Etica della sparizione
[Il presente contributo appare in «Il Caffè Illustrato», nr. 55, agosto-settembre 2010.]
di Andrea Cortellessa
È interessante il confronto fra le copertine delle due edizioni – fra loro separate un po’ più di trent’anni – delle Forze in campo, secondo romanzo di Franco Cordelli. In quella appena uscita (con minimi ritocchi autoriali) nella BUR Rizzoli, un campo da tennis dal fondo grigio (è un allenatore di tennis, oltre che un ex pugile, il «Cordelli» protagonista del romanzo) viene inquadrato in toni spenti e da una prospettiva straniante: dall’alto sulla verticale (non proprio a piombo) del nastro che sormonta la rete (mentre la rete stessa, agitata dal vento, si gonfia sulla sinistra dell’inquadratura). In quella uscita da Garzanti nella primavera del 1979 è invece riprodotto, sempre su fondo grigio, un quadro anni Sessanta di David Hockey, dalle tinte invece assai accese e dal titolo A bigger splash: in una cornice vagamente californiana (una villa in stile razionalista, torreggianti palme all’orizzonte) è raffigurata una piscina, con in primo piano il trampolino e, al centro, grandi e desultorî spruzzi d’acqua. Costante, fra le due immagini, è in apparenza il riferimento allo sport, all’attività fisica. Tutti conoscono, del resto, le passioni sportive del Cordelli conversatore e collaboratore di giornali (che alla passion predominante del ciclismo ha dedicato anche un libro, L’Italia di mattina, pubblicato nel 1990 da Leonardo e riproposto nel 2009 da Perrone). Ma la vera costante, dietro quella apparente, è l’assenza di quello che dello sport dovrebbe essere l’ovvio protagonista: il corpo. In entrambi i casi, dall’immagine è stato sottratto il referente centrale, l’agente primario: rispettivamente i tennisti e il tuffatore. Dell’espressione che dà il titolo al romanzo, diciamo, resta solo il campo in cui dovrebbero esercitarsi forze, al momento, assenti. Magari presenti sino a un attimo fa – come nel quadro di Hockey, che di esse continua a vibrare – ora esse non si vedono più, sono sparite. (E ci sarebbe da riflettere sulla diversa sparizione, nelle Forze in campo, rispetto a quella del celebre, allusivo finale di Blow-up di Michelangelo Antonioni. Lì, come si ricorderà, era presente bensì il campo ma lo erano anche, seppur sarcasticamente carnevaleschi, i giocatori: mentre invisibile, sparita, era la palla. Come sottratto era il corpo della vittima del delitto di cui era stato “spettatore”, più che “testimone”, il fotografo Thomas protagonista del film.)
Proprio quello della sparizione è il tema che con maggiore ossessività ricorre nell’opera di Cordelli. E non solo in quella narrativa: se è vero che si potrà a posteriori leggere in questa chiave anche il titolo allusivamente nichilistico del suo primo libro di saggi, Partenze eroiche (dove – nell’unica edizione, uscita nel 1980 nella collana Lerici diretta da Walter Pedullà – in copertina era raffigurato T.E. Lawrence, in sella alla moto la cui ultima uscita gli sarà fatale). Scomparso, e dall’inizio alla fine raffigurato e raffigurante dalla prospettiva della sua scomparsa, è già il protagonista e voce narrante dell’opera prima, Procida (Garzanti 1973 e, in versione più marcatamente riscritta, Rizzoli 2006). Perduto è poi il soggetto e l’oggetto dell’esperienza (la più famigerata del Cordelli performer e manager di “eventi”, il Festival dei Poeti tenutosi sulla spiaggia di Castelporziano nell’estate del ’79) nel più indefinibile e fuoriformato dei suoi libri, Proprietà perduta (Guanda 1983). Ma si pensi poi al vero e proprio caleidoscopio di sparizioni che è Pinkerton (Mondadori 1986): dove in copertina c’è un rubizzo e voluttuoso Ganimede seicentesco, rapito da un Giove in forma topicamente aquilina, e dove la sparizione del teatrante Mario Bastiani, sulla quale indaga il poliziotto Tommaso Moroni, allude alla sparizione che ha segnato il destino di un decennio e, con esso, le sorti del Paese: quella di Aldo Moro (ma dove il contesto è altresì il teatro d’avanguardia: dove quella del “rapimento”, in senso estatico, è la prospettiva d’elezione).
