Caso oggettivo
di Stefano Chiodi
Devono essere le tre o le quattro del pomeriggio. Un pomeriggio d’autunno inoltrato, o forse di un temperato inverno meridionale: l’anno è il 1941 o l’inizio del ‘42, il luogo una città imprecisata degli Stati Uniti, forse Washington. Il cielo è terso, il sole disegna lunghe ombre nette, come in una giornata di tramontana. Un angolo di strada visto leggermente in diagonale, l’asfalto, poi il marciapiede con i bordi di pietra grigia, degli edifici; nel primo, a sinistra, dietro l’albero spoglio che proietta sui muri bianchi la sua silhouette, una bassa palazzina dalla facciata di pietra con pretese beaux-arts – cornici, mensole, finestre hung sash. Subito dopo, due storefront, uno dipinto di verde oliva, l’altro di rosso: “Laundry” sta scritto sul primo; “J. Maru ci Barber hop”, annuncia invece nella vetrina a fianco una scritta a caratteri dorati a rilievo cui mancano due lettere. Poi, una classica insegna di barbiere, un cilindro a fasce rosse bianche blu racchiuso tra due semisfere di metallo cromato. Di fianco, un edificio di mattoni rossi con tre finestre allineate sotto un cornicione a motivi geometrici. Al piano terra, la vetrina di legno dipinto di verde e il tendone giallo ocra di un altro negozio, senza insegna; dietro i vetri sono state tirate delle pesanti cortine su cui da un lato getta ombra una vetrofania, “A. Peterman”. La luce intensa fa risaltare i dettagli più minuti, l’anello del saliscendi nella bottega del barbiere, la lampadina nuda che penzola sopra l’ingresso della lavanderia, la trama delle tendine ricamate nelle finestre, i rami stecchiti degli alberi e i tralci nudi di un rampicante sul muro bianco a sinistra. Proprio al centro, sul marciapiede, una donna di colore cammina seguita da un cane. Il passo è veloce, la fisionomia mossa, irriconoscibile, senza età; porta sulle spalle un soprabito, forse un cappotto di lana, color ruggine; sotto, si intravede una gonna con una fantasia dai toni marrone, ocra e bianco. I suoi calzini grigi spiccano sulle gambe nude, mentre le scarpe marroni di foggia maschile si muovono sulle lastre di cemento del marciapiede. Tutti i negozi sono chiusi. Non si vedono altre scritte, pubblicità, graffiti, il carico di segni che ogni città reca inevitabilmente con sé. Nulla, se non l’immobilità e il vuoto disabitato di uno strano pomeriggio, l’aria trasparente che si tinge di giallo, il senso di un’interruzione incombente che sembra proclamare l’inammissibilità di ogni cambiamento.
Abbiamo visto altre immagini immerse in quest’atmosfera sospesa e inconfondibile che da Giorgio de Chirico in poi si è chiamata metafisica. E lo scatto di Louise Rosskam, una fotografa attiva negli Stati Uniti dagli anni trenta agli anni sessanta del secolo scorso, fa pensare in effetti a molte altre immagini dipinte, ai molti diversi realismi, “magici” o “sociali”, del Novecento, da Edward Hopper, riferimento obbligatorio, alle scene di strada tipiche di pittori e fotografi della Great Depression come Walker Evans, Ben Shan, Dorothea Lange e altri ancora, e anche a certe scene di film in cui la città fa da sfondo naturale a vagabondaggi ossessivi o liberatori, a fughe, inseguimenti angosciosi, appuntamenti fatali, misteri. Con la sua inquadratura intenzionalmente distanziata, le sue linee verticali perfettamente a piombo, la composizione regolare, l’immagine è poi un esempio eloquente di quella che gli studiosi chiamano “fotografia documentaria” proprio per la sua ricerca di imparzialità, per l’attenzione prestata agli elementi minori, anche in apparenza insignificanti, dello scenario sociale, per la sua fedeltà a una vocazione topografica ed etnologica. Queste erano del resto le esplicite richieste del committente della fotografia (in origine una grande diapositiva Kodachrome, formato 4 x 5 pollici), la Farm Security Administration o FSA, una delle istituzioni più tipiche del New Deal roosveltiano, impegnata in progetti di pubblica utilità nelle sterminate aree rurali del Sud e dell’Ovest americano. Era stato Roy Stryker, capo della Information Division della FSA tra il 1935 e il 1944, a ideare la celebre campagna fotografica destinata a documentare le condizioni di vita dei contadini poveri e più in generale il contesto materiale in cui trascorreva l’esistenza delle classi popolari: campi coltivati, miniere, strade, ponti, fattorie, case e strade, industrie, depositi, scali ferroviari, scuole, fiere, mercati, luoghi di ritrovo, e quindi, nel periodo della seconda guerra mondiale, stabilimenti e basi militari, fabbriche di armi, di aeroplani e navi. Una campagna da cui sarebbero derivate molte immagini memorabili e che grazie alla sua particolare combinazione di istanze politiche, sensibilità sociale e qualità estetica, costituisce uno snodo fondamentale nell’evoluzione del medium fotografico nella prima metà del Novecento.
