Ancora sull’antirealtà
di Giuseppe Zucco
Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto. Carlo Emilio Gadda
Ma è così? In letteratura esiste una divisione così netta tra finzione e realtà? Le opere letterarie possono essere annoverate senza ombra di dubbio ora tra le schiere della realtà ora tra quelle della finzione? E questa distanza certificata aiuta la comprensione delle opere letterarie? Oppure il gioco è infinitamente più sfumato? E se così fosse, non vi è forse tra realtà e finzione un reciproco scambio, un’osmosi continua quasi impercettibile? Non è più corretto affermare che le particelle dell’illusione possono rendere più completo l’atomo della realtà, e viceversa?
Eviterei di scomodare ancora Friedrich Nietzsche: ma è proprio nella Genealogia della morale che si trova l’abusatissimo e frainteso “non esistono fatti, ma solo interpretazione di fatti”, e questo non significa che la verità non esista, o che gli accadimenti non siano di volta in volta provvidenziali e/o catastrofici nel loro avverarsi – la caduta nel revisionismo dei fatti storici o nel nichilismo sarebbe altrimenti inevitabile – ma che i fatti per essere raccolti, tramandati, diffusi abbiano l’esigenza di essere messi in forma, di essere ricostruiti secondo una o molteplici linee narrative, di essere riordinati seguendo un filo logico rigorosissimo.
In questi giorni, guardando i telegiornali e i programmi televisivi, tenendo gli occhi aperti e chiusi davanti all’infinita sepoltura di Sarah Scazzi tra le agenzie Ansa e i pixel, mi è ritornato in mente un campione di scrittura “realista”, il Truman Capote di A sangue freddo – non solo perché mi è parsa subito insopportabile questa onda emotiva che solca i media intorno all’omicidio di una ragazzina esibita continuamente nei filmini familiari mentre si pettina o mangia un panino al Mc Donald, ma soprattutto perché questa emotività diffusa tutto permette tranne la comprensione dei fatti o la pietà e il distacco verso i suoi personaggi.
Truman Capote esplorò con il fiuto e la sensibilità dello scrittore un fatto di cronaca simile: indagò, raccolse tutti i documenti possibili, compilò le interviste di ogni singola comparsa sulla scena allargata del delitto, poi ci mise sei anni per dare ordine e dispiegare dentro i confini di un libro non un fatto, ma la complessità, la razionalità, la disperazione sentimentale, il mondo intero che quel fatto illuminò nel suo avverarsi. Ed è proprio l’esattezza e la precisione del libro che ci permette di “sentire” i personaggi e le loro ambizioni – sia pure la commovente e fragilissima ambizione di vivere, come si capisce leggendo degli attimi che precedettero la fine della famiglia di Holcomb, Kansas.
Eppure in un libro in tutto e per tutto realista, dove in teoria sono i fatti a piegare la letteratura e non il contrario, c’è una scena che mi torna sempre in mente quando si oppone la realtà alla finzione come fossero due entità distinte, ed è esattamente la scena dell’arrivo dei due assassini al tribunale, anche se il loro arrivo non è raccontato dal punto di vista del narratore o di un personaggio qualsiasi, ma dal punto di vista di un gatto, anzi una coppia di gatti spelacchiati, se non ricordo male. Questo toglie verosimiglianza ai fatti, alla verità dei fatti narrati? Neanche per idea: amplifica e distende piuttosto la portata veridittiva della narrazione dei fatti, come se il mondo intero, animali compresi, continuasse ad essere testimone, e quindi parte oggettiva e soggettiva, dei fatti accaduti.
Al contrario, prendiamo 2666 di Roberto Bolaño: per intenzioni, visionarietà, uso folgorante dei cliché narrativi, fluvialità della scrittura, è un libro da collocare al polo opposto di A sangue freddo. Eppure nella quarta parte del libro, La parte dei delitti, in mezzo alla trama di un romanzo dove in teoria è la letteratura e la finzione a piegare la realtà e non il contrario, emergono nella loro nerissima tragicità i referti spietati delle morti di migliaia di donne dentro e nei dintorni di Ciudad Juarez. Quegli omicidi sono in tutto e per tutto reali – da tempo avvengono ai confini del Messico senza che si riescano a scoprire gli assassini. Ma quelle pagine, oltre a dare conoscenza al lettore di un fatto così vero e così mostruoso, messe lì, nel cuore di un romanzo di finzione, finiscono per amplificare la portata dolorosa degli eventi, facendo coincidere la morte violenta di quelle donne con il male tout court, la configurazione perversa e oscura del male, che ha tanto a che vedere con la tirannia, la sopraffazione, l’inganno, le forme del capitalismo avanzato, la vita politica deviata dalla propria missione, la giustizia compromessa nei suoi fini e nei suoi funzionari.
