enunciato e contesto, non posso fare a meno di cogliere la consonanza con quell’invito strisciante ad allearsi per battere Berlusconi: da Montezemolo a Marchionne, da Casini a Fini, dal PD ai “cespugli” d’ogni tipo, tutti insieme per scacciare il Cavaliere Nero. Posso nutrire dei seri dubbi su questa che sarà, ancora una volta, un’alleanza a perdere?
Come vedi, il punto non è leggere o meno Il Sole 24 Ore …
NeGa
interessante che qualcuno indichi il Sole24ore come l’irriducibile alterità, io lo leggo, e non solo la domenica, e non per controllare gli indici di borsa o sapere che fare della mia azienda, ma perché la realtà non è fatta di quarti di bue sezionati e disposti in punti diversi del bancone
per quanto riguarda la generazione – in quanto generazione- di Raimo, comincio a non avere più speranze, è bloccata, immobile, ripiegata, e non è neppure tutta colpa tutta, peccato che la generazione di Raimo sia anche il mio futuro
che dire, le solite cose, guardare in faccia la realtà tutta, tenere gli occhi aperti, non rifugiarsi in un comodo massimalismo para-eroico, lavorare comunque, fare come se, leggere anche il Sole24ore, andare magari a cena una volta nella vita con uno che invece di scrivere libri vuole fare un’impresa, non si va all’inferno, fare politica, schifare le torri d’avorio, ricordarsi che anche le analisi più brillanti, intellettualmente seducenti eccetera sono soltanto analisi se non trovano un campo d’azione, che deve essere praticabile, ritrovare (ma purtroppo questa è una perdita epocale) il senso del collettivo…
@ng
L’ossessione del posizionamento. L’ostentazione irriducibile della propria diversità (guai a chi legge il sole24 ore). Come se tra chi legge NI non ci fosse buona borghesia intellettuale ma anche no. Spero che tu abbia almeno 60 anni perchè è con questo vecchiume che proprio non si va e non si andrà da nessuna parte.
La politica possibile è su obbiettivi, non su patenti di credito acquisite nel giurassico o nel cretaceo. Svegliarsi, è urgente.
@ng
La civiltà culturale e il sole 24 ore sono la stessa cosa. Ho come l’impressione che il tuo agire lo sa, ma il tuo pensiero no.
@Valter Binaghi:
seguo sempre con molto piacere quello che scrivi, ma non mi trovo affatto d’accordo con quanto esprimi al punto 1:
“le intelligenze sono per lo più irretite nella auto-rappresentazione di sè stesse, perchè sono cadute nella trappola della Rete, che non è l’Altro dalla televisione ma il suo inveramento, ossia il luogo in cui essere diventa sinonimo di essere pubblico o pubblicato (tra parentesi, questa è anche la ragione dello svilimento dello spazio editoriale, che si è Internettizzato)”
Molti si sono irretiti nell’auto-rappresentazione, certo, qui come altrove… internet spinge al massimo certe pulsioni, ma a differenza della televisione permette diverse forme d’interazione, il che non è poco… io lo trovo anche una risorsa per lo spazio editoriale, altroché, almeno che non s’intenda lo spazio editoriale come quello occupato dagli editori che internet lo usano per lo più per autopromuoversi (d’altronde hanno tra i loro scopi quello di vendere libri)…
@Ng
Ho scritto il pezzo sul domenicale del Sole, cercando come sempre di tenere conto del contesto, autorevole e dialogico. Il pezzo tra l’altro aveva in sé proprio il tentativo di articolare una modalità diversa che si sta affermando, non di sottolineare l’emergere di una nuova cricca o di un posizionamento. Anche sul Sole, ovviamente ma come sul Manifesto, ma come su Liberazione, ma come su Nazione Indiana – dove vedi ti sto rispondendo – occorre tenere conto il più possibile del contesto. Per dire, nel pezzo butto là una critica di striscio a Focus, che per me è una dei sintomi deteriori della semplificazione culturale italiana. Due pagine dopo il mio articolo c’era una pubblicità a tutta pagina di Focus Storia.
Per favore non facciamo i boicottatori o gli arruolatori, ieri è uscito sul Giornale un pezzo di Mascheroni che a commento di questo pezzo, buttava là l’insinuazione che io, come altri scrittori di tendenze sinistre, come Nori, Scarpa, Moresco e non mi ricordo chi altro stessimo cercando un posto al sole nel campo della destra. Eh?
@alii
Sul che fare, non sono ignavo. A me ovviamente piacerebbe trovare una forma comunitaria che faccia centripetare queste energie. Questa forma non c’è. Un partito, una rivista, una casa editrice? Io direi un’area culturale, tanto per cominciare, una modalità di lavoro, e di pensiero. Le parole di Binaghi, sarà che veramente nella vita abbiamo avuto percorsi simili, le trovo da giusto monito. Bisogna far vivere processi e non mettere su vetrine. La scuola, i libri. Non i festival e le polemiche.
Cercherò di reintervenire in modo più articolato, anche attraverso proposte o analisi più compiute.
@Simone
Nella estrema sintesi mi sono spiegato male. Come vedi, in Rete io ci sono e ci sguazzo, non mi sogno nemmeno di gettare al vento le sue opportunità, così come non diserto le partite dell’Inter in televisione o i film di RAI4 o Annozero.
Il punto è che, a un certo momento, un media diventa un paradigma della comprensione, cioè uno strumento egemonico (e che perciò stesso tende a rendersi invisibile, McLuhan parlava di “narcosi”) che tende a strutturare il soggetto a sua immagine e somiglianza. E’ in questo senso che, dopo una ubriacatura decennale che ci ha preso un po’ tutti, io credo che oggi si debba cominciare a prenderne le distanze, non per buttarlo ma per considerarlo quello che è: un elettrodomestico (Gaber direbbe “una lavastoviglie”), non il trionfo della percezione totale cioè lo svelamento del mondo senza filtri. I suoi limiti sono i suoi pregi: l’assenza di requisiti per pubblicarsi abbatte odiose gerarchie ma anche la selezione della qualità e della competenza; l’autonomia del blogger tende ad occultare il carattere politico della comunicazione; l’universale diffusione occulta il fatto che il senso è sempre territorialmente condiviso. Si potrebbe continuare. Intellettuale non è chi si consegna interamente a un linguaggio ma chi è in grado di metacomunicare.
@ Valter Binaghi
M’illumini lei. La prego: mi dica qual è la strada, cosicché possa ravvedermi. Aspetto – da lei che è certamente meno antico di me – la parola giusta, quella che sola può indicare la via d’uscita. Lei che ha già capito tutto – lei che è certamente più carico di me di sapienza – non lasci solo chi – poverello! – continua a pensare che la società – questa nostra così disomogenea – sia abitata da interessi inconciliabili: mi mostri – glielo chiedo quasi in ginocchio – mi mostri la retta via. Mi metta in crisi.
Ah, dimenticavo … Lei che è così avverso al posizionamento – e dico proprio lei che certo rifugge dai miei riferimenti antichi, tutti centrati sulla differenza e sull’inconciliabilità di certi interessi – ha mai pensato che la lotta per la legalità – quella che a lei pare così centrale – è sempre – non può che essere sempre – filo-governativa? Ci pensi. Magari scopre che anche lei – proprio lei che non lo vorrebbe – è posizionato.
Temo però che – alla fine – abbia ragione Larry Massino.
NeGa
Qualcuno ha detto: “Il problema è il cavallo,non il Cavaliere”
Altri han commentato:”…..in Italia ha diritto a esser chiamato “Problema” un solo problema.Quello rappresentato da Lui.
E mentre tutti rimirano Lui, gli Altri fanno man bassa.
Man bassa. “Contro” o “in combutta” con Lui, ormai fa lo stesso.
Tocca ribadirlo: il post-berlusconismo farà schifo e orrore quanto il berlusconismo. Ci entreremo a furia di cazzate, una appresso all’altra, marciando agli ordini di padroni “buoni”.
“Buoni” e, chissà, forse pure “sovversivi”. Rivoluzionari. Troppa grazia!”
Si trattava di specifici problemi ,sarà vero anche più in generale?