Ecco, proprio con Pinkerton a ben vedere si può dire inizi un secondo ciclo, nell’arco di quest’opera narrativa, nel quale il mito-fantasia-tòpos della sparizione perde la sua dominante mistico-filosofica-estetica (ed estatica), diciamo esistenziale, e comincia ad acquisire l’impronta sociale-culturale-politica (ed etica), diciamo resistenziale, che sempre più marcatamente in questa fase la connota. Da un’estetica della sparizione (per dirla con un titolo di Paul Virilio) a quella che, in misura sempre più evidente, prende insomma le forme di un’etica della sparizione. È il ciclo che da Guerre lontane (Einaudi 1990) porta al Duca di Mantova (Rizzoli 2004) passando per il cruciale Un inchino a terra (Einaudi 1999): cioè dai più o meno astratti e ideologici furori degli anni Settanta alla bellicosissima pax Berlusconiana tuttora vigente, passando per il “crollo degli ideali” rappresentato da Tangentopoli. Un ciclo che possiamo nel suo complesso ascrivere, dunque, all’ambizione di comporre una contro-storia dell’Italia contemporanea. Naturalmente quella di Cordelli è una contro-storia (al modo, diciamo, che quella di Paul Celan è una Gegenwort, una «contro-parola» – come si legge nella storica conferenza Il meridiano, a commento di un testo assai caro pure a Cordelli, La morte di Danton di Georg Büchner), e dunque esula dai paradigmi di falsificabilità che da tempo ha messo a punto la moderna (e postmoderna) epistemologia storiografica, nonché naturalmente rifugge da quelli del rispecchiamento diretto, lineare e meccanico, cari al più vecchio storicismo (quello guerreggiando contro il quale, anzi, la sua generazione si è formata e riconosciuta).
Il riferimento al passato, più o meno recente, in questo “secondo” Cordelli si serve di un “personaggio concettuale” ricorrente, un dispositivo mentale di natura geografica oltre che storica: l’inquietudine assorta indotta, in chi scrive (e nel personaggio-che-parla), dall’avvertire la ricorrenza di avvenimenti che si susseguono sul palinsesto di altri avvenimenti consumatisi, in passato, nello stesso luogo. Al riguardo ha scritto assai bene, tempo fa, Gabriele Pedullà: «Nei romanzi di Cordelli i luoghi sono simboli, e simboli sempre fortissimi: aprono il racconto a una logica non concettuale e non discorsiva, soprattutto non analitica, ma che al contrario si organizza quasi per folgorazioni improvvise, cortocircuiti sentimentali e intellettuali tra momenti diversi della storia privata e della storia collettiva» (Luoghi, in Il Cordelli immaginario, a cura di Luca Archibugi e mia, Le Lettere 2003). Mi piace definire questo “personaggio concettuale” (attivo non solo nell’opera di Cordelli, ovviamente) immagine dialettica: quella che per Walter Benjamin annoda passato e presente all’improvviso luccicare di una somiglianza, razionalmente non esplicabile quanto emotivamente perspicua.