Così mi viene da pensare che “l’antirealtà” di cui parla Tommaso Pincio non sia tanto un mondo parallelo al nostro che decidiamo di abitare immergendoci in un libro qualsiasi. Penso piuttosto che siccome il mondo in larga parte può essere ricondotto a un fatto linguistico – cioè a una serie di fatti riordinati e compresi dentro la logica e le regole di un linguaggio, sia questo il linguaggio parlato o scritto, o quello del cinema, della pittura, della scultura, dell’arte nel suo insieme, della televisione, dei new media – allora l’antirealtà siano tutti quei fatti linguistici dove decidiamo di entrare e trascorrere il nostro tempo (un romanzo, un film, un quadro, un blog) in cui il linguaggio è così finemente lavorato da permetterci la comprensione del mondo, o anche la percezione sensoriale del mondo e della realtà, o la condivisione allargata della condizione umana, o la rottura epistemologica degli stereotipi e dei luoghi comuni, o la messa a punto di un modo altarnativo di considerare gli eventi e le formule veritative, o l’immaginazione del migliore dei mondi possibili, o tutte queste cose insieme. L’antirealtà, se così la vogliamo chiamare, è il rintocco di una lingua plurale e diramata dentro l’ossessività martellante e globale della lingua del potere.
Ma: a me pare piuttosto evidente che “A sangue freddo” è un romanzo: perché è fatto come un romanzo (anche se è molto meno “romanzesco” di “2666”). Lo leggo, e leggo ciò che è scritto come una finzione.
La verità (nel senso di adeguamento alla realtà) o invenzione dei fatti raccontati non incide sulla natura di finzione del romanzo, perché a fare di un romanzo un romanzo è proprio la forma-romanzo.
Potremmo dire magari che un romanzo, opera di finzione (e quindi di immaginazione) può avere un carattere di proposta: ci invita a far diventare la realtà (quella cosa che chiamiamo realtà) simile al romanzo stesso. E’ insomma, o almeno può essere, un exemplum.
L’operazione finzionale è quindi, o almeno può essere, non un’operazione di rispecchiamento della realtà esistente, ma un’operazione di produzione di realtà possibile.
Chi lavora sui “fattacci” di cronaca sa benissimo tutto questo. E quindi produce, usando materiali reali al solo scopo di essere più icastico, realtà possibile a tonnellate. Una realtà possibile nella quale il normale cittadino fa fatica a farsi dar retta allo sportello comunale, ma le prostitute hanno il telefono (quasi) diretto del capo del governo: e ciò rende buona e desiderabile la prostituzione. Una realtà possibile nella quale gli zii, le cugine, le madri, i padri, tutti insomma, possono diventare da un momento all’altro i nostri assassini: e ciò rende buona e desiderabile una totale presa in carico delle nostre paure da parte di quest’uomo forte e generoso, padre di famiglia nel miglior senso del termine, al quale le prostitute telefonano.
Realtà/ Finzione
Dualità
La realtà è il punto di partenza: un fatto di cronaca, un’emozione, un volto incontrato nella folla, una storia raccontata da un amico, un ricordo.
Qualche scrittore si allontana dalla riva della realtà. Si prende una metafora, si potrebbe immaginare un viaggiatore sul ponte, guardando dietro e di fronte. Anche scrittori incantati della metamorfosi che prende la realtà, sono vincolati al sogno, ma anche al mondo. Antoine Volodine, per esempio inventa città strana, popolo in errance, l’ultima margine
è una visione di dittatura già consciuta in paesi totalitari. Garcia Marquez
fa intrare il soprannaturale in un luogo che l’autore conosce dal infanzia, ritmato dal mare.