E ancora:
“Il direttore del Sole24ore, (a proposito di uno di questi problemi:Pomigliano))diceva: lì si gioca una partita del campionato del mondo nella globalizzazione, il fondatore di Repubblica sentenziava, come fa ormai profeticamente: non è un ricatto, è la pura realtà, e così via.”
Cosa c’è che non va nella fascinazione apocalissofila? E’ divertente.
Come si può vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarsi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente?
Semplice: non si può.
O si imbraccia un fucile o si smette di prendersi così sul serio.
Dopotutto, sono solo canzonette. In questo caso, articoletti, raccontini.
Viva Confindustria.
Adesso se volete, passiamo al dibattito.
tutti gli intellettuali di sinistra potrebbero scrivere sul sole 24, quelli di destra sull’unità: l’importante è che non cambi il risultato.
Essere di destra vuol dire fare battute sarcastiche che non fanno ridere, prender su atteggiamenti massimalisti, facendo di tutta l’erba un fascio, liquidare le discussioni senza mai entrare nel merito, cercare l’indistinzione. Sì dico a Mourenho, a Ng, a Massimo.
Essere di destra è dire agli altri: sei di destra.
Nevio Gàmbula
@ ng
Appunto. Continui con il gusto del paradosso, la mancanza della distinzione, il non entrare nel merito, il cercare attraverso una battuta presuntamente icastica e sagace un consenso.
Lo vuoi, ce l’hai.
@ Valter Binaghi,
una precisazione sociologico-filologica: il “vecchiume sessantenne” si divide in due categorie generali: da un lato, coloro che hanno gettato le vecchie medagliette giurassiche nel cesso e, con qualche abiura e contorcimento, oggi si trovano a pontificare eticamente o moralisticamente dai centri di potere mediatico o dai palcoscenici del sub-potere teorico-letterario. Dall’altro, coloro che non hanno mai avuto voce in capitolo, i “nessuno” che non hanno mai fatto “carriera”, forse per una certa coerenza politica (giurassica, naturalmente). E, a differenza dei primi, con questi ultimi non si va, certo, da nessuna parte, perché non indicano parti. Ma se poi si guarda al post-vecchiume giurassico, cosa si vede? Panorami generazionali che si piangono addosso, che fanno discorsetti autoreferenziali, che scambiano la lotta politica con un click del mouse. Che si sono visti capitare tra capo e collo o che hanno propiziato (e sono i più) l’avvento del berlusconismo e di altre jatture meno “note”, e… dove vanno costoro?
@binaghi
E’ chiaro che anche la Rete ha i propri limiti, e che si deve farne un uso “igienico”; ma la Rete è assolutamente il futuro; più che un passo indietro, occorre fare un passo nella giusta direzione.
Condivido Pecoraro quando afferma che una civiltà culturale, ahimé, già c’è; e quando ammonisce sulla necessità di metter da parte l’ego. Però forse il problema non è solamente politico; e in un certo senso me lo auguro.
Piccola noterella filologica per Christian Raimo:
Ho esordito facendo notare la contraddizione tra il contesto e l’enunciato. Un contesto posizionato – nettamente posizionato, con buona pace di Binaghi – com’è quello del Sole 24 Ore non può aprire processi in contrasto con la sua essenza filo-padronale (mi pare persino banale).
Mi risponde con eleganza Pensieri Oziosi, a cui replico pacatamente.
Interviene quindi tale Valter Binaghi, dandomi del “vecchio” per la mia idea di inconciliabilità degli opposti. Rispondo ironicamente (e fermamente).
Scusi, Raimo, dov’è che emergerebbe un pensiero di destra?
Insomma, se è nel contenuto del suo ultimo commento che si spiega ciò, bene, mi permetta:
• GUSTO DEL PARADOSSO – lo ammetto, mi diverte rilevare le contraddizioni; e tenga conto che: il paradosso, dal greco παρα (contro) e δόξα (opinione), è una conclusione che appare inaccettabile perché sfida un’opinione comune (Wiki);
• MANCANZA DI DISTINZIONE – ho invece introdotto una distinzione fondamentale (di contesto e di referenti);
• NON ENTRARE NEL MERITO – ci sono entrato, ci sono entrato; si rilegga la frase sulle alleanze per battere Berlusconi;
• CERCARE CONSENSO – niente di più –e in tutta evidenza – falso; se questo era l’obiettivo, avrei applaudito.
Nevio Gàmbula
Essere di destra vuol dire fare propaganda per la sicurezza sul lavoro dicendo agli operai di stare più attenti, come fa lo spot della presidenza del consiglio.
Francesco, è assurdo. Volevo scriverci un pezzo solo su quello. E’ impressionante. La deresponsabilizzazione dei datori di lavoro pubblicizzata come quadretto famigliare. Poi non dite che non ve l’avevamo detto che in quella betoniera non ci dovevate entrare!
@Ng
Facciamo finta di non cogliere l’inutile sarcasmo, e rispondiamoci da persone adulte.
Quando Nicky Vendola dice: smettiamola di confabulare su chi si e chi no imbarcare nell’arca antiberlusconiana (ah, i veti incrociati, l’ossessione della purezza, com’è di sinbistra!) e stiliamo un programma concreto e decisivo in cui si crede sul serio in termini di onestà e fattibilità, dopodichè la cosa sarà di chiunque la sottoscrive, bene, questo per me è aver capito quello che lei Nevio sembra non capire.
Cioè che le precedenti mappe della politica (destra sinistra centro) non corrispondono più all’attuale territorio. Altrimenti si resta lì, a piagnucolare sul fatto che nessuno caga più la mia bandierina (eppure, avevamo vinto più scudetti della Pro-Vercelli!) e (orrore!) gli operai oggi votano Lega.
[…] Ma ancora a proposito di letteratura, di quello che si cerca di muovere in Italia intorno ad essa, segnalo un articolo e la relativa- interessante- discussione su Nazione Indiana: Il vuoto, di Christian Raimo. […]
non l’ho visto quello spot, non c’è un link?
@Ng
Addenda.
“la lotta per la legalità – quella che a lei pare così centrale – è sempre – non può che essere sempre – filo-governativa”
Ma dico, si accorge della bestialità che ha scritto?
Mi vuol dire che lottare veramente per la legalità oggi non sarebbe il modo migliore per mandare a casa Berlusconi e i mafiosi che siedono in parlamento?
Come a Christian, anche a me ha sorpreso e fatto piacere vedere in quel numero del Domenicale tante voci che conosco e apprezzo, e che prima di allora avevano scarse possibilità di essere ospitate sui giornali più diffusi e autorevoli. Mi è sembrato un primo e tardivo segnale di riconoscimento verso una generazione di intellettuali costretta al silenzio o alle riserve indiane della rete dalla cultura ufficiale. Non era solo l’aristofobia diffusa, i “giri” di cui parla Zagrebleski o l’inamovibilità di certi “senatori” a decretarne l’ostracismo, confinandoli sul riformista o liberazione, quanto piuttosto un pregiudizio diffuso e ingiustificato, che li liquidava con la celebre battuta di Mitterand per cui “ogni tanto una generazione salta”. No, quella dei quarantenni è una voce interessante che merita di essere ascoltata e che si è ignorata per troppo tempo. Ora spero che questi segnali (penso anche a Falco su Repubblica) siano le prime avvisaglie di un ricambio non più prorogabile, e penso che se qualcosa ha permesso a queste energie di esprimersi e farsi notare, questo sia stato proprio l’attivismo volontaristico profuso per anni in blog culturali come questo.
Essere di destra, per un pensatore o un artista del terzo millennio, vuol dire rifiutare di spersonalizzarsi e liquefarsi nella propria opera, appellarsi invece alla civiltà culturale – facendo peraltro ipocritamente finta che essa non sia giudice delle nostre opere – lavorare per rafforzarla, invece che per metterne in discussione le fondamenta, anche immaginando nuove e più vitali civiltà culturali, quelle che guarda caso sono destinate ad accoglierci, quelle di cui guarda caso siamo preparati a far parte, quelle stesse civiltà culturali che rafforzeranno la nostra identità, la nostra centralità sociale e il nostro reddito.