Di questa macro-narrazione l’ultimo romanzo, La marea umana (Rizzoli 2010), si può considerare sigillo araldico e sintetica mise en abîme nonché, insieme, atto conclusivo e formula di congedo. Anche in questo caso, come in quello delle Forze in campo (che chissà quanto casualmente riappare in libreria in stretta simultaneità col libro nuovo), a una sparizione evidente fa da palinsesto (e forse movente) una sparizione occulta. La sparizione evidente è quella del migliore amico di adolescenza della voce narrante, qui battezzata «Franco». Azio è il “grande amico” della classe giunta a maturità nel 1962, «l’uomo con cui discutevo di poesia e che era mio ineguagliabile compagno di squadra nelle partite di pallacanestro»; negli anni successivi ha fondato una piccola casa editrice poi d’improvviso, senza motivazioni apparenti, s’è trasferito agli antipodi dell’Italia, in Indonesia. Un luogo tanto remoto da apparire a chi narra incredibile, alieno – «era come Marte, la stessa cosa» – e anzi in certo senso equivalente all’aldilà: «era come la morte», «un prematuro aldilà». Un luogo inconoscibile, dove Azio ha dismesso anche il suo nome da antico romano per prenderne uno locale, un nome che comunque nulla ha di romano: Aki. Anche se dichiara e ostenta che «i ricordi non lo attraggono in modo speciale», l’io narrante non ha mai dimenticato l’amico; lega anzi la sua memoria a un dettaglio in apparenza insignificante ma che non cessa di visitare la sua coscienza, periodicamente, con una domanda che resta senza risposta. È, come lo definisce, «il picco di quello che fu il nostro rapporto»: il picco – l’apice che non cessa di pungere. Un’estate, forse proprio l’estate della maturità, l’amico Azio, scopertolo a leggere la Fine del mondo antico di Ernest Renan, lo aveva assalito con incomprensibile enfasi, con furia addirittura: come può perdere il suo tempo, il suo amico, leggendo gli scritti di «quell’orribile antisemita»? Forse – si interroga l’io narrante – è proprio da quell’incrinatura appena percettibile, da quella fenditura sottile ma pungente, che si è cominciata a produrre la divisione, la cesura che ha interrotto la solidarietà con Azio; da quel tradimento piccolo ma decisivo, da «questa mai detta origine, questa origine buia», è con ogni probabilità iniziata quella che l’io narrante definisce la «diaspora di una comunità». È stata forse quella divisione che in qualche modo s’è allargata, sino a spingere Azio fuori dai patrî confini? È un mistero: «i cosiddetti misteri sono questi. Sono pensieri che giungono inavvertiti, mai argomentati – mai prima, né dopo, detti». Il vero mistero, il vero oggetto assente la cui sparizione non cessa di inquietarci, è in cosa davvero consista, però, quella divisione, quella cesura: «c’è un prima e c’è un dopo, cosa sia questo prima è oscuro, ancora più oscuro cosa sia l’eventuale cesura. Perché una cesura? Ed è proprio sicuro che il cosiddetto dopo sia meno oscuro del cosiddetto prima?».
In ogni caso al di là del dettaglio di Renan – dettaglio rivelatore, evidentemente, anche se non è affatto chiaro cosa riveli – erano ormai decenni che l’io narrante non aveva avuto notizie, né le aveva chieste peraltro, dell’amico perduto. È per una serie di coincidenze, per delle telefonate che inopinatamente gli giungono da amiche a loro volta sparite nelle nebbie del tempo, donne che gli chiedono notizie appunto dell’amico comune, che l’io narrante prende a riesaminare quel tempo lontano – ponendosi domande alle quali, come si è visto, non sa rispondere. Un tempo la cui involontaria e a tratti fastidiosa «resurrezione» si consuma contemplando una serie di ingiallite foto d’epoca. Si riaccendono volti dimenticati, si riodono nomi preteriti ma che si scoprono «fissati», ben al di là o al di qua della volontà, «in qualche cellula lontana, mostruosa, della memoria». In un breve testo del 1929, discorrendo della mémoire involontarie di Proust, Benjamin una volta ha paragonato il momento in cui brilla il cortocircuito memoriale a quello in cui guardiamo delle «piccole immagini», come appunto le nostro umili foto-ricordo: «Stiamo dinnanzi a noi proprio come eravamo un tempo in un lontanissimo passato da qualche parte, senza che però ci vedessimo. E quelle che riusciamo a vedere sono proprio le immagini più importanti – quelle sviluppate nella camera oscura dell’attimo vissuto. Si potrebbe dire che ai nostri istanti più profondi è stata unita una piccola immagine, una foto di noi stessi». Immagini che scorrono in un baleno come quelle che appaiono alla coscienza, «come si sente dire, dinnanzi a chi muore o a chi versa in pericolo» (molto più in là lo stesso Benjamin, nelle testamentarie Tesi sul concetto di storia, scriverà che «articolare storicamente il passato […] Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo»).
