sangue di cane
Che cos’è il sangue di cane. Che cos’ha di speciale la ferita, la cicatrice del randagio di strada, lo squarcio improvviso del compagno domestico aggredito da un altro cane, più forte. Il cane è l’amico leale, il servo, lo schiavo disprezzabile, e dunque l’insulto per chi sta sotto, umiliato dalla sua stessa fedeltà. Il figlio di. La creatura rabbiosa da sopprimere, la cosa storta che non si può giustificare. Il sangue di cane è la vita reietta, antieroica, le croste nere, la cancrena senza redenzione. È la non appartenenza, il male senza gloria che si concentra in un solo essere, ne fa capro e carnefice di se stesso prima di tutto. Si può amare una cosa storta così, il sangue d’un cane? Lo si può fino a non vedersi più, fluire dentro la lordura che scorre dalle vene, esserne abbagliati, attratti, arrendersi alla miseria di fondo che è in tutte le vite, le richieste imperfette d’amore e l’amore imperfetto mischiato al desiderio di aiuto, conforto, stordimento, eccitazione?
Succede all’io narrante e succede al lettore, tirato senza fiato nella scrittura del primo potente romanzo di Veronica Tomassini, Sangue di cane, appunto, appena uscito per la neonata casa editrice Laurana. Il sangue di cane è qui l’amore, “un amore polacco” e siracusano, sbagliato fin da subito, tra una ragazza siciliana della media borghesia, poco più che ventenne e un clandestino semaforista, alcolizzato, bellissimo, fragile, violento – la versione non addomesticata di un cane, un lupo, costretto in una città mai davvero conosciuta, sempre percorsa nei suoi rifugi più bui, nella sua indecenza: case sventrate di morti viventi, la caverne dove agonizzano gli immigrati senza dimora e i barboni, i covi di pidocchi e rogna, il parco senza respiro tra gli alberi, scenario delle voglie e disperazioni degli ultimi, il loro stallo infinito, ripetitivo, senza apparente sviluppo anteriore o futuro. Ma il sangue di cane è anche la qualità della scrittura, un vortice densissimo e carnale che torna più volte su se stesso, mirando al centro più che alla via d’uscita – una lunga lettera, un monologo delle passioni senza la ragione, o della ragione che delle passioni deve tener conto, che deve in qualche modo accettare il loro irrimediabile patetismo, la loro ostinazione, le piccole superstizioni con cui si puntellano all’osso dei sentimenti e della sopportazione. Veronica Tomassini scrive l’autenticità del dolore e del disagio, per niente garbato o assolutorio, scrive come quando si grida urgentemente, anche se il grido sta tutto dentro, chiuso dove di solito nessuno vede o ascolta, scrive con una voce che fonde altre voci, che non ha vergogna, non si vergogna di stare talvolta sopra le righe, farsi retorica e supplicante, rendere tutta la pazzia egocentrica di un certo amore, perfino se è tutto da biasimare, incomprensibile per i familiari, per l’opinione della gente.
La scrittura si fa di volta in volta lirismo assurdo e famelico; frasi secche, definitive; personaggi sciagurati che ritornano con i soliti verbi, il languore commovente di spettri che non sanno di essere già stati (tra tutti Piak, cane ubriacone di ubriaconi); piani temporali sfasati dove il trascorso e il presente si rincorrono nello spazio della narrazione come in chi cerca di venire a capo di un’esperienza cruciale e invisibile, che mette tutto a nudo – l’irrazionalità, la debolezza, la forza marcia e tenerissima del sesso, il bisogno dell’altro – che quasi toglie il senno in chi l’accoglie. Ed è così, con il coraggio di scrivere lasciando venir fuori la grana di vicende personali, di inferni dove l’abisso è più caro del bene, perché è tutto il bene a portata di mano, che questo libro diventa un feroce e mirabile spaccato sociale, che non ha niente delle cronache, del realismo da prima pagina, dei virtuosismi da intellettuale onnisciente, ma registra la pulsazione dell’umano, nel più infimo dei contesti, dove questo è meno delle mani tese con cui chiede spicci al semaforo, e il suo liquido prezioso si fa riga di fogna, materia infetta – che non si riscatta e non perde tuttavia la possibilità illusoria dell’amore “di poter essere quello che vuoi, non quello che devi, tanto meno quello che sei”.
P.S. (La prima notte ho dovuto interrompere la lettura per quella sensazione del cuore che sale per l’esofago e fa inceppare il respiro. Malinconia che diventa angoscia e pezzi acuti di tempo passato che premono come nuovi da sotto la pelle. Ho sognato i miei cani, i cani di mio padre, in una pozza di fango e acqua, agonizzanti, morti. Ho sognato che non sapevo salvarli né toccarli. Gli animali sono il pegno dell’amore. Sono la memoria del sangue anche se non vuoi ricordare. La sera dopo ho ripreso il libro, senza mollarlo, fino alla fine. Alla fine della storia, alla fine di quella me, che faceva male. Ed ho pensato che è vero – non si scopre niente nei libri che poi amiamo. Essi ci restituiscono qualcosa, piuttosto. Ci innamorano di nuovo di questo qualcosa, ce lo danno in pasto, ci fanno guardare ancora. Impietosi e vivi).
Un estratto
Al parco mi chiamavano la puttanella albanese. I barboni austriaci perlopiù. Ti cercavo tra i rovi da cui sbucavano i tuoi piedi e tu in orbita chissà dove, steso, finito. I soliti zelanti, in quel passeggio , perbene che costeggiava la via del Foro d’abitudine usavano maledirmi.