@Valter:
ora mi trovi più d’accordo, soprattutto se prendere una distanza serve anche a riflettere meglio sul mezzo… io sono convinto che le potenzialità di internet siano legate al tentativo di dargli un corpo anche fuori della rete, ma non voglio continuare oltre, perché sto andando fuori del seminato rispetto all’articolo…
Larry Massimo, non mi va di esibire patenti. Ma dico questo perché appunto mi sono stufato dei disfattismi, e non mi va di passare per tale. Ho deciso qualche anno fa che il lavoro principale che avrei fatto, che per me era il massimo impegno politico che potevo prendermi, era insegnare. Se hai presente cosa vuol dire decidere di fare gli insegnanti oggi, in Italia. Si deve lavorare a lungo termine, a medio, a breve, a brevissimo, e cercare di rispettare il lavoro degli altri, se va in una direzione di dialogo con una tradizione umanistica che rischia di essere smantellata, e con un desiderio di rinnovamento che appunto non dev’essere un repulisti.
Raimo a me lei sembra in buona fede anche se storpia immagino involontariamente il mio cognome. Però rinnovare non può voler dire restaurare. Il secolo scorso ci aveva tutti portati a diffidare, almeno diffidare, delle supposte ” civiltà culturali “. Nel secolo scorso si è messa in discussione la cultura, tutta. Si è chiarito che l’aderire a questo a quel sistema conoscitivo non è per forza far bene a tutta l’umanità, ma molto più spesso far bene al proprio gruppo di appartenenza e al sistema conoscitivo dominante nel quale si è o no inseribili. Per questo si era finito per decidere, praticamente unanimi, che l’opera è un bene dell’umanità, a prescindere da chi e come si produce, e forse anche a prescindere da chi la consuma. Non mi sembra così difficile capire che se il sole 24 ore, che è il giornale della confindustria, fa le migliori pagine culturali d’Italia da quasi 20 anni, lo fa perché la cultura che si pratica in Italia appartiene a confindustria e le è funzionale prima di tutto nel non accettare la centralità dell’opera, che potrebbe in astratto contenere germi di rivolta incontrollabili, al contrario delle persone che potrebbero produrli. Detto questo, a me non piace essere funzionale a nessuna confindustria del mondo, ma capisco che alla fine alla fine è solo una questione di gusti: ognuno può essere funzionale a quello che vuole lui, basta che simultaneamente non voglia occupare anche gli spazi ” contro “, perché non è corretto togliere ulteriore spazio a chi è davvero marginale. Veda bene, non sto parlando di me, che come si capisce ho pacatamente accettato di sparire dietro la mia opera (anche non opera), sto parlando di intere classi sociali popolari che hanno perso qualsiasi speranza di essere rappresentate se non dai personaggi dell’immaginario televisivo.
ot
caro larry massino
io anche involontariamente l’ho chiamata massimo convinta che massimo fosse il nome e larry il cognome :)
mi perdoni ma è stata una svista, un andare in automatico dopo la prima sillaba mas :)
ho ascoltato per un periodo radio 24, il giornale no, non ho tempo, non ce la faccio
bravi, perfetti, efficienti, al passo coi tempi, intelligenti, preparati sullo scibile tutto, troppo, troppo
poi ascolti le notizie economiche, i consigli per la borsa e la nausea ti sale e fai clic con un bel vaffanculo
colgo l’occasione per salutare in modo particolare nega :)
un bacio
la fu
A prescindere da dove-come-perché dell’articolo, mi limito ai concetti del pezzo. Soprattutto a quel costruire “una piccola civiltà culturale”. Quoto e straquoto galbiati che chiede: come? Perché prima non se ne parlava. Ora che la situazione puzza di marcissimo se ne parla in termini apocalittici. Poi arriva qualcuno che, magari a ragione e giustamente, dice di piantarla con i piagnistei e iniziare a fare qualcosa. Ok. D’accordo. Ma quanto cazzo dobbiamo aspettare ancora prima che gli intellettuali la piantino di scrivere scrivere scrivere e muovano il culo? Quante domeniche dovranno passare ancora prima che gli appelli, i piagnistei, i quadri della situazione (apocalittici omeno) vengano sostituti da un progetto, una proposta, un qualcosa di concreto perdio?!
Detto questo, dico anche che quando di proposte se ne fanno e si chiamano in causa intellettuali, critici, editori, poeti per creare quella comunità culturale che la scienza e riuscita a costruirsi e la cultura sembra di no, non risponde nessuno o quasi. Perché? troppo impegnati a scrivere articoli apocalittici invitando all’abbandono dei toni apocalittici?
Luigi B.
@Alcor,
Lo spot sulla sicurezza sul lavoro si trova sul sito dell’Espresso
http://espresso.repubblica.it/multimedia/26413635/1/1
@garufi
“….a decretarne l’ostracismo, confinandoli sul riformista o liberazione, quanto piuttosto un pregiudizio diffuso e ingiustificato, che li liquidava con la celebre battuta di Mitterand per cui “ogni tanto una generazione salta..”
Questa motivazione d’ostracismo mi pare un po’ debole.
La domanda vale anche per Raimo: qual’è il motivo principale di questa trascuratezza ed ostracismo?
@luigi B.
quoto in toto l’intervento
Christian, la percezione del vuoto che intristisce, demotiva, affatica e sommerge le persone che hanno a cuore il futuro politico di questo paese, è inevitabile, se non a patto di rimuovere dalla propria coscienza e dalla proprie capacità analitiche ogni problematicità. E’ per questo che condivido moltissimi passaggi del tuo pezzo. Ricostruire una piccola comunità culturale, dici tu. Benissimo, ma non prima di aver stabilito le coordinate di questa ricostruzione. Perché se l’obiettivo è facilitare l’incontro d’idee tra “intellettuali”, al fine di incuriosire e trascinare nel dibattito serio un ristretto numero di persone e addetti ai lavori, allora va bene accettare come un segnale positivo il progressivo aumento di qualità/ vitalità sulle pagine dell’inserto culturale del sole24 ore. Ovvero di una nicchia striminzita, purtroppo. Ma se si vuol mirare a un bersaglio un pò più lontano, ahimè non basta. Non basta. La nosrtra idea di realtà condivisa, come diceva efficacemente Walter Lipmann, è mediata, determinata e influenzata da quello che lui aveva battezzato pseudo-ambiente, riferendosi al mondo creato intorno a noi dai media principali. Perché è quello il mondo che coinvolge i milioni e non le migliaia. E’ quello il mondo che forgia l’immaginario, i valori e le aspirazioni dei milioni e non delle migliaia. Spiace dirlo, sono cose ormai risapute, ma è attraverso il filtro di televisione e qutodiani nazionali che s’impongono i confini ideologici e qualitiativi del dibattito, secondo logiche spaziotemporali e esigenze comunicative impronatate all’ossessiva ricerca della facilità, al fine di reiterare all’infinito la protezione d’interessi particolari che nulla, ma proprio nulla, hanno a che vedere con il tipo di cultura per cui io, te e molti altri nutriamo passione e devozione. Se una parte del dibattito pubblico disdicevole a cui assistiamo quotidianamente – per magia, o per mezzo della dittatura illuminata di un Nabokov risorto col fine di assumere ad interim la guida di un orwelliano ministero della cultura – assumesse i canoni, la profondità e l’autenticità che noi vorremmo, probabilmente quel vuoto scomparirebbe. In tutti gli altri casi, temo, continueremo a sentirlo come schiacciante, perché forme di resistenza e nicchie di qualità già ci sono. E perchè è inevitabile. Perché così sono costituite le democrazie clientelari come l’Italia, con un sistema di piramidale di connessioni atte, lo ripeto, a preservare i privilegi di un ristretto numero d’individui che della cultura problematica non sanno che farsene, perché antitetica al profitto. Esiste davvero secondo te, secondo voi, un modo, una strategia benedetta per passare dall’analisi all’azione, perché s’infraga il grande muro di gomma? Io non ho molta fiducia perché è semplicissimo marginalizzare le voci che esulano dalla medietà e dal conformismo. L’unica strategia, se si vuole essere realisti e commisurarsi alla gravità della situazione reale, sarebbe il suicidio. Ovvero il rifiuto rigoroso, assoluto, disperato e congiunto delle attuali logiche alla base dell’industria culturale. Ma chi é disposto alla santità?