Simile alla cesura, alla divisione che da un certo momento in avanti s’è introdotta nel rapporto con Azio, è il «punto di buio» costituito da questi interrogativi senza risposta. Chissà poi se questo sia in effetti buio o, viceversa, il suo contrario: «si depositò – come fosse una macchia – un punto di buio in tutta quella luce; o un punto di luce, subito in altro da sé mutato, in quella penombra traversata da un filo di chiarore che la investiva in obliquo, la modificava, la sconvolgeva nella natura sua propria, nella natura, dico, di quell’ora, di quel minuto». L’esistenza che, da quando ha perso il suo amico, ha condotto l’io narrante è stata immersa nel buio: una «penombra» oscura entro la quale, tuttavia, il «punto di luce» rappresentato dalle nuove e antiche domande non fa affatto chiarezza. Al contrario: parrebbe non far altro che illuminare, segnare a dito l’inconoscibilità, l’inattraversabilità, l’opacità irreversibile del tempo. Del presente come del passato.
Sta di fatto che l’amico perduto, inspiegabilmente come era sparito, riappare. Viene in visita in Italia, come fa ogni tanto, ma stavolta trova il modo d’incontrarsi col vecchio amico, colui che ci sta narrando questa storia. Si vedono due volte: la prima a Roma, nell’appartamento della vecchia madre di Azio, e la seconda a Cernobbio, sulle rive del lago di Como, nella sua casa di famiglia. In queste due occasioni i due amici riuniti – se non ritrovati – intessono una serie di conversazioni in apparenza senza centro, senza corpo quasi, «pensieri-mormorii» o «acufeni» piuttosto che veri discorsi: infrasuoni atonali, quasi impercettibili. È l’occasione, per il Cordelli-scrittore, di sfoggiare il proprio consumato, e direi ormai insolente, virtuosismo dialogico (se misura certa dell’implacabile efficienza usoforme del narratore industriale di oggi è l’immediata trasparenza dei dialoghi – quella che evoca sùbito la traduzione in fiction televisiva – siamo qui evidentemente, fortunatamente agli antipodi): in una sua trascendentale teatralità, nella sua eloquenza astratta quanto bizzarramente – è stato scritto – «solenne». Le due voci galleggiano sulla pagina come «punti di luce» nella «penombra»; o gocce d’olio, sull’acqua, in un antico rito divinatorio: a lungo restano staccate l’una dall’altra, esitanti, «con punti di sospensione incessanti», per poi d’improvviso convergere in figurazioni astratte quanto allusive – disegni che ci chiedono di essere interpretati. In Oriente Aki ha avuto modo di leggere testi sapienziali; conversando col Cordelli-personaggio cita il mistico Rumi e si esalta, rapito «nell’oltre-tempo»: «Ogni immagine che vedi, ogni discorso che ascolti / non penarti quando scompare, questo non è vero. / Poiché eterna è la fonte, i suoi rami scorrono sempre, / e poiché ambedue non cessano, inutile è il lamento».
Ma da dove provengono, questi «rami» che «scorrono sempre»? Qual è la loro «fonte» trans-storica, «eterna»? E dove vanno a confluire? In quale golfo, in quale estuario, in quale marea? È un esilio, quello di Azio? Una fuga? Se sì, da cosa? E verso cosa? La chiave ci viene offerta ben oltre la metà del libro, nel suo decimo capitolo. Sessantatré anni prima il reincontro con Aki, era il Lunedì dell’Angelo del 1944. Quella mattina usciva di casa un uomo il cui nome di battaglia suonava proprio Angelo. Aveva un nome di battaglia perché era un sovversivo, un oppositore del regime fascista; si trovava nella Roma occupata perché, pur rischiando il doppio in quanto ebreo, «s’era buttato a corpo morto nella lotta partigiana». Il suo vero nome era Eugenio Colorni. A casa, Colorni, quella sera non tornò. Perché fu quello il giorno in cui lo sorpresero e lo colpirono a morte gli assassini fascisti della banda Koch, «all’angolo tra via Michele di Lando e via Stamira», nel grigio quartiere di Piazza Bologna dominato dalla Stazione Tiburtina. (Un’altra coincidenza che perturba l’io narrante: sono quelli i luoghi della sua infanzia, le strade che percorreva bambino – lui, nato nel 1943 – per andare alle elementari. Ed è di nuovo in quel luogo che, ormai adulto, un giorno l’aveva colpito in misura inspiegabile un piccolo furto subìto: dalla sua automobile era sparita una giacca.)
