E. E. CUMMINGS – II. THE BOYS I MEAN

di Franco Buffoni

Nel 1927 E. E. Cummings mette in scena un particolare dramma poetico in prosa, Him, che riflette – trasfigurandole – le sue disavventure coniugali: due i matrimoni alle spalle, entrambi di brevissima durata. Saldissimo invece continua il sodalizio con William Slater Brown. Nel 1931, dopo la composizione di un’altra pièce teatrale – Anthropos – anch’essa inquadrabile in un particolare genere di teatro di poesia, o teatro da camera, destinato qualche anno più tardi a fiorire anche con Auden(The Dog Beneath the Skin), E. E. Cummings ottiene un visto di ingresso per l’Unione Sovietica. Vi resta un mese, dapprima a Mosca – al Metropole, “assistito da un ‘Virgilio’ omosessuale, e poi ospite di una ‘Beatrice’ figlia di ‘Lack Dungeon’, anagramma di Jack London” (come ricorda Massimo Bacigalupo nel saggio dedicato a Cummings, apparso nella serie dei Contemporanei dell’editore Lucarini nel 1982)  – quindi a Kiev e a Odessa, prima di di rientrare a Parigi attraverso Istanbul con l’Orient Express.

Risultato del viaggio e dell’avventura – sempre trattenuta a fior di pelle, subita, desiderata, oppressa dall’onnipresente clima di terrore poliziesco staliniano – è il secondo romanzo dell’artista, Eimi, pubblicato nel 1933. Inutile rilevare che Cummings rifiuta in quanto tale, per le sue opere in prosa, il termine romanzo, così come rifiuta le distinzioni canoniche di tutti i generi letterari. Persino quando, ormai in età ormai matura, verrà invitato a Harvard a tenere delle lezioni, le definirà: non-lectures.

Il poeta aveva ottenuto il visto di ingresso in Urss attraverso il partito comunista francese, in particolare grazie alla mediazione di Aragon; dunque poteva anche limitarsi a descrivere i miracoli del socialismo reale. Estlin invece parla solo dell’oppressione psicologica, della mancanza di libertà allo stato di puro ossigeno, e lo fa in un linguaggio talmente frammentato e complesso che i critici moderati – che potrebbero sostenere ideologicamente l’opera – non possono capirla e quindi la bocciano artsticamente, mentre i critici di avanguardia, che possono accettare il linguaggio dell’opera, non ne accettano la spietata critica al sistema sovietico, boicottandola duramente.

Considerato oggettivamente, il romanzo in sé non è un capolavoro. Ma per il periodo in cui viene scritto, e tenuto conto del coraggio dell’autore nel farsi nemici quasi tutti i vecchi amici, senza acquistarne di nuovi,  meriterebbe – forse – un po’ più di considerazione critica, almeno quando si elencano i grandi autori del Dio che è fallito – da Spender a Gide – o quando si descrivono le ascendenze di Orwell, o le conversioni dei “Trentisti”.

Cummings tuttavia non era mai stato comunista: piuttosto era – ed è – sempre stato anarchico. Gli unici comunisti che aveva avuto modo di conoscere bene erano quelli francesi, e per essi aveva provato simpatia quando erano all’opposizione bastonati dalla polizia. Simpatia che subito scemò allorché essi vennero in qualche modo associati al governo. Perché per il fatto stesso che un gruppo governi, o sia vicino al potere, Cummings prende a detestarlo. Così è molto bello ricordare quando egli ammirava i comunisti come i primi cristiani. Sua l’espressione – riferita ai comunisti parigini dopo una carica della polizia: “The communist have fine eyes” (“I comunisti hanno gli occhi belli”). Un verso-non verso stupendo anche per l’eco che in sé custodisce del miglior sonetto di un altro grande anarchico anglosassone: Oscar Wilde. Il cui “Sonnet to Liberty” manifesta la medesima forma di attrazione profonda per lo stato nascente libertario: “… tuttavia, tuttavia, questi Cristi che muoiono sulle barricate, Dio sa che sono con loro, in qualche cosa”.

Non è casuale o estemporaneo questo riferimento a Wilde. Nel famoso pamphlet The Soul of Man Under Socialism (L’anima dell’uomo in regime socialista) l’autore di Dorian Gray sostiene infatti quella concezione di anarchico individualismo che permea poi anche l’opera e l’immagine pubblica di Cummings. Scrive Wilde nel 1891: “Il socialismo, il comunismo – chiamate come volete il fatto di convertire ogni proprietà privata in proprietà pubblica, di sostituire la cooperazione alla concorrenza – ristabilirà la società nel suo stato naturale di organismo assolutamente sano, e assicurerà il benessere materiale a ogni membro della società. Esso darà alla vita la sua vera base, l’ambiente che le conviene. Ma perché la vita raggiunga la sua più elevata perfezione, occorre qualcosa di più, occorre l’individualismo”.

Delineandosi così una sostanziale identità di vedute ideologiche tra il giovane Estlin e il grande precursore vittoriano, ci sentiamo confermati in una convinzione: l’originaria matrice culturale harvardiana fondata sull’estetismo agì sempre in Cummings come sostrato attivo alle successive acquisizioni culturali, tornando distintamente alla luce nei momenti in cui un qualche particolare sconvolgimento emotivo faceva franare le acquisizioni culturali successive.

