Appunti per un’indagine sui minatori

[Simona Baldanzi mi manda questo pezzo, nel giorno, come lei stessa mi ha fatto notare, dell’apertura del tunnel del Gottardo. Fatto a cui è stata data ampia evidenza dai giornali. Non altrettanta evidenza è stata data al fatto che pochi giorni fa, in quel tunnel, ha perso la vita Pietro Mirabelli. Ultimo di un serie. La foto mostra la cappella che ricorda gli otto minatori morti nel tunnel prima di Pietro. E leggo adesso, mentre sto per pubblicare, di un’altra esplosione in una miniera in Cina: venti minatori morti, diciassette intrappolati. mr]

di Simona Baldanzi

Quando ho letto che i 33 minatori del Cile erano ancora vivi dopo 17 giorni dal crollo della miniera ho interrotto i miei appunti. Da aprile mi stavo segnando le notizie apparse sulla stampa internazionale con al centro il lavoro in miniera.
Aprile 2010. Crolla miniera di carbone in Virginia. Venticinque morti e dieci dispersi. Aprile 2010. Cina, trovati cinque cadaveri nella miniera del “miracolo. I soccorritori hanno miracolosamente estratto vivi 115 minatori, sopravvissuti a una settimana sottoterra mangiando corteccia e bevendo acqua lurida. Maggio 2010. Siberia, esplosioni in una miniera. Trenta morti, decine di feriti e dispersi. Maggio 2010. Russia. Esplode miniera di carbone. Dentro 312 minatori, 12 morti. Maggio 2010. Turchia, scoppio in miniera. 28 minatori morti, 2 dispersi. Giugno 2010. Nigeria. Strage di bambini tra i minatori. 111 morti nella corsa all’oro illegale.
Non stavo tenendo la lista delle stragi. Stavo prendendo appunti per il libro che sto scrivendo sui lavoratori dei cantieri delle grandi opere in Mugello. Fra le tute arancione ci sono i minatori, quelli che scavano le gallerie di strade e ferrovie. Minatori di infrastrutture moderne che lavorano nelle pance delle montagne. Pur tenendo presente la differenza di mansioni, di contratti, di diritti, di condizione di vita e di salute, sia per i minatori in Mugello che per quelli americani, cinesi, cileni, russi, turchi, nigeriani pensiamo siano solo fotografie del passato, fantasmi che vagano in qualche angolo della memoria e che ci scuotono dal torpore solo quando muoiono in massa o si salvano per miracolo. Invece ci sono, emigrano per lavorare in miniera o in galleria, vivono in baracche o campi base, non vedono crescere i loro figli, si ammalano di silicosi. Vicino a noi e nel silenzio.
Sono ancora attuali le considerazioni di Orwell quando indagò sui minatori, su quelli che ai suoi occhi sono statue di ferro battuto “con la liscia polvere di carbone che si appiccica loro dalla testa ai piedi”. Nel 1937 scriveva infatti: “uno può vivere una vita senza sentir parlare dei minatori, una maggioranza preferirebbe addirittura non sentirne parlare. (…) La stessa cosa avviene con tutte le specie di lavori manuali, ci tengono in vita e noi ci dimentichiamo che esistono”.
Mi ha colpito molto il messaggio dei 33 minatori cileni, scritto su un foglio con una penna rossa, intrappolati, ma salvi a 700 metri di profondità. Volevano avvertire familiari e parenti che stavano bene. Attraverso la lettera di Mario, hanno scritto anche che è giusto far sapere come hanno passato gli ultimi mesi, che problemi avevano in galleria, la mancanza di sicurezza. I trentatre minatori cileni hanno mandato un messaggio al mondo globalizzato. Siamo ancora vivi. Anche se vi dimenticate spesso di noi e del lavoro che facciamo. Noi siamo qua a ricordarvi della nostra presenza e questa volta non vi potete girare da un’altra parte. E quella televisione e quei giornali che parlavano solo delle morti in miniera hanno iniziato a raccontare le loro storie, le loro famiglie in attesa, le promesse di matrimonio, i figli. Quella vita che c’è sempre stata, ma di cui nessuno parla. L’attenzione per il grande evento. Settanta giorni di grande fratello in miniera, diritti acquistati dalle tv, migliaia di giornalisti accampati nella valle di ACATAMA. Strumentalizzazione, spettacolo, commercio? Sì, ma proprio tutta quell’attenzione, gli occhi del mondo su di loro, ancora sottoterra, ma vivi, tutti quei soldi smossi dalle tv, li hanno salvati. Il silenzio e l’indifferenza li avrebbe uccisi come succede ogni giorno nel mondo del lavoro. Uno ad uno che escono dal buio e dalla gola della terra ci ricordano quante vite e quante storie e quanti nomi ci stanno dentro il lavoro. Ci dicono che sono MINEROS e non stelle, regalano pietre e anche se ringraziano e abbracciano quel presidente che ha bocciato il piano sulla sicurezza nel lavoro, ripetono chiaramente “incidenti così non devono più accadere”. Per una volta, vedere un paese che festeggia perchè salva dei lavoratori, a me fa brillare gli occhi. Inutile negarlo. E spero che questa attenzione la utilizzino al meglio per quello che sono: minatori. E lo sono stati là sotto minatori, dandosi un’organizzazione, ruoli e compiti, tenendosi su il morale, sentendosi solidali e uniti, continuando a vivere, a comunicare, a giocare, dando a tutti una lezione di vita, di comunità, di civiltà, di tenuta di nervi e di cuore. Da quando è crollata la miniera duecento sono senza stipendio. Ai 33 promettono regali da nababbo e loro rispondono ancora da gruppo, pensando alla loro condizione che li ha ingoiati nella terra e poi risputati, che vogliono fare una fondazione per i minatori. Le operazioni di salvataggio con uomini e donne di tutto il mondo, competenze e macchinari, esperienze di altri minatori, di ingegneri, geologi, tecnici, scienziati ha dimostrato che la sicurezza sul lavoro si può attuare. Se siamo andati sulla Luna, possiamo andare anche sottoterra, possiamo impedire che ogni giorno muoiano lavoratori di tutto il mondo in tanti lavori. Volontà e intenti di tutti. Anche con le bandiere di un paese a festeggiare come avesse vinto la nazionale a calcio e invece, per un giorno, ha vinto il lavoro.
Il 22 settembre è morto un amico in galleria. Pietro era un minatore calabrese delegato sindacale e alla sicurezza che per tutta la vita si è battuto per far conoscere la loro condizione di lavoratori migranti. Figli d’arte perché figli di altri minatori. È morto in Svizzera. Oggi sarebbe stato contento, ma avrebbe ricordato a quelli che scrivono, che filmano, che fotografano, che raccontano di non smettere. Ci sono gallerie e miniere vicine, in Italia, in Europa, buie e oscure ai più con condizioni di lavoro inaccettabili. Lavori e lavoratori che ci tengono in vita e che ci dimentichiamo che esistono.