Solo ora apprendiamo che Azio, colui cioè che sceglierà di chiamarsi Aki, era un «ragazzo ebreo». La sua reazione a Renan, dunque, si spiega così. L’antisemitismo di quell’autore remoto prefigurava ai suoi occhi quello di coloro che nel ’43 e nel ’44 «cercavano di incatenare l’Europa» e di «eliminare […] tutti i parenti di Aki/Azio e lo stesso Azio»: «se i tedeschi avessero catturato anche la famiglia di Azio, o una parte di essa, la madre e il figlio già nato, quello che era sul punto di nascere non sarebbe mai diventato un uomo a un certo punto scomparso, da nessuno darebbe stato dimenticato, o quasi dimenticato; e mai per nessuno sarebbe risorto». La sua volontaria scomparsa si può insomma dire risponda, sia pure a scoppio ritardato, a quella che nel passato avrebbe potuto verosimilmente prodursi ai suoi danni. «Credimi, detestavo l’Italia» – confessa finalmente Aki. A quest’assunto, chi narra, sente di potersi finalmente appigliare. Spiega Aki: «Dico che le vie di scampo sono poche, O si va via, come ho fatto io. O si diventa cinici fingendo di esserlo. O non fingendolo». Risponde Franco: «O ci si seppellisce in qualche stile, in una catacomba. Qualcosa del genere…». Sono due esilî paralleli, i loro: l’uno nello spazio reale, geografico; l’altro in quello della scrittura, nello spazio letterario. Ma se in questo i due si assomigliano, in cosa invece continuano a essere divisi? «Il simile e il dissimile, il lontano e il vicino, l’uguale e il diverso». In fondo Azio aveva messo un mondo di mezzo, fra sé e l’Italia: ma non fra sé e l’Italia fascista, quella che aveva perseguitato la sua famiglia. Quella era remota. Ma remota solo nel tempo: quando è partito infatti «c’era quel tipo di governo, quell’oscuro, sgradevole individuo». E quell’«Italia era diventata l’emanazione della sua classe dirigente, ora si è a essa incorporata, sono la medesima sostanza».
Nella sua sostanza appunto l’oscuro, sgradevole individuo è certamente colui che Cordelli ha battezzato, nel suo romanzo precedente, Il duca di Mantova. Ma, come già in esso veniva mostrato, tale sostanza in realtà egli trascende. È a sua volta un’immagine dialettica, dunque: anche se non sprizza luce bensì buio. È colui o ciò che separa: che appunto ha diviso gli amici, spezzato le comunità, distrutto il Paese. Laicamente parlando è il «diavolo»: cioè, secondo l’ètimo, appunto «colui che divide, l’avversario». La divisione, la cesura che ha separato Azio e Franco ripete, in ulteriore immagine dialettica, quella che divise Eugenio Colorni da Guido Piovene. È una storia che ha raccontato Sandro Gerbi in un libro mirabile, un libro che dell’Italia, dell’Italia del fascismo storico e di quello «eterno» (per dirla con Rumi) dice molto, forse troppo (non a caso, infatti, non è stato più ristampato): Tempi di malafede (pubblicato da Einaudi nello stesso 1999 in cui lo stesso editore fece uscire l’ultimo libro di Cordelli che abbia ritenuto opportuno pubblicare, Un inchino a terra). La storia la riassume rapidamente Aki a Franco: «Piovene scontava, come ancora sconta, la condiscendenza verso il fascismo, il fatto che ne ebbe onori, che scrisse più d’un articolo di dubbia qualità sulla questione ebraica, proprio lui che era grande amico di Eugenio Colorni, erano inseparabili, poi si separarono, poi si riavvicinarono, Piovene lo protesse dai tedeschi, a Roma». Tanti anni e tante escursioni ideologiche dopo, tanta malafede dopo, incontra Piovene da tempo gravemente malato, a Londra dove si è ritirato, uno scrittore che parrebbe ai suoi antipodi («due nomi inaccostabili»): Paolo Volponi. È un incontro che colpisce inspiegabilmente Volponi, al punto che l’anno dopo decide di dedicare allo scrittore più anziano, nel frattempo scomparso, Il sipario ducale.