Avrei risposto volentieri a tutti quelli che si sono rivolti a me ma questa cosa che certi commenti appaiono subito e altriu (i miei per esempio) vengono messi in moderazione e sdoganati dopo ore, rende il dibattito impossibile o surreale.
Così, invece di fare battaglie per la legalità (troppo de destra) si fa i poliziotti nella gestione di un blog (molto de sinistra).
Amen
A me l’articolo di Raimo piace, non mi è piaciuto invece il commento: “la scuola sì, i festival no” non mi piace perché non capisco cosa ci sia di male a far prendere aria ai libri, anche fuori dalle aule, a porte aperte a creare altre comunità perché per me è una chiusura inaccettabile, capisco che l’insofferenza dipende dall’associazione con le vetrine, ma non tutto è vetrina, non è vetrina un concerto, un live, ad esempio, non è vetrina il teatro…è solo un’altra dimensione. ma so che ognuno la vede a suo modo, e non intendo persuadere nessuno, però quello che non capisco è perché l’uno escluda l’altra.
@d’Arcangelo
nessuno..
Le questioni sono tante.
Mi piacerebbe che come nelle assemblee non tutte fossero proposte a chi getta il sasso. Non ho gettato il sasso perché avevo una soluzione nell’altra mano. So che la situazione è grave: biblioteche senza fondi, scuole e università bloccate, giornali di sinistra alla canna del gas, etc…
La civiltà culturale che mi auguro si nutre anche dell’ovvia resistenza rispetto a queste forme. Maria, scuola sì e festival sì. Il punto è che dei festival si può fare a meno, della scuola per me no. Se mi fanno pagare l’attrezzatura della segreteria e poi anche il biglietto per sentirmi una lezione, permetti che mi rode il culo.
Ma una civiltà culturale diversa sta soprattutto in uso del linguaggio che cerchi di porre diversamente le questioni, che provi a combattere contro le dinamiche di potere che siano quelle della macroeditoria come quelle di un blog. (Ng, ci siamo chiariti, grazie).
A me piacerebbe che tutto questo desse vita a riviste, a partiti, ad associazioni che non operano solo in rete, a piazze, a movimenti. Ognuno come vuole. Io proverò a farlo nel mio. Ma è innegabile che questo è un momento plastico. Forse più che negli ultimi anni, movimenti cresciuti dal basso, provavo a notare, stanno avendo un riconoscimento overstated. Negli anni del riflusso berlusconiano, qualcuno ha provato a studiare, ora è tempo di mettere a frutto questo studio. L’intervento di Giancalo Liviano provava forse a articolare un discorso simile se ho capito bene.
Siamo una generazione di figli che sono stati cresciuti da una classe politica e culturale molto spesso incosciente e infantile. Ora tocca a noi badare casa.
Come temevo le domande di Raimo sono fine a se stesse. Non c’è nessuna, reale proposta concreta volta a “ricostruire una piccola civilità culturale”.
La proposta si esaurisce nella domanda.
La piccola civiltà culturale non va ricostruita (il che presuppone un “come”, e quindi un “dove farla abitare”): occorre solamente “cominciare a pensare” al “come”. E scrivendolo, lo si è già fatto. Le energie vanno “raddensate” e “circuitate”, ma non si sa dove. Scrivedolo, lo si è già fatto. Vanno “esplose”: il come è sempre di là da venire. L’espressione di disincanto va “dismessa”: per far cosa non solo non è dato sapere, ma non è neanche l’oggetto del dibattito. Qui non si parla di “fare” qualcosa. Si parla di “cominciare a pensare”, e il pensiero comincia e si esaurisce con la scrittura di un articolo. I commenti sono solo un corollario. E così mi sembra sia tutta la discussione che ha interessato il problema “pubblicare per Mondadori?” e Saviano.
Scrivere di questi argomenti ha meramente una valenza catartica.
ciao a tutti,
in un senso molto più politico che letterario, credo che le ultime parole del commento di christian raimo facciano rima e combacino con il monito lasciatoci dal buon vecchio caro david foster wallace. un discorso sull’assumersi le proprie responsabilità, in fondo:
“Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.”
chiudere i commenti
Molto azzeccata la citazione di DFW. Peccato che non si può mimare la genitorialità senza esserla. Cioè senza fare figli. Smettere di cercare la definizione di sè e farne. Figli, opere. Le seconde acquistano un senso diverso quando sono dedicate ai primi. Chi ha figli è obbligato al futuro.
a proposito del contesto evocato,giustamente, da Christian Raimo: il fondo che chiudeva la prima pagina del domenicale e che, per ironia della sorte, precedeva l’articolo di raimo, firmato Polaris ( Riotta, I suppose), era animato da un violento livore nei confronti del popolo dei blogger. Una prosa teppistica e rabbiosa (alcuni stralci: ” l’irrilevanza dell’informazione online non professionale, fino a un mondo di 6 miliardi di blogger, ciascuno scritto e letto solo dal proprio autore” dove ” è lecito far circolare qualunque sesquipedale asinità, esagerazione,calunnia,grottesca teoria del complotto”. La chiusa finale è poi davvero ‘apocalissofila’: “nulla più resterà se non un roco slogan in un sito aggiornato da mesi, una foto ingiallita su facebook, una correzione acida di wiki che nessuno mai leggerà, fossile online della distruzione…”). Ecco: oltre che il deragliamento subito dalla prosa riottana, solitamente tutta understatment e buone maniere epolitically correct, colpiva la stridente discordanza fra l’appello alla comunità che viene di Raimo- condivisibile, come la gran parte delle cose che scrive- ,il suo richiamo, fra l’altro, ai blog intesi ‘come forma minima di resistenza’ e il livore espresso dal direttore del quotidiano della confindustria verso quello che per lui, invece, è ‘un semplice rumore di fondo’. Quindi,celiando,ma non troppo, chi è Riotta per Raimo ? E lui per Riotta?
forse mi spiego male, ma è facendo le cose che uno si spiega come le vuol fare,
io per me quello che posso dire è questo:
io vorrei mettere insieme le idee che appartengono a un’area culturale, come?
Io vorrei fare un giornale, primo. Ma questa è la mia aspirazione.
Io vorrei che questi intellettuali che non servono mai se non a fare discorsi catartici si mettesse in gioco, e si responsabilizzasse rispetto alle nuove formazioni politiche che si formano. Che rapporto avere con Vendola? che rapporto avere con Boeri? Che rapporto avere con la banda Grillo? Che modalità di intervento usare con quello che già c’è?
Il paesaggio editoriale è disastroso: unità, riformista, manifesto e liberazione sono tutti nella crisi più nera.
Ora a me piacerebbe fare un giornale e piacerebbe che degli editori si imbarcassero in quest’idea, come per esempio un po’ è accaduto, sta accadendo con alfabeta. Nel frattempo a me piacerebbe imporre un modello linguistico anche sulla stampa mainstream. Non scrivo sul sole 24 ore in un modo che mi serva per posizionarmi. Come non ho ricominciato a collaborare al manifesto assiudamente quando c’era qualcosa da guadagnarci, non mi pagano, non si sa che fine fa il giornale fra due mesi. Se si vuole fare un gesto di sinistra per dire, sarebbe carino abbonarsi (detto a latere)
Ora, mi sembra stupido dare soluzioni a una domanda così aperta con: a me piacerebbe fare un giornale, ma ovviamente non è un soluzione, è la declinazione di un problema.
Potrei dire che mi piacerebbe piuttosto che la discussione si incanalasse nella comprensione più analitica di questo vuoto.
Perché in Italia per dire l’unico settimanale che vende e crea comunità è Internazionale?
Perché l’unico giornale di sinistra che ha incrementato le vendite è il Fatto?
Perché negli anni 2000 si facevano le manifestazioni contro la guerra e si andava a Genova e oggi il massimo è un B Day?
Perché il potere del salario in Italia in vent’anni si è così azzerato?
Perché ieri gente del Pd come Bettini diceva: con Montezemolo subito e Montezemolo diceva detassiamo i salari? E’ la soluzione palliativa per rifargli prendere potere d’acquisto?
Perché l’articolo di Riotta era così livido, e perché De Bortoli ha scritto quella lettera così feroce nei toni ma anche problematica nella sostanza?
Non mi piace assolutamente fare dei discorsi che mettano giusto per narcisismo in circolazione l’idea che si sta male proprio, e scrivere appunto l’ennesimo articolo sul non accontentarsi dell’analisi.