La messa al bando ideologica da parte della critica sia di avanguardia sia tradizionalista costò a Cummings il rifiuto a pubblicare il suo nuovo libro di poesia da parte di ben quattordici editori. Lo stampò in proprio, ironicamente intitolandolo No Thanks (No, grazie) alla fine del 1933. L’edizione privata permise al poeta di includere nella raccolta in forma manoscritta anche un testo allora definibile osé. Ma evidentemente ritenuto tale anche in epoca successiva, se ancora nei Complete Poems 1913-1962, ripubblicati numerose volte dal 1963 in poi, appare solo nella originale, non sempre facilmente decifrabile, forma manoscritta. Lo proponiamo qui perché ci pare rappresenti una illuminante chiave interpretativa della psicologia cummingsiana:

the boys i mean are not refined

they go with girls who buck and bite

they do not give a fuck for luck

they hump them thirteen times a night

one hangs a hat upon her tit

one carves a cross in her behind

they do not give a shit for wit

the boys i mean are not refined

they come with girls who bite and buck

who cannot read and cannot write

who laugh like they would fall apart

and masturbate with dynamite

the boys i mean are not refined

they cannot chat of that and this

they do not give a fast for ast

they kill like you would take a piss

they speak whatever’s on their mind

they do whatever’s in their pants

the boys i mean are not refined

they shake the mountains when they dance

Anzitutto una considerazione di ordine tecnico: siamo nel 1933, e dopo vent’anni di sperimentalismo poetico militante (ai quali seguiranno altri quarant’anni di scomposizioni e frazionamenti di parole, di paraboliche andate a capo e di uso sfrenato della punteggiatura) in questo componimento in cui egli sa di avere davvero qualcosa da dire di importante per sé, di molto personale, Cummings ricorre a rime e ritmi assolutamente tradizionali, concedendosi soltanto il vezzo di togliere le lettere maiuscole.

Chi sono i “boys I mean”? Sono quelli cui Estlin e l’amico William Slater Brown, da un decennio almeno, tentano di assomigliare; quelli coi quali cercano di amalgamarsi; quelli ammirati come animali in un serraglio nei bistrot parigini e nelle più lunghe permanenze newyorkesi al Village. Sono l’evoluzione del prototipo whitmaniano del carpentiere e del facchino; l’anticipazione di quello audeniano dei ragazzacci pescati nelle palestre di pugilato a Berlino coi quali fare la lotta nudi. Come Auden scrive nella prima strofa di “Atlantis”:

… you

Must therefore be ready to

Behave absurdly enough

To pass for one of The Boys,

At least appearing to love

Hard liquor, horseplay and noise.

… Devi quindi essere pronto

A comportarti convincentemente

Per passare per uno di loro,

Facendo finta che ti piaccia

Far casino, e gli scherzi pesanti

I liquori.

A riguardo, naturalmente, si può ricordare il successivo modello pasoliniano del borgataro. Con Cummings però si ha anche la variante della assunzione dei comportamenti (Bacigalupo, nel saggio citato, accenna a “i duri cui il poeta s’adopera a volte – e con esiti discutibili – d’assomigliare”). Perché vi è una sostanziale differenza: “the boys I mean” possono essere mero oggetto di contemplazione (come nel prototipo whitmaniano), oppure compagni di avventure, con visite assieme a bordelli e palestre, al fine di  passare “for one of The Boys”, come indicano Auden e Cummings. Naturalmente i due atteggiamenti possono anche sfumare l’uno nell’altro, avere punti di coincidenza: Pasolini per esempio era noto per le estenuanti sfide a pallone coi ragazzi della Garbatella (negli ultimi anni sostituiti da quelli delle bidonvilles africane). Di Auden si è detto. Ma forse – più appropriato di tutti, anche per la straordinaria somiglianza fisica con Cummings – in questa particolare ottica ci pare Jean Genet. Il verso cummingsiano appena citato: “they kill like you would take a piss”, pare uscito da Notre-Dame-des-Fleurs o dal Journal du voleur.

D’altronde, per restare in un ambito americano a Cummings strettamente contemporaneo, si rifletta sull’attrazione di Hemingway per stallieri e gondolieri. Con le presenze femminili che – quando scattano meccanismi psicologici di questo tipo – non solo non mutano la prospettiva profonda, ma ne accrescono lo spessore di eccitante ineluttabilità. Purché, naturalmente, siano donne di mondo, attrici, modelle. Come nel caso della terza moglie di Estlin.