(pubblicato sul manifesto, 17/10/2010)

3 COMMENTS

  1. E’ un articolo necessario alla riflessione su ingiustizia. Vivere nel buio è forse il simbolo di una vita affondata in un lavoro penoso, immenso, senza respiro, senza speranza.

  2. Simona, la conclusione del tuo articolo mi gela: ho letto il tuo libro – “Figlia di una vestaglia blu”, bellissimo – e sapere che il Pietro di cui parli è quello di cui lì avevi raccontato è davvero un colpo. Mi chiedo come sarà possibile portare testimonianza di questi uomini e queste donne, della loro umanità e onestà, del loro senso di giustizia; da figlia di operai conosco la struggente domanda su come restare in qualche modo fedeli al carico di umanità di questi lavoratori, in una vita tanto diversa dalla loro. Ma la loro è una lezione per tutti, come dici. La lezione di chi sa che nessuno si salva da solo. E questa lezione interroga forse in modo ancora più stringente mondi distanti da quello operaio, ad esempio quello del lavoro intellettuale, asfissiato da un individualismo devastante e insensato. E, sì, mi consolano immensamente questi minatori cileni che si ostinano a parlare di altri, che si ostinano a resistere alla lusinga narcisistica della telecamera. Ma è l’ultimo paragrafo del tuo articolo che resta e fa male.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.