Non mi sto accontentando dell’analisi, ma un’analisi va fatta.
è come se più parole si aggiungono più diventano insufficienti ed inutili – è come un blob infinito da cui non si viene a capo, intelligente quanto si vuole ma de facto inutilisimo, vano
e con il risultato che ciascuno rimane nel proprio malessere
ad eccezione dei non tanti che stanno nel proprio esclusivissimo benessere
anche le cose più intelligenti e belle che si leggono un’ora dopo non servono più ad alcunchè
so che è molto rozzo quanto ho appena scritto, ma mi sembra per davvero che sia così
ma forse le parole ritrovano la loro enorme importanza quando si accompagnano ad una esemplarità di comportamento e di gesti, e allora quando venti operai che stanno perdendo il lavoro salgono su di un tetto le loro parole acquistano di forza, sono ascoltate, e la complessità e il dramma della situazione che stanno passando si mostrano per intero a tutti quanti; le parole da sole non ce la fanno più?
un cordiale saluto
Adelelmo
No, Adelelmo, sembra che le parole, da sole, non ce la facciano più.
Forse le parole da sole non sono mai state sufficienti.
Le parole servono davvero quando precedono, annunciano un atto, oppure quando lo seguono, lo raccontano, lo commentano.
In mancanza di atti la parola perde di senso, viene ignorata, si depotenzia, si riduce a rumore di fondo, cui nessuno presta attenzione.
È quello che sta accadendo da anni: eppure tutto viene prima o poi detto e spesso in modo molto chiaro, efficace.
Ma, metti, bastano quattro uova marce scagliate sul logo della CISL, più due candelotti fumogeni depositati in verticale davanti all’ingresso della sede di quel sindacato, a scatenare una tempesta rivelatrice della temperie culturale che stiamo vivendo: quello che in tutta evidenza è solo un atto di protesta (basta guardare il video), sottolineo “atto”, per tutta l’informazione diventa “L’ATTACCO ALLA CISL”.
Ecco che da quell’atto ne emerge un primo dato: le parole sono orientate, cioè viaggiano in una direzione, ma non in quella opposta, hanno efficacia solo se contribuiscono al consenso per lo status quo, ma diventano inutili, non ascoltabili o ascoltabili da troppo pochi, quando suonano di dissenso.
Quindi non tutte le parole non ce la fanno più, ma solo quelle che vorrebbero, inutilmente, strappare il velo cognitivo che nasconde la così detta realtà, una realtà che vede i dominanti diventare sempre più forti e più ricchi e i dominati sempre più deboli e poveri.
Eccetera.
Una precisazione.
È in questi decenni che la parola dissenziente ha perso efficacia. In passato, cioè a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, fino ai primi Ottanta, il dissenso godeva di una fascinazione di massa, sovente non-giustificata. Oggi la ricettività si è rovesciata.
però forse converrebbe interrogarsi sulle ragioni per cui giornali come il manifesto, liberazione e l’unità si trovano in questo stato agonico, se la soluzione sia non pagare i collaboratori, mendicare sottoscrizioni, fare appelli per collette ecc; oppure cambiare qualcosa, cercare di non fare la fine dei partiti di riferimento senza più rappresentanza parlamentare. l’unità, per esempio, ha assunto col tempo un formato e dei contenuti da free press, solo che a pagamento e andandosela a prendere in edicola. alias del manifesto è diventato ostico e autoreferenziale, e non soltanto per lo sprovveduto common reader. liberazione somiglia a babilonia, l’organo dei gay, sembra che parli solo di scioperi, zingari e omofobia, temi fondamentali ma che non possono esaurire un quotidiano nazionale. tutti e tre hanno delle versioni online misere (l’unità è la meno peggio). ieri leggevo di howard kurtz, il columnist del washington post passato al sito di notizie daily beast. è un segnale importante, è la strada da seguire. mi piacerebbe leggere un giornale concepito da raimo, è un’impresa improba ma gli auguro di farcela. bisogna immaginare sisifo senza telecomando.
ecco, questi ultimi commenti di tashtego mi aiutano a delineare delle sensazioni, idee confuse che mi suscitano le parole di Christian: mi piace sul serio questa sua nuova spinta propositiva e rara carica aggressiva (credo di averlo visto raramente così incazzato ;-)) (e mi sembra un bene, inquesto caso) – contemporaneamente però, c’era una sua espressione che mi disturbava terribilmente, ma proprio di quelle che, per intenderci, devo sorvolare, devo far finta di non aver letto, per non prendere a pugni lo schermo, tirare giù qualche suppellettile, fare per qualche minuto a ping pong con l’arredamento……e quell’espressione che mi rende furiosa nella sua dimensione privata è in fondo lo stesso disaccordo che ritrovo nella sua conclusione politica: perché essere resposabili alla fine significa riposizionarsi su questo stesso scenario insoddisfacente (in definitiva non uscirne)? perché essere responsabili significa proseguire su questo binario che mi fa dare di matto e prendere i muri a testate come capire che è definitivo e senza scampo questo mio eterno ruolo di “dover badare alla casa”(!!!!) che non ho scelto io, che ho ricevuto come eredità e condanna genetica da cui non sono ancora riuscita ad affrancarmi e non invece crearne una mia, tutta da capo, completamente nuova, autonoma e totalmente DISSENZIENTE – esatto- come scrive Tashtego
grazie @eFFe
infine: chi lo dice che non si possa costruire sul vuoto? perché arrendersi a vivere il vuoto come atto d’intimidazione?
‘mi piacerebbe leggere un giornale concepito da raimo’.
raimo, il papa straniero. siamo a cavallo.
Ho fatto il conto, qui sono intervenute circa 25 o 26 persone, la metà in polemica tra loro e con raimo, anche chi in teoria è d’accordo [con uno e in disaccordo con altri due] sulla negatività della situazione, la declina in modo diverso dagli altri, e mi ci metto.
questo vuol dire che non c’è un terreno comune praticabile se non nella negatività, e dà ragione al citato polaris almeno quando accenna [arronzo un po’] all’irrilevanza dei blog personali, dà soli si sta meglio, si può essere quasi sempre se non sempre d’accordo almeno con se stessi.
se la rete non è un terminale di realtà ma produce soltanto se stessa diventa per forza uno sfogatoio, perciò “vedersi”, avere rapporti personali, discutere faccia a faccia è fondamentale, un primo piccolo nucleo politico, su questo sono d’accordo con Raimo
poi però c’è anche la situazione data, una società sempre più povera, la gente sempre più spaventata del futuro, alla ricerca di ricette sempre più rapide e alle quali tuttavia non crede per togliersi dai guai e nessuno che venga riconosciuto come capace di proporle, tranne un quaranta % del paese che vota Berlusconi e lo vede come demiurgo
sarà lunga e sarà dura, ma perché mai non dovrebbe essere possibile? perché mai non si potrebbe trovare un terreno comune nelle differenze? tocca alla generazione di raimo, i più vecchi o sono troppo amareggiati o non possono che riproporre le loro vecchie concezioni del mondo, possono magari essere un bel racconto, ma sempre un vecchio racconto
fuori dalla rete, però, che deve essere solo il raccoglitore di pratiche messe in atto nella realtà
ormai sono anni che navigo e commento ed è evidente che ogni discorso fatto qui lascia il tempo che trova se non vive che qui
da tutti gli interventi a cominciare da quello di Raimo si avverte, molto forte, una sensazione di smarrimento, impotenza, ma anche desiderio di non rassegnarsi a questa lenta e prolungata agonia, a cercare una una via di uscita;
Gi “intellettuali” poi, a giudicare dai loro interventi che ho seguito in questi ultimi mesi, piu’ degli altri avvertono la profonda crisi del ruolo, – di identità – che parte da una progressivo degrado della loro autonomia, economica ancorprima che culturale, della capacità di ascoltare (franco forlani parlava di “écoute”) e soprattutto di parlare alla società.
Gli intellettuali cioe’ avvertono sulla loro pelle che sono giunti a un bivio:
– integrazione-omologazione nel mercato culturale, perdita di autonomia e creatività del loro lavoro
– rivendicazione dell’autonomia e della funzione critica nei confronti della società che comporta una marginalizzazione, cioe’ perdita di status economico e sociale.
questa è la situazione e non m ipare bella per niente.