Abbiamo osservato in altra sede che lo sperimentalismo di uno scrittore come Gadda e il funambolismo istrionico di un poeta come Palazzeschi ebbero come causa cogente anche la necessità di mascherare il vero io narrante, o il vero sé. Palazzeschi non può permettersi di essere un poeta lirico declinando al maschile i propri sentimenti, e diviene un poeta fumiste. Gadda rasenta l’autoconfessione in qualche pagina del Diario di guerra e di prigionia, ma quando scrive i grandi romanzi destinati alla pubblicazione evita accuratamente l’autobiografismo. Che cosa vogliamo dire? Che forse, anche per Cummings, ciò che in molte raccolte può apparire un eccesso di sperimentalismo, altro non è se non un riflesso condizionato di difesa della propria privacy. (Per incidens, e nell’innocenza più assoluta, visto che abbiamo citato Palazzeschi, si consideri l’attacco cummingsiano della poesia “little tree” – “little silent xmas tree” – pensando, per esempio, a “Rio Bo” di Palazzeschi).

Così anche Cummings può oggi presentare il suo cospicuo pacchetto di boutades alla “lasciatemi divertire”. Frequentissimi sono nei suoi testi i richiami o addirittura le parafrasi di canzoni patriottiche e di parole d’ordine politiche, per tacere ovviamente di slogan pubblicitari, luoghi comuni e frasi fatte. In pratica, di quella che il poeta definisce “lingua morta”, capace di simboleggiare soltanto una cultura morta, sia essa patriottica, politica, artistica o meramente commerciale.

Mi pare persino superfluo, a riguardo, richiamare la notoria e coeva distinzione wittgensteiniana tra parole “sane” e parole “malate”. Certamente aveva presente anche l’opera di Cummings, W. H. Auden nel 1967, allorché espose compiutamente la sua disamina dei vari tipi di linguaggio, affermando che – in sintesi – una lingua nasce in poesia, viene usata e consumata nel linguaggio della prosa, e infine muore in quello della pubblicità.

Il gusto per la parodia in Cummings non risparmia nemmeno i miti della storia americana, mettendone alla berlina i tratti caratteriali più noti: Thomas Jefferson diventa “Robinson Jefferson”, George Washington “Wouldwoe Washington”, Franklin Delano Roosvelt “the great pink supermediocrity”. E nella lirica “o pr” – che fa parte della raccolta No Thanks – appare una intera strofa anarchico-ironica, parodiante poteri e funzioni del presidente degli Stati Uniti: “(The president The / president of The president / of the The)president of / the(united The president of the / united states The president of the united / states of The President Of The)United States”.

Persino i grandi poeti vittoriani non vengono risparmiati dal bisogno di Cummings di divertirsi (cioè di dis-vertirsi, volgendo altrove se stesso): Algernon Charles Swinburne diviene “A. Carl Swinburned”, con il cognome reso participio passato, e quindi assolutamente irridente. Non per nulla Richard Gray – nel  manuale edito da Longman sulla poesia americana nel XX secolo – lo ha definito il miglior poeta comico americano del secolo, “because his comedy issues from serious commitments: a dedication to Eros, the intensities of physical love, and a hatred of ‘manunkind'”. Personalmente mi limito a invitarvi a pensare alla più celebre battuta di Woody Allen, leggendo l’attacco di “Jehovah buried, Satan dead” (1935).

Divertendosi in questo modo, Cunnings perseguì anche uno dei suoi più artistici espedienti sintattici: usare come voci verbali i sostantivi. Stupendi i risultati – per esempio – col nome proprio “April”, aprile: “but if a look should april me” (“ma se un’occhiata dovesse aprilizzarmi”). Perché Cummings ha in uggia i sostantivi in quanto tali: “dull all nouns” (“i nomi sono tutti vuoti”). Al punto che se un sostantivo non gli piace proprio lo salta a pie’ pari o lo sostituisce con un segno di interpunzione, scivolando così nella composizione di una poem-picture. Come nella brevissima “a -“, che tradotta in italiano significa: “Un ondeggiamento su qualcosa io lo chiamo crepuscolo”. In inglese, qualcosa si dice “something”, e in something c’è il sostantivo “thing”, che il poeta detesta. Che fare? Cummings la sostituisce con il segno di interpunzione che ritiene più adatto: il punto interrogativo. E così consegna il testo definitivo: “a – / float on some / ? / i call twilight”.

Il solo principio vitale per Cummings è nel verbo: il grande “io sono” in grado di creare il momento, vivificandolo in quella che il poeta definisce “la gloria del presente indicativo”. Al fondo naturalmente c’è sempre l’esaltazione dell’individuo di cui già si è detto: l’importanza assoluta del “per sé uno” e di tutti i tipi di scelte individuali. O individualistiche?, ci si potrebbe chiedere. Ma forse ce lo chiediamo solo noi, italiani di lingua e cattolici di cultura.

Le invenzioni verbali di Cummings costituiscono dunque una gamma vastissima, anche perché molto cospicua quantitativamente e ben diluita negli anni è la sua opera (dodici i volumi di versi pubblicati per un totale di oltre settecento componimenti). La maggior parte è mero artificio, ma le migliori – qualche decina – hanno davvero arricchito il linguaggio comune e vengono citate anche da persone che non conoscono affatto il poeta e la sua opera. Prevedeva forse proprio questo il poeta quando – in una delle ultime interviste – a proposito del proprio lavoro dichiarò che si trattava in ogni caso di qualcosa “just a little harder than anybody who isn’t a poet can possibily imagine”.

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franco buffoni
franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it