Io mi limitavo a tirarti su, riportarti in questa terra e semmai reggerti la fronte. Loro, invece, gli zelanti, componevano numeri d’emergenza e maledicevano, me per l’appunto.
Comunque tirarti su era un massacro, diavolo d’un polacco. Oppure ti trascinavo dai piedi finché non aprivi gli occhi, come facevi tu con Wojciech. Tu borbottavi, di norma, seduto innaturalmente, con il mento al collo; chiudevo la portiera dell’automobile, e imboccavo la via per l’ospedale. Pronto soccorso, bestemmia del medico di guardia, flebo disintossicante e fuori.
Poi in te si svegliava la bestia. La tua rabbia alcolica era dura a smaltire. Era il pedaggio sul finale, il capestro che mi teneva al laccio, irrimediabilmente, sul finale. Dunque sul valore libertà avrei molto da dire, non è praticabile fino in fondo, trattiene infiniti nodi scorsoi.
Via, era facile, il tuo alito di vino sulla schiena, era facile.
La libertà era perfino non piangere, dopo, non lavarmi, dopo, non coprirmi dopo. Soltanto anelli di fumo, lo sguardo fisso a Orione, il battito lontano di un languore notturno che emanava dal lungomare di levante.
Restava un mistero la relazione che stringeva l’uno all’altro. Cosa avevamo da fare insieme? Quale disegno bisognava completare?
Perché invece di allontanarci, quello strano amore ci vinceva, fino a stordirci? Non si estinse, Slawek, per autocombustione. Dovevamo augurarcelo magari. Così mettevamo un punto e ognuno per la sua strada. Avrei smesso di sperimentare pericolose alchimie, avrei messo a tacere ogni pretesa non convenzionale. Si può stare al mondo senza dare o ricevere calci d’asino.
Si può stare al mondo e basta.
Cos’era il mondo, però? Bella domanda. Dov’era finito il mondo degli altri? Quello che poi avrebbe dovuto essere un poco mio. Il mondo normale, diciamo. Non il meta universo, l’enclave di uomini-fantasma che rantolavano nascosti da una siepe, da una montagna di escrementi, in una pozza di vomito.
La vita degli altri mi appariva una pallida imitazione della mia medesima. Senza acrobazie, extrasistole, senza fiato corto e gambe veloci, cosa restava di niente? Niente. Per cui il mondo per me fino ad allora era niente? Sì, esatto. Era niente. Fino ad allora, fino a Slawek. A uno sputo da Slawek.
[…] L’articolo è qui. […]
talento stupefacente, davvero.
Egoisticamente, ti ringrazio per avermi fatto scoprire questo libro. Gli estratti mi piacciono molto e le parole che hai scritto a riguardo sono piene di passione!
Grazie, una recenzione che non molla neppure per un respiro.
Grazie.
clelia
“recensione” scusa. Ma forse non è stato un caso che sia arrivato quel termine.
c.
[…] [Questo articolo di Francesca Matteoni è apparso oggi in Nazione indiana]. […]
si però questo non è il suo primo libro è il suo quarto anche se ingiro si dice che è un estoridente infatti ha scritto l’aquilone, outsider e la città racconta. lo dice anche il mozzi se non sbaglio. pero se si vuole che sia un esordiente allora forse è un altro discorso un pò furbo. ma in bocca al lupo lo stesso allautrice.
Bella rescensione, segna la carne del romanzo. Sembra che il coltello della scrittura sia entrato nel cuore della lettrice, scavando lo spazio di una passione. L’appuntamento di lettura illustra la vita immensa del romanzo, cuore del sogno della lettrice. Il romanzo sposa la tela di fondo per i sogni. Immagino anche come il cuore battento di Veronica Tommasi ha incontrato il cuore di Francesca Matteoni nel dialoguo vivo del romanzo.
Evoca l’emozione fisica della lettura. A volte la lettura è un’esperienza violenta, quando il lettore incontro il suo propio corpo nella lettura, un’esperienze privilegiata.
Veronica Tomassini, recensione, cuore battendo,
Mi scuso per gli errori, è una vera malattia.
lo compro
questa recensione mi ha tolto il fiato
e l’estratto ha rincarato la dose
lo sento come scrittura vera dolente penetrante
c.
Cara Veronique, sì, hai proprio ragione a parlare di emozione fisica della lettura. Grazie per i commenti, mi auguro che i lettori di questo libro siano tanti e appassionati, come esso merita.
carmine: lo è! vera e dolente.
[…] da fare, Serino ha pure provato a far leggere l’autrice di Sangue di cane, inutilmente. La dolce Tomassini era visibilmente emozionata, ha detto qualcosa sull’affascinante parola […]
@Palmiro, infatti io non ho detto esordiente. ho detto primo romanzo. mi pare ci sia una differenza, in questo. non so dove stia la furbizia, invece.
Nel ringraziare pubblicamente Francesca Matteoni, confermo: questo è il primo romanzo di Veronica, come ha scritto Francesca e come abbiamo scritto noi nel risvolto di copertina. Gli altri suoi libri sono raccolte di reportage usciti sul quotidiano La Sicilia. Lo stesso Mozzi, nella pagina che ha dedicato al libro su Vibrisse, indica i titoli e i link ai libri precedenti, senza nasconderli.
Letto il libro,questa è una che sa veramente scrivere,e senza trucchi…!
Stile,stile…finalmente!
Recensione degna del libro (lo sto leggendo in questi giorni). Potente ed emozionante. Non concede niente al lettore. Al punto che a tratti lo stile scivola quasi nell’ermetismo e questo – a mio avviso – è il suo solo limite. Ma forse è anche il suo fascino.