Ma secondo me, (insisto a costo di sfinire) c’e’ un elemento che si sottovaluta:
Non siamo per fortuna tutti omologati, rassegnati e consumatori
C’e’ ancora per fortuna un gran numero di lettori
persone cioè serie e rigorose che si informano leggono e apprendono. Persone che hanno una scala di valori dove in cima alle priorità c’e’ ancora la qualita’ della vita, delle relazioni sociali, il senso del bene comune.
persone che chiedono e pretendono una cultura alta, di qualità.
Questa domanda sotterranea inespressa, ma tangibile (basta dara un’occhiata su anobii tanto per fare un esempio), non viene soddisfatta per niente, ne’ dalla tv ne’ dai giornali.
Allora tanto per cominciare:
la costruzione di una civiltà culturale come la chiama Raimo, o di una “comunita’ di lettori come la chiama domenico pinto, puo’ nascere solo a partire da un riconoscimento di questi due poli (autori-lettori) che pure ancora esistono ma che non si conoscono, non comunicano tra di loro o meglio non trovano un canale di comunicazione.
io lettore cosa chiedo?
Chiedo agli intellettuali coerenza etica tra le idee e i comportamenti, auonomia assoluta eed elevate competenze (guai al venir meno al rigore e alla qualità del loro sapere)
quindi?
quindi penso che, come diceva pecoraro, tutti si rendano conto che la misura è colma, che non serve a niente galleggiare con i compromessi le giustificazioni le illusioni.
Bisogna trovare altre strade, per l’appunto nuovi canali di comunicazione per innestare il coagulo di quella civiltà culturale di cui parla raimo. E soprattutto eliminare la distanza abissali che esiste ormai tra le parole e i comportamenti.
manifesto:
il manifesto è un fenomeno unico in italia e non c’entra neinte con l’unita e liberazione.
di fatto è l’unico giornale indipendente e autogestito.
perche’ sta morendo?
semplice perche il governo ha tagliato i fondi.
Ecco, Raimo, un giornale, è proprio quello che manca, di sinistra come il Fatto (di sinistra come Di Pietro, Grillo e Fini, verso i quali ondeggia la linea editoriale; di sinistra come Travaglio, che infatti sostiene lui stesso di essere di destra; di sinistra come Riccardo Chiaberge, che vi scrive e vi tiene il suo blog, non a caso fondatore del Domenicale sul sole, 24 ore su di loro gli altri se ne stiano pure all’ombra; di sinistra come il giustizialismo eccetera eccetera)
Quello che manca, invece, è un’analisi sui contenuti del nostro discorso, sul linguaggio attraverso il quale produciamo discorso, sulla mancata performatività, si dice così, delle nostre parole, sempre più prive di motilità (e motività…).
Sulla scuola, che dire? Anche la Confidustria si batte, da decenni, per una scuola che formi meglio (per fini produttivi e industriali). Scherzosamente parlando, puro noi dovremmo battere, alcuni di noi anche battere e basta, come ci suggerirebbe l’istinto, senza alcuna vergogna (non parlo solo di pulsioni sessuali, ma anche di quelle, per chi ce l’ha)
Più propriamente, dovremmo batterci, per esempio, rimettendo in pista gli argomenti già usati da Pasolini contro una scuola funzionale a confindustria e quindi alle esigenze governative. Pasolini, lo ricorderete tutti, urlava contro la scuola media, che secondo lui andava abolita (anche secondo me).
Dovremmo batterci adottando linguaggi e comportamenti che stiano almeno antipatici a Confindustria, almeno quanto basta a farli diffidare un po’ di noi quando ci fanno scrivere sulle loro pagine culturali.
Dovremmo batterci per inventare nuove strutture sociali che diano forma all’apparente disordine, non aiutare il governo nelle sue politiche di ordine, non legittimando ministri dell’interno che fanno male a priori, i quali adottano politiche repressive di ordine che non possono essere che di esclusione per chi si allontana dalla linea mediana, di solito i poveri… I quali ministri dell’interno da mo’ che immaginano forme di repressione per chi non si omologa (gli immigrati debbono adeguarsi ai nostri costumi!) o protesta (si veda la criminalizzazione immediata per chi ieri ha protestato, in modo senza dubbio colorito, ma non violento, contro una linea sindacale ritenuta dannosa per i lavoratori).
Dovremmo batterci contro le prigioni, immaginarie, simboliche e reali, anche limitandosi a usare gli strumenti che ci hanno lasciato in eredità gli zii e nonni del novecento, scuola di Francoforte e Foucault, per esempio. Facendo prima di tutto protesta contro le prigioni reali: contro i criminali CIE! Contro la disumanità nelle carceri ordinarie, nelle quali gran parte dei detenuti sono tossicodipendenti ed extracomunitari in attesa di giudizio nei confronti dei quali il pestaggio è prassi quotidiana. Combattere la violenza praticata contro gli indifesi, del resto, è un modo per aumentare la libertà di tutti anche fuori dalle carceri, sempre che di libertà ci sia bisogno…
Bisogna batterci, infine, per una dialogica che sia inclusiva e non il contrario, che non metta MAI in campo la persone fisica come bersaglio delle proprie opinioni, neanche quando sono elogiative… Invece, qui e altrove, spariscono i dissenzienti, come negli stati totalitari: l’ho potuto io stesso osservare da quando pratico internet quotidianamente, nell’ultimo anno, perché dissentire sta diventando sempre più un crimine, con il consenso tacito e a volte soddisfatto di molti bravi articolisti e commentatori.
@raimo
“Potrei dire che mi piacerebbe piuttosto che la discussione si incanalasse nella comprensione più analitica di questo vuoto.
Perché in Italia per dire l’unico settimanale che vende e crea comunità è Internazionale?
Perché l’unico giornale di sinistra che ha incrementato le vendite è il Fatto?
Perché negli anni 2000 si facevano le manifestazioni contro la guerra e si andava a Genova e oggi il massimo è un B Day?
Perché il potere del salario in Italia in vent’anni si è così azzerato?
Perché ieri gente del Pd come Bettini diceva: con Montezemolo subito e Montezemolo diceva detassiamo i salari? E’ la soluzione palliativa per rifargli prendere potere d’acquisto?”
Tutte queste domande han già trovato mille analisi e risposte,e anche appropriate.
Lei crede che un altro giornale che faccia riferimento o che altro a Vendola e agli altri che cita,p.e., sopravviverebbe in questa jungla mediatica?
Quello che in quest’ambito eventualmente manca in Italia è un vero giornale LIBERTARIO che non si leghi a nessun carrozzone ideologico (son tutti ultraschierati)
Solo con un tale intento,ovviamente accompagnato da altre istanze ed esperienze,potrà formarsi una nuova civiltà culturale,come lei la chiama,altrimente resterà un foglio qualunque legato ad una determinata area politica,e non culturale,e destinato a far la fine degli altri che lei enumera..
Una civiltà culturale comprende sempre diverse voci,anche in contrasto tra loro,ma orientate ad un unico fine,che sembrerà banale:valutare la verità di ogni fatto senza paraventi ideologici a priori.Solo la crescita di uno spirito critico non strumentale potrà condurre a questa nuova civiltà.
Altrimenti è meglio lasciar perdere questa parola.
La parabola berlusconiana sembra,ripeto sembra,alla fine,ma dopo?
Avremo un postberlusconismo che è l’altra faccia di una stessa medaglia,con gli stessi giochetti uguali e contrari,con le stesse strumentalizzazioni,e che è lontano mille miglia da una supposta e NUOVA civiltà culturale?
Civiltà è una parola grossa,impegnativa,che deve comportare altri strumenti da quelli in uso.
Lei si è assunta un’improba responsabilità a parole,speriamo che seguano i fatti.
PS- Che il Fatto sia un giornale di sinistra è alquanto discutibile,meglio anti B,che non necessariamente vuol dire essere di sinistra.
la crisi del manifesto spiegata da gabriele polo
Da alcuni mesi il governo ha azzerato il finanziamento pubblico dell’informazione cooperativa e politica, cancellando la legge sul diritto soggettivo, sostituendolo con un «fondo» per l’editoria, ancor oggi del tutto indefinito. La conseguenza, per quel che ci riguarda, è il dissolversi del 25% delle entrate.