Ma torniamo a quel pomeriggio d’autunno del 1941, quando Louise Rosskam puntava il suo obiettivo su una strada di periferia nel sud degli Stati Uniti. Nello stesso archivio, a qualche “numero” di distanza, ecco qualcosa di inatteso: un altro scatto, realizzato dalla stessa posizione e nelle identiche condizioni di luce, somigliante al punto che le due immagini possono essere sovrapposte con minimi scarti usando un semplice procedimento in un programma di photo editing.
Questa seconda diapositiva, classificata dalla Library of Congress con la stessa didascalia dubitativa dell’altra (“Laundry, barbershop and store, Washington, D.C.?”) sembra essere stata scattata a prima vista dopo la prima, a distanza di una manciata di minuti, forse di mezz’ora a giudicare dalla maggiore inclinazione delle ombre. Il negozio sulla destra è ora aperto, il telone giallo è stato abbassato e attraverso le vetrine si può ora scorgere la mercanzia in vendita, abiti e biancheria femminile. Nell’ombra sotto il telone un uomo in piedi guarda verso l’obiettivo. È un bianco, ancora giovane; indossa una camicia grigia dal collo sbottonato e un paio di pantaloni blu; sta fumando la pipa. Sulla sinistra, parcheggiata lungo il marciapiede, si scorge ora un’automobile nera con sottili accenti rossi lungo la fiancata e intorno alle borchie cromate al centro della ruote; è una berlina Chevrolet model year 1940. Al centro, un po’ indietro rispetto alla posizione della passante della prima foto, cammina un ragazzo nero in slacks marroni e giubbino avana, i tratti resi indecifrabili dal movimento.
Due scatti, un prima e un dopo separati dai pochi minuti in cui le due fotografie registrano impassibilmente il meccanismo ad orologeria delle aperture e delle chiusure, le pause, i passi, i movimenti minimi sotto il lento declinare della luce solare. Ma non è così. Queste fotografie non sono state scattate nello stesso giorno, e neppure nella stessa settimana, e certamente non in quest’ordine. A renderlo evidente sono dettagli a prima vista impercettibili che si scoprono solo scrutando da vicino le due diapositive. A sinistra, sul muro bianco dell’edificio a sinistra, molte foglie secche sono ancora attaccate alla pianta rampicante; la lavanderia ha un’insegna appesa sulla porta, un cartello metallico con un nome cinese, “Chung Wah Laundry”; la bottega del barbiere è chiusa da una controporta. Questi indizi puntano a un’unica conclusione: la seconda foto è stata scattata cronologicamente prima, non dopo l’altra. Più di qualche giorno certamente, forse due o tre settimane, necessarie al vento per far volar via le ultime foglie secche, e al proprietario della lavanderia per staccare il cartello e trasferire altrove la sua impresa. Ed ecco allora che le due immagini lasciano trasparire in filigrana un nuovo e inatteso enigma: perché Louise Rosskam ha ripreso per due volte questo particolare scorcio di città? È solo un caso? O c’è una relazione occulta tra i due scatti? Forse, dopo lo sviluppo della pellicola, il primo si era rivelato guastato dalla presenza sghemba dell’automobile della fotografa ed è stato ripetuto in nome di un’esigenza di integrità, di rigore formalista. O forse Louise si è trovata a passare per due volte nella stessa strada e dimenticando di averla già ripresa si è lasciata catturare di nuovo dalla sua particolare atmosfera. È possibile, certo. Ma forse c’è un’altra spiegazione, la possibilità che nell’immagine ripetuta affiori un significato latente, un sovrappiù di senso, una risonanza cripticamente poetica, non consapevole, non intenzionale, un’energia perturbante che si diffonde nell’atmosfera e penetra negli oggetti, negli edifici, nelle superfici colorate,nei pieni e nei vuoti, li imbeve e li rende all’improvviso estranei, confinati in una strana remotezza da cui quel per qualche motivo non possono più uscire. E forse il motore segreto di tutto questo è l’incontro, l’inciampo anzi in una casualità, in un hasard objectif, quel particolare “sincronismo” in cui André Breton scorgeva il segno di una possibile riconciliazione tra le finalità della natura e quelle dell’uomo, un’alleanza inattesa tra il desiderio e le forze del mondo reale, un appuntamento che è anche uno stato d’animo, il sigillo di un’affinità segreta tra inconscio e mondo e il punto senza dimensione da cui il meraviglioso sgorga nel quotidiano.