Cosa di Piovene ha tanto colpito Volponi? E cosa, in forma postuma, ha ancora segnato Cordelli? Il nodo è in un gesto, di Piovene, di molto successivo alla lacerante storia con Colorni: «Piovene dopo i suoi successi di scrittore, i successi degli anni Quaranta, smise di scrivere per quasi quindici anni. Ricominciò da vero combattente, cioè da vero torturatore (di sé), di fronte alle accuse che gli mossero alcuni coetanei, o persone più giovani di lui, d’essere stato un collaborazionista e di aver tentato di seppellire il passato». Con un memoriale dal titolo che è tutto un programma, La coda di paglia, «Piovene pubblicamente si spiegò, ovvero tentò di confessare e, in parte, di scusarsi, di alleviare, io credo, il peso della sua colpa, il rimorso che si vede salire come una marea dalle sue pagine, dai suoi libri degli anni Sessanta, gli anni della mia giovinezza, quando quei libri li leggevo senza capire nulla». La coda di paglia uscì da Mondadori nel 1962: cioè proprio l’anno in cui si consumava – sulla medesima questione dell’antisemitismo che, ventiquattro anni prima, aveva diviso Eugenio da Guido dopo che questi s’era macchiato del disgustoso articolo Contra Judæos, uscito sul «Corriere della Sera» il 1° novembre 1938 – la divisione tra Azio e Franco. Il nodo è nell’irresistibile emersione della colpa, dunque: nell’allagarsi di una coscienza sommersa dalla marea del rimorso.
E proprio la colpa – per lo più inoggettivata, irrazionale, trascendentale – è poi, insieme alla sparizione, l’altro grande tema della narrativa di Franco Cordelli. Il quale in un’intervista mi ha detto una volta: «nel 1978, quando cominciai a scrivere Pinkerton, si affacciò la percezione di un elemento nuovo e cruciale che sarebbe diventato il tema dei libri successivi. Era l’idea della colpa. O forse il sentimento della colpa. […] La colpa metafisica, se ne esiste una, sempre si traveste, assume un connotato storico. Alla fine degli anni Settanta, questo connotato storico era precisamente la consapevolezza di profittare – che tutti ormai profittavano – del libero accesso a tutto. […] In Un inchino a terra, essa è ai miei occhi del tutto oggettivata. Colpevole è un personaggio estraneo alla mia esperienza, alla mia biografia, benché mio coetaneo e dunque partecipe di uno stesso momento culturale. […] Il duca di Mantova è l’esito di tutto ciò. Senza più il peso della colpa, sono libero di aggredire il personaggio che ritengo storicamente colpevole. Ora la filosofia, l’analisi, l’elegia non servono più. Posso scrivere, se ci riesco, una satira. O addirittura un’invettiva» (Corpo a corpo con il nulla, in Il Cordelli immaginario, cit.). In verità questa conclusione non mi convinceva allora (rinvio al mio Novelle dal Ducato in cenere, in «Nuovi Argomenti», 27, luglio-settembre 2004) – e tanto meno, ovviamente, mi convince adesso. Se è vero che Il duca di Mantova è anche una «satira» e un’«invettiva», essa è sì rivolta sul piano storico al «personaggio […] storicamente colpevole»; ma sul piano trascendentale e metafisico – quello che sempre e soprattutto interessa Cordelli e chi lo legge – essa è in effetti rivolta all’entità che divide, al «diavolo» che non solo divide italiano da italiano ma, ciò che è più grave, ogni italiano lacera al proprio interno (già nel Duca di Mantova si leggeva infatti: «Non: chi è il Duca di Mantova, chi se ne frega; ma: che cosa egli significa, quanto di lui c’è in me»). Esattamente come la malafede che Piovene meglio di ogni altro indaga, masochisticamente esibendola in sé come coda di paglia. Già nel primo romanzo, Lettere di una novizia pubblicato nel 1941, gli era chiaro come proprio questa forza fosse l’avversario: «La malafede è un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza».