Da alcuni anni le nostre vendite sono in costante flessione e – per dare qualche cifra – nei primi nove mesi del 2010 le copie diffuse in edicola sono scese quasi del 20% rispetto allo stesso periodo del 2009, mentre gli abbonati sono il 10% in meno dell’anno precedente.
Tra finanziamenti dissolti e copie perse stiamo soffocando: se non riusciremo a invertirne il corso «naturale», questi due fatti – soprattuto il primo, per rilevanza quantitativa – porteranno in pochi mesi alla chiusura del manifesto.
Sul primo punto c’è poco da aggiungere a ciò che è stato detto mille volte e che i nostri lettori conoscono quasi a memoria. Cancellando un diritto di legge e sostituendolo con una concessione di bilancio, il governo in carica non fa altro che perseguire per via amministrativa uno dei suoi obiettivi politici di fondo, la distruzione del pluralismo e l’omologazione dell’informazione. In «cambio» dei quasi quattro milioni di euro che la legge ci garantiva, l’esecutivo ha promesso (a noi e a tutte le altre testate cooperative e politiche) qualche briciola tra gli avanzi di cassa di fine anno: quanto e quando non è dato sapere e così non possiamo nemmeno chiedere un prestito bancario. Il tutto avviene nel quasi totale silenzio o, persino, con la complicità di chi – contro l’odiato intervento pubblico in economia – elogia le capacità regolatrici del mercato e! finge di credere che sia libero. Liberali autentici – curiosamente tra loro ci sono i più focosi avversari del premier – e rigorosi assertori della legalità come soluzione per tutti i mali. Dicono sciocchezze, ma al momento parecchio diffuse. Contro cui continueremo a batterci finché avremo voce, per i nostri diritti e i relativi finanziamenti pubblici.
Sul secondo punto della nostra crisi il discorso sarebbe parecchio più lungo, editoriale e politico: dalle rivoluzioni in corso nel mondo dell’informazione alle involuzioni su cui si è avvitata la sinistra europea, quella italiana in particolare. Noi stiamo dentro l’uno e l’altro corno del problema, al tempo stesso vittime e protagonisti.
Non possiamo venirne fuori da soli, ma non possiamo nemmeno considerarci senza colpa. Se il giornale «perde copie» e appare meno utile di un tempo è perché il nostro «media» funziona male e il nostro mestiere ha perso in vivacità e curiosità; perché siamo diventati politicamente pigri, rischiando il conformismo. Siamo parte (in causa) di una crisi generale, la cui risoluzione è tutta da costruire. Cosa che non avverrà dall’oggi al domani, che non dipende solo da noi, ma che non possiamo attendere ci cada dal cielo. Di tutto questo dovremo continuare a parlare, «cercando ancora», come diceva Claudio Napoleoni.
Se saremo ancora vivi. Perché questo non è affatto certo, i numeri ci porterebbero da tutt’altra parte. La «congiuntura» sopra descritta parla di collasso imminente. Per affrontarlo non basta nemmeno più lo stillicidio degli stipendi in perenne ritardo: non basta cioè continuare a lavorare in una condizione che da qualunque altra parte avrebbe portato al blocco totale delle attività (l’ultimo stipendio pagato quest’anno risale ad aprile e da lì si è andati avanti a piccoli acconti). Né è risolutivo lo stato di crisi che lo scorso 16 settembre abbiamo chiesto al ministero del lavoro, per cui – da quella data – 25 di noi sono in cassa integrazione (a rotazione) per due anni e quattordici soci della cooperativa andranno in prepensionamento nel corso dei prossimi mesi (portando il numero dei dipendenti sotto quota settanta, mentre solo cinque anni fa erava! mo 120). Ma, si diceva, non basta nemmeno questo «sacrificio umano», perché la fine del finanziamento pubblico mette in discussione la stessa continuità aziendale. E’ in questo panorama che dovremo ripensare il nostro lavoro (il quotidiano che facciamo, il sito, i supplementi e gli speciali), il suo senso, la sua utilità, la nostra relazione con i lettori e con il «nostro mondo»: cioè il come esserci e fare politica nella particolare forma di un giornale. Coscienti che l’esito non è scontato. E, contemporaneamente, tenerci in vita facendo quadrare almeno un po’ i conti.
Questo è lo stato dell’arte. La cosa più urgente, dopo il taglio dei finanziamenti pubblici, è sostituire l’editore pubblico che si defila – lo stato – con l’unico altro editore pubblico possibile – i lettori. Per questo «riapriamo» una sottoscrizione che non dovrebbe finire mai e anticipiamo la campagna abbonamenti 2011, chiedendo a tutti di partecipare e di promuoverla. Entro i prossimi tre mesi, per evitare che con la fine del 2010 arrivi anche la fine del manifesto.
al mio paese i giornali li chiamano ancora: carta da culo
credete davvero che nel contemporaneo le culture si formino in quattro e quattr’otto, sui pezzi di carta? fondando nuovi partiti? scrivendo buoni libri? aprendo biblioteche? girando buoni film?
berlusconi ci ha messo 25 anni, molti miliardi di lire, molti milioni di euro, un certo numero di malversazioni, per costruire il paese culturale demmerda (fatto prevalentemente di brave e smarrite persone) che lo avrebbe portato al punto in cui è oggi.
questa è un’onda lunga e massiccia di consenso ed è prima di tutto per il sistema, poi all’uomo che in questo momento lo rappresenta.
può darsi che imprevedibilmente si franga, ma il dopo potrebbe persino essere peggio.
non credo che gli intellettuali non esistano più, credo solo che non contino più un cazzo e che sarà così finché il dissenso non ruscirà a conquistare uno sbocco mediatico non trascurabile.
è incredibile come si seguiti a sottovalutare il ruolo della televisione nella storia contemporanea.
eccetera.
@pecoraro
credo che le belle parole le buone idee, i buoni propositi, gl islanci ideali, il desiderio di democrazia e di eguaglianza, la valorizzazione delle relazioni umani e del bene comune, si misurano con i comportamenti individuali, con l’assunzione di rersponsabilità in prima persona.
Credo in quei ragazzi giornalisti, squattrinatri e precari, che in silenzio, in solitudine e senza onore, laggiu’ in calabria, in quella terra infestata dalla mafia dal marciume politico, dai veleni tossici, dalla corruzione, rischiano ogni giorno la vita.
http://www.blogger.com/%20http://avamposto.blog.marsilioeditori.it/2010/08/01/minacce-di-morte-a-lucio-musolino-dodici-i-giornalisti-nel-mirino-in-calabria-dallinizio-dellanno/
sono stufo di quelli che si lamentano a parole, protestano a parole, fanno i rivoluzionari a parole, denunciano i misfatti e gli errori degli altri, del sistema, della societa’.
questa società siamo noi, noi tutti, gli altri siamo noi.
e per cambiare le cose non ci vogliono le tv, le tv servono per mascherare, oscurare e nascondere la realtà.
“una piccola civiltà culturale” come quella messa in piedi negli anni 80 da molti scrittori spagnoli,di solito in esilio, con la cordinazione invisibile di paco ignacio taibo II(credo che Bruno Arpaia la chiamasse Red Patito),che con la scusa di rilanciare il romanzo combattevano i poteri forti cercando di far guadagnare terreno ai diritti civili.Con la complicità della rete.Magari rinunciando a qualche croissant..
http://www.gopop.gr/mp3/Herbie%20Hancock%20-%20Rock%20It.mp3
Vado ripetendo da un po’ una affermazione che, quando va bene, viene presa come una interessante provocazione quando è invece realtà, obiettiva, documentabile: la dialettica fra maggioranaza (odierna) e opposizione è, oggi, più moscia di quella che ieri animava le diverse correnti interne alla Democrazia Cristiana. In buona sostanza c’è un partito, oggi in italia, le cui correnti hanno i nomi dei partiti che troviamo sulle schede elettorali. Votiamo per delle correnti, ma l’unicità del partito è ben salda nelle proprie certezze ideologiche di base condivise da tutte le sue correnti. Poi gli scazzi ci sono e magari anche forti, ma su questioni di stile, perlopiù. L’anomalia non è il vecchietto B., l’anomalia è l’assenza di una opposizione di programma, di idee; ideologica, quindi. In questo vuoto pneumatico potrebbe inserirsi l’intellettuale (qualsiasi cosa il termine significa) se fosse in qualche modo portatore o interprete di qualcosa di effettivamente diverso, ideologicamente diverso. Ma sembra che oggi la stessa parola “ideologico” ripugni e terrorizzi. Come se non fossimo schiacciati et obnubilati dalla più potente e pervasiva delle ideologie.