Ecco allora che queste due immagini, a prima vista così neutrali, così “trasparenti”, diventare all’improvviso due schermi sorprendentemente opachi, in cui si annidano un’attesa e una minaccia. Nel tempo trascorso è accaduto qualcosa, qualcosa di pertinente a quello spazio e a quel tempo, e insieme un incontro con un tempo e uno spazio diversi. Qualcosa che non ha a che fare con una simbologia privata o col ritorno inatteso di un ricordo, ma che al contrario possiamo reimmaginare e reinterpretare, in cui possiamo iscrivere la trama oscura e inconfondibile di un’allegoria. E nello spazio e nel tempo di Louise Rosskam, nello spazio e nel tempo di quella strada, di quella città, questo altro elusivo possiede un corpo e un nome precisi. Alle 7:51 di domenica 7 dicembre 1941 centinaia di aerei giapponesi decollati da portaerei in pieno Oceano Pacifico attaccano alle Hawaii la base americana di Pearl Harbor, causando ingenti distruzioni e trascinando gli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. È una delle date simbolo della storia americana – “a date which will live in infamy” come disse Franklin D. Roosevelt –, un attacco a sorpresa rimasto profondamente impresso nella memoria collettiva e destinato a condizionare scelte politiche e militari sino al suo impensabile reenactment l’11 settembre 2001.
Una fotografia documentaria come inconcepibile allegoria del trauma di Pearl Harbor. Come simbolo nero dissimulato nei panni frusti del quotidiano, come pozzo che si spalanca al centro dell’immagine, come culla del caso oggettivo. Immaginiamo allora la prima fotografia scattata in un quieto pomeriggio di novembre, durante una delle sistematiche esplorazioni dei sobborghi di Washington compiute in quei mesi da Louise Rosskam a bordo della sua Chevrolet nera. E la seconda, con i suoi negozi chiusi, l’insegna rimossa, il senso di un subitaneo svuotamento, di una sospensione luttuosa e inspiegabile del ritmo quotidiano, come risultato invece di un trasalimento istintivo, di uno sgomento che si è trasmesso simultaneamente all’inconscio e alla città, incrinando la luce di un pomeriggio d’autunno, rarefacendo l’aria, scoprendo abissi tra le cose. Qualcosa si è spezzato tra la prima e la seconda fotografia, qualcosa ha lottato per raggiungere la superficie e alla fine l’ha conquistata. Louise è ferma, in piedi: vede due immagini, una di fronte agli occhi, l’altra nella memoria, la prima sovrapposta alla seconda. Percepisce una vibrazione, qualcosa di inatteso, di inquieto, che ha reso in un attimo estraneo uno scenario familiare. È la stessa strada? Cosa è cambiato? Tutto è come spento, e strappato via, immobile. Agisce d’istinto: poggia a terra il cavalletto sullo stesso tombino usato la prima volta, incastra le sue aste negli stessi fori sulla piastra di ferro. Sistema con pochi gesti la macchina, la carica, mette a fuoco, controlla l’esposizione, dà un’ultima occhiata: un angolo di strada visto leggermente in diagonale, l’asfalto, poi il marciapiede con i bordi di pietra grigia, degli edifici… Scatta. Sono le tre del pomeriggio di domenica 7 dicembre 1941: a migliaia di chilometri di distanza gli aerosiluranti giapponesi hanno appena terminato il loro raid su Pearl Harbor. Nel chiarore declinante del giorno dell’infamia, la lugubre ombra della devastazione si è allungata sino a una lontana città e l’ha fatta rabbrividire.
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Molto bello, Stefano.
Questo articolo è veramente bello.
Da un numero di Granta, mi sembra di capire che abbia fatto qualcosa di simile (escludendo Pearl Harbor dal paragone, ovviamente) anche Camilo Josè Vergara, nel senso che ha fotografato gli stessi luoghi di Chicago in anni diversi (dal 1981 al 2009). E il risultato è affascinante.
Pero’ io non me ne intendo per nulla di fotografia, e magari sto scrivendo una stupidaggine.
Bello, raro persino. Non solo per la scrittura, oserei dire, in “stile documentario”, ma quello che trovo molto convincente è il livello interpretativo. Mi interessa molto. Grazie.
E intanto Matteoni non sbaglia un post.