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love cost: Carlo D’Amicis

da Maledetto nei secoli l’amore, Piero Manni 2008

e allora, caro cugino, io ti parlo e anche di me ti parlerei (di Lady Mora), se non fosse che Lady Mora è avvolta nel mistero, se non fosse la regina dell’occulto che illuminando il destino della gente (come il sole) nel suo destino ha l’ombra, e per questo (per questo – dico sporgendomi sensuale verso la telecamera) Lady Mora è sole ma anche luna (qui solitamente – tarataratà – parte la sigla), un universo da esplorare ma che nessuno esplora, perché, di fatto, nessuno è in grado di andare oltre una breve passeggiata sulla superficie, quattro reperti raccolti da una sonda, un approssimativo calcolo aritmetico (tutto qua – tutta qua, la scienza umana), cosicché alla fine mi domando (mi domando, ché del proprio inesplorabile mistero Lady Mora non parla con nessuno) se è inesplorabile in quanto mistero, o mistero in quanto inesplorabile (in quanto nessun uomo, scienziato o poeta, è mai stato in grado di violarlo), in quanto nessun uomo (e in quanto a te, cugino –) mai è stato in grado di cogliere nell’infrangibile cristallo sotto il quale è esposta la mia vita il punto di rottura, nella roccia la fessura, e in quanto a te, cugino, la mia alla fine non è altro che una domanda che domandare è lecito e alla quale rispondere sarebbe cortesia, alla quale (cortesemente) rispondere si può rispondere


anche no, o non so (sono inesplorabile, punto e basta), e del resto che importanza ha se io non sono raggiungibile perché sono scappata troppo in fretta o per la tua lentezza, perché tengo il telefono spento o perché tu non hai il mio numero, che importanza ha?, mi dico, io sono Lady Mora e in un certo senso lo sono sempre stata (Ninni, mi chiamavi da bambina), anche quando mi chiamavi Ninni mia respingevo le tue braccia e mi stringevo nelle spalle (come se volessi scomparire), come se, pur non cogliendo appieno che da lì a poco sarei stata Lady Mora, nel mio essere già parecchio sensitiva percepissi chiaramente che non fossi affatto Ninni (non tua, in ogni caso), non tua, dicevo, e forse di nessun altro mai (con quel forse che a me dava un’aria di mistero, e al tuo volto un’espressione di mesta gelosia), così che nella tua espressione di mesta gelosia, nel ritrarre le tue braccia (come se volessi scomparire), percepivo la tua (ripugnante) debolezza, e tanto più mi ripugnava quella pena così terra terra (un po’ animale), quanto più io ero sole e luna, quanto più l’uomo che (forse) avrebbe avuto la forza di esplorarmi (di dire forse Ninni; o addirittura, con la forza rozza e prepotente con cui l’uomo si annette l’universo, avventurarsi a dire tu sei mia: sei Ninni mia) sarebbe stato l’uomo forte che non eri, sarebbe stato l’uomo che, unico e solo, avrebbe saputo dimostrare (rendendo inutile, da quel momento in poi, ogni dimostrazione) ciò che io profondamente sentivo di essere (unica e sola), tanto che niente m’irritava più di quando, ai miei inesplorabili silenzi, all’infrangibile cristallo della mia freddezza, tu opponevi un dolce e banalissimo sorriso e dicevi non sei sola (ci saresti stato tu, dicevi), e niente ancora oggi più m’irrita (e rende il mio silenzio inesplorabile, la mia freddezza un infrangibile cristallo) di quando, con ineffabile candore o balbettando imbarazzati, certi clienti mi confidano di non sentirsi soli perché esiste (finché esiste) Lady Mora, e intanto che si affidano al mio quadro astrale intrattengono rapporti con chissà che scialbe fattucchiere (non che tu, cugino, intrattenessi altri rapporti ancorché scialbi), non che tu, cugino, avessi occhi per altre che per me, ma se davvero non hai avuto occhi che per me avrai visto che vuol dire stare accanto a una ragazza unica e sola (mi avrai visto, sprofondare nell’abisso), avrai visto che vuol dire starle accanto e sprofondare nell’abisso di quella vicinanza (prendiamo il sole?, la tintarella di luna?, ridacchiavi, come se fossero là a portata di mano), mentre io sono soltanto lontananza, sole e luna per tutto ciò che è terra (io sono sole e luna – dico per iniziare), e subito (subito dopo la sigla – tarataratà) qualcuno con la voce rotta e polverosa (come se non dalla terra, ma dalle sue viscere chiamasse) chiama per chiedere, per aggrapparsi, per implorare (la prego, Lady Mora, vorrei sapere qualcosa sull’amore), e allora io prima seccamente chiedo il nome, e dopo (sebbene la questione sia per tutti un po’ la stessa) esorto a essere più chiari, a una maggiore precisione (l’amore è un po’ generico, amore –dico – non vuol dire niente), non tanto perché la questione non sia per tutti genericamente un po’ la stessa (se lui torna, se lei lo tradisce), quanto perché dal tono della voce, da come dicono vorrei sapere se ritorna, o se mi tradisce, io capisco al volo come stanno le cose, se lui torna (solitamente no), se lei lo tradisce (senz’altro sì), se dall’altra parte c’è un Leone con ascendente Toro ancora disposto ad assestare una zampata, o un segno d’aria che sta per soffocare, che nell’aria ha campato
appunto i propri sogni, e che dopo averli persi, adesso, in diretta telefonica è disposto a perdere
anche la residua dignità mettendosi a frignare (la prego, Lady Mora), come se Lady Mora stesse lì a consolare derelitti, come se Lady Mora avesse qualcosa da spartire con le miserie umane (sei irraggiungibile, mi dicevi raggelato, con le mie scarpe in mano), mentre quando raggelato, sfilandomi le scarpe, appoggiandomi la testa sul cuscino, dicevi che ero irraggiungibile (e io, irraggiungibile, annuivo e ti dicevo di spegnere la luce – spegni la luce e dopo vattene), com’eri misero, cugino, nel tuo sgomento, e come mi esaltava quel giudizio (irraggiungibile!) che tra le carie e il mal di denti sporcava di dolore il tuo sorriso (era un giudizio che ti faceva male, quello del dente e quello con cui patetico tentavi di svegliarmi), che tra le carie e il dente del giudizio teneva sveglio te tutta la notte, lontano da quel letto in cui, tutta vestita, io dormivo beatamente (irraggiungibile), lontano da quel letto in cui (tutta vestita, a parte le scarpe che tu mi avevi tolto) prima di dormire restavo qualche istante in bilico sul sonno a godere la mia forza devastante di ragazza unica e sola (già allora unica e sola),

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017