L’unica cosa è scegliere la clandestinità. Però ci vogliono soldi, tanti soldi. Con i proventi degli abbonamenti si può fondare una TV. Non una di quelle, ormai innumerevoli, che pullulano su Internet. No, questa sarà una TV vera che, da un luogo ultrasegreto (meglio fuori dai confini nazionali) interferirà sulle frequenze di Rai-Mediaset con spezzoni culturali ad hoc. Roba che non si trova su Rai Storia, insomma. Letture integrali dei capolavori di Lagioia, Raimo e altri. Denunce con nomi e cognomi dei corrotti e dei corruttori nella politica, nel giornalismo, nell’editoria, nell’urbanistica. Interferirà durante le pubblicità e, al posto di un profumo o di uno yogurt, trasmetta le cifre dei bonifici bancari dei compensi di Gerry Scotti o di Michele Santoro (li appaio proditoriamente).
Dopo qualche mese, noterete un mutamento antroplogico nella popolazione italiana. I suicidi aumenteranno, specie nelle fasce d’età 50-60 anni. Bande di teppisti ultrasettantenni saccheggeranno i supermercati. Berlusconi e tutto Montecitorio, da una parte all’altra dell’arco costituzionale saranno costretti a fuggire alla Cayman. La mafia non potrà resistere all’impeto delle nuove generazioni e si dissolverà come un incubo alle prime luci dell’alba.
I giovani si siederanno in circolo a riflettere sul destino di questa nazione. Una nuova vita sorgerà dalle macerie.
La destra (qualunque cosa sia) verrà abolita. Rimarrà solo la sinsitra che si dividerà in sinistra sinistra e sinistra e basta. La sinistra e basta dopo un po’, però, mostrerà inquietanti segni di volersi sganciare da logiche insurrezionali troppo strette. Alcuni elementi della vecchia mafia dissolta si intrufolerranno nelle file della sinistra e basta. La sinistra sinistra sarà costretta a far fronte. Sarà guerra civile. Molte teste cadranno, ma è il prezzo da pagare per un futuro che sia futuribile.
Se il politico coincide con il pubblico e il pubblico con il televisivo, non c’è dissenso che non sia puramente spettacolare.
Per Santoro, avere in studio De Magistris o quel mignottone della Santanchè significa in primo luogo avere adeguatamente farcito il polpettone. I giornalisti calabresi minacciati dalla mafia? Gli si dà voce, e intanto si lascia dire alla Samtanchè che questo è il governo dell’antimafia.
Allora?
Disertare il politico che è pubblico che è televisivo e ritornare al comune.
Piccole comunità di discorso e prassi dove il senso è condivisione.
L’equivalente di ciò che furono nel medioevo buio i monasteri.
L’ si perpetua e da lì rinasce la civiltà
Scusate il sarcasmo stupido. Il sarcasmo è di destra, l’analisi è di sinistra. Si dice così no? Io che sono uno stupidotto qualunque nel 1979-80 (quando Raimo probabilmente andava all’asilo) ho rischiato di prenderle dai fascisti (ne ho conosciuti parecchi) perché mi sembravano solo degli ottusi fanatici. Qualche tempo dopo ho rischiato di prenderle dai compagni (ne ho conosciuti MOLTI di più), perché mi sembravano ottusi e fanatici quanto gli altri. Ero molto giovane, un ragazzino stupidotto e sprovveduto, ma la parte inconscia di me, unita alla matrice universale, mi ha bisbigliato in un orecchio “il conformismo è la radice di tutti i mali, di tute le violenze, di tutti gli orrori”.
Non sono sempre riuscito a dare retta all’inconscio-matriceuniversale.
Tanto è il desiderio di vincere la solitudine, di far parte di qualcosa, che la tentazione di adeguarmi mi ha vinto varie volte. Alla fine però ho sempre dovuto fuggire disgustato.
Quando sento che nel definire un individuo “di destra” lo si categorizza al ribasso (stessa cosa per “di sinistra”) sento una grande tristezza.
Liberarsi al più presto del tritume novecentesco. Avere il coraggio di guardare la propria miseria: questo è importante.
Berlusconi è il problema minore. Lo è sempre stato.
Anche Berlusconi sparirà dalla scena politica, specialmente di questi tempi che sta alquanto sulle palle all’amministrazione Obama ( un altro “santo subito” nobelizzato)
Il problema maggiore è il conformismo – paraculismo.
Ma ci vorrebbero volumi, altro che qualche commentino su un blog.
@massimo
Non male,non male….
@binaghi
crisi mistica-medievale….
@Valter Binaghi
condivido le tue osservazioni.
in questo paese ci sono molte piccole comunità che in silenzio e in solitudine fanno lavoro culturale, fanno resistenza culturale, diffondono valori: lavorano sui tempi lunghi.
Noi siamo accecati, masscrati e disorientati dalla cronaca. Le rivoluzioni quando arrivano nessun ose n’era accorto fino al giorno prima.
Quei ragazzi che in silenzio lottano contro i mulini a vento rischiando la pelle tutti i giorni e non guadagnandoci una lira ci fanno sentire così stupidi e inutili !
Mi pare che NI faccia da un po’ di tempo il solito gioco del piagnisteo. E giù discussioni infinite su come articolare il piagnisteo, se condire le lacrime di rimmel può essere più intrigante… ma magari una lacrima naturale sembra più vera… o forse fare una e una. Beh, forse salterà anche più di una generazione, forse il Nano non è poi così male – certo… fosse nato qualche decennio fa sarebbe stato peggio di Pinochet, oppure non sarebbe stato affatto -, ma oggi… suvvia… ammettiamolo… ce l’ha fatto quadrato e senza olio di ricino. Ma quante generazioni dovranno saltare prima di capire che Spaesamento di Vasta non è per niente un gran libro, è anzi pretenzioso, puerile, velleitario e inutilmente riduzionistico. Quando si tornerà alla complessità, unico vero antidoto alla destra, piuttosto che alle contrapposizioni di slogan a slogan?
Ho apprezzato l’articolo di Christian Raimo, soprattutto nel suo spirito, attesa l’ovvia, immane difficoltà di tradurre sentimenti (largamente condivisi) di rifiuto dell’attuale realtà culturale, politica ed economica in percorso fattivo di cambiamento.
La rete può essere un punto di partenza ma, anche già da qui, solo gestendo una discussione accortamente su una traccia di discorso(magari con l’aiuto di esperti), in modo propositivo, con civiltà e pazienza, restando sui temi, senza battute offensive né sconsolate. Questo per non girare a vuoto. E’ innegabile la complessita. Molte le domande, pensando a un progetto di cambiamento. Ad esempio: 1. Cosa si vuole arrivare a fare (una check list delle cose che non vanno e su cui intervenire, e come? una Carta dei diritti? una proposta di modifica di parte o dell’intera Costituzione? un nuovo, articolato progetto politico, economico, culturale, oppure limitato a un solo tema?); chi coinvolgere nel dibattito, e come articolarlo, su quale spazio e con quali modalità? elaborata una proposta, come andarla a realizzare (ex novo, creando una forza politica che abbia rappresentanti in tutto il territorio? appoggiandosi o relazionandosi a forze politiche già esistenti? E’ evidente che per fare questo c’è bisogno di un gran lavoro, umile e concreto, chiaro e definito negli intenti e nel percorso. E c’è bisogno di un’assunzione di responsabilità e di disponibilità, di mettersi in gioco con nome e cognome, in tempi di crescente ritrazione da tutto questo.
Giovanni Nuscis
[…] che le conferisce quell’aria esotica da principessa disneyana) la compulsione di migliaia di cliccatori che dell’Iran sanno poco o niente. Allora, che strano tipo di democrazia è quello in cui la […]