È questa la forza, il «brutto poter» che ha esiliato Azio dal suo paese e dalla sua lingua materna, lo stesso che ha esiliato Franco nella catacomba del suo stile. È questa – pure – la forza oscura che contro di lui ha inopinatamente scagliato Fumiko, la giovane orientale che Franco ha perduto all’inizio del romanzo, così capovolgendo il destino di Pinkerton e Cio-Cio-San nella Butterfly pucciniana: lei gli ha mandato una lettera contenente «delle vere e proprie contumelie», era – inspiegabile, immotivata, trascendentale – «la lettera di rifiuto di un mondo». Anche Azio, diventando Aki, ha rifiutato il «mondo» nel quale è rimasto confinato Franco: pur consapevole – com’era consapevole l’intelligentissimo Piovene, il debole e in malafede Piovene del ’40 – che quel «mondo», il mondo dominato dal «diavolo» della divisione, e anzi ad esso consustanziato, è un mondo malvagio. Nonché destinato alla fine. Aki ha fatto una scelta: l’etica della sparizione, appunto. Anziché partecipare ai terrori del nostro mondo assediato – i terrori dei muri, delle barriere, della paranoica difesa dei privilegi – proprio nella luce dell’attimo di pericolo ha scelto di unirsi alla marea umana degli assedianti, alla forza irresistibile dell’«intero» che quelle divisioni fuori dal tempo, inevitabilmente, travolgerà salutare: «Verranno palestinesi, arabi, cinesi, israeliani, laotiani, polacchi, rumeni, turchi», annuncia Aki, «nulla li fermerà, nessuna legge, questa è la legge. Allo stesso modo, noi andremo da loro, nessuno fermerà noi, noi siamo già andati, andiamo da anni, da decenni, da secoli, siamo arrivati prima, nel cosmo tutto è così». Chi scrive, invece, non riesce a sciogliere la propria individualità: «Io, così ondivago, cioè così fedele alla mia colpa, ero e resto qui, sempre nello stesso posto, sempre infedele». Chi dice io non s’è ancora sciolto nella marea, dunque. Ma il fatto che l’ultima definizione che si attribuisce sia quella di ondivago, in fondo, preannuncia che di quella stessa equorea sostanza, ormai, è consapevole di far parte.
Con La marea umana non solo Franco Cordelli ha saldato in una sola, grande metafora il suo ciclo – e il suo linguaggio – esistenziale ai presupposti – e alle strutture – del suo ciclo resistenziale. Ha anche sfiorato da vicino la realizzazione di un sogno che non era e non è solo suo se appartiene alla narrativa occidentale almeno a partire da Flaubert, il quale com’è noto si spinse a confessare: «Ciò che mi sembra bello, ciò che vorrei fare, è un libro su nulla, un libro privo di legami esteriori, che si regga da solo grazie all’intima forza dello stile». Il nulla, la béance della sottrazione assoluta è l’idolo in diverse forme vagheggiato sin dai suoi esordi (la scrittura bianca predicata, sulla scorta di Henry James, in Partenze eroiche). Per questo, sin dall’inizio, il suo tema è stato quello della sparizione. Nel libro che in precedenza più vicino s’era spinto all’obiettivo, Il duca di Mantova, lucidamente Cordelli aveva indicato come fosse in realtà, questo, un orizzonte per definizione irraggiungibile, quello cioè che in matematica si definisce un asintoto: «se scrivessi del nulla in quanto tale sarei un grande scrittore, ma l’impresa non è riuscita a nessuno, sarebbe come se l’essere umano, con le sue navicelle, fosse arrivato fino a Venere, il nulla lo percepiamo dietro le cose e la loro gerarchia, o la gerarchia che pensiamo esse abbiano». Dietro all’ingombrante presenza corporea del Duca, dietro all’apparenza di quell’oscuro, sgradevole individuo, s’era bensì intravista la Gorgone, l’impietrante testa di Medusa del Nulla. Ma è nella Marea umana che il corpo a corpo col Nulla è stato, per la prima volta, davvero ingaggiato sino in fondo. Non a caso un paio di volte vi si ripete che «Non vi sono episodi, non vi è nulla – nulla da raccontare»: e spesso questa scrittura a infrasuoni corteggia davvero da vicino, come si è visto, la sostanza del nulla. Ma quello che con un brivido scopriamo, leggendo La mare umana, è che se questo Nulla in misura così evidente ci riguarda è perché esso in realtà assomiglia da vicino, da perturbantemente vicino, al Tutto. Il Tutto che, giorno dopo giorno, mareggiante ci inghiotte.
D’accordissimo con Cortellessa: si dovrebbero recensire solo le copertine.