Della stessa manera uno scrittore realistico non puo solo descrire i fatti senza prendere la distanza artistica della scrittura, senza prendere posizione nella sua scrittura. La finzione si intrufola nell’arte delal scrittura, perché scegliere una parola è già parlare del sogno che occupa la mente di uno scrittore, il sogno di fare riconoscere a tutti questa verità,
non a sangue freddo, ma tramitte il calore della scrittura, tramitte la musica interiore. La verità che voglio fare conoscere a tutti l’ho portato dentro, l’ho mescolata con la mia emozione, quello che sono e la mia aprola è fatta di questa verità.
Mi scuso per gli errori. Mi fa vergogna, ma non ho tempo di rileggere.
Tutto dipende dal fuoco dell’immaginazione, da quanto è forte; in A SANGUE FREDDO è forte, e per questo non ha più molta importanza la distinzione fra realtà e fiction.
E’ l’immaginazione dello scrittore a romanzare la materia narrativa; nessuna materia narrativa in sé è buona o cattiva; e io più che di antirealtà parlerei di plus-realtà, di realtà più ricca o diversa o comunque altra, di realtà che appaga la nostra fame di trrovarci altrove, di sapere di più, di vivere più intensamente. Il romanzo ben riuscito è un incremento di vita.
@giulio mozzi
“L’operazione finzionale è quindi, o almeno può essere, non un’operazione di rispecchiamento della realtà esistente, ma un’operazione di produzione di realtà possibile.”
questo è il destino di ogni medium – un destino ambiguo, se vogliamo. ed il libro in quanto medium, qui nella sua accezione di romanzo, non ne è esente. da una parte soffre la corcizione della realtà in cui si situa, dall’altra ha la possibilità di influenzare la realtà con la rappresentazione che propone. è gia a questo primissimo livello che il libro diventa così incrocio impercettibile tra realtà (il “fatto bruto”, come direbbe john searle, oggettivamente esistente) e finzione (trasmigrazione della percezione della realtà dentro le forme prescrittive di un linguaggio).
questa ambiguità costitutiva di ogni medium fa crollare ogni pretesa di determinismo. non è sufficiente ripetere, per esempio, che la televisione corrompe la civiltà – come già fu detto per il libro nella forma romanzo nell’ottocento. tutti i media sono specchio e forza motrice dei cambiamenti sociali. i media sono soltanto alcune tra le variabili che concorrono alla formazione materiale e spirituale di un periodo storico.
la cosa interessante è che la finzione, però, non è un sinonimo di falsificazione. la finzione, o il processo di finzionalizzazione, è l’accoglimento della realtà dentro le regole di un linguaggio. è proprio per questo che leggendo un libro, o guardando un film, facciamo esperienza del mondo e della condizione umana, perchè incontriamo la realtà per come la percepiamo ordinata e comprensibile nelle forme riconoscibili di un linguaggio.
lo scarto, allora, quello che ci fa sobbalzare sulla sedia mentre leggiamo un libro o guardiamo un film, non è tanto se ciò che leggiamo o vediamo è vero o meno, è realmente accaduto o totalmente inventato – lo scarto risiede nella possibilità che il linguaggio impiegato nella costruzione di un racconto sia così lavorato da trascendere se stesso e le proprie regole, come se le regole è le costrizioni fossero i gradini da salire per comprendere ciò che abbiamo sotto gli occhi, o per riuscire a intuire quello che ancora non vediamo. il linguaggio – non sempre, non così a fondo, non del tutto – permette di scoprire, scrutare, prefigurare. la letteratura, allora, è la terra in cui la scoperta e la prefigurazione è più e meglio di una remota possibilità.
Giuseppe,
scrivi: “la cosa interessante è che la finzione, però, non è un sinonimo di falsificazione”.
Certo. Lo si ricava anche dallo Zingarelli (o dal Devoto-Oli o da qualunque altro dizionario, a piacimento).
Scrivi anche: “la finzione, o il processo di finzionalizzazione, è l’accoglimento della realtà dentro le regole di un linguaggio”.
Sicuro? Non potrebbe trattarsi anche, talvolta, forse, dell’accoglimento di qualcosa che non è reale dentro le regole di un linguaggio?
Scrivi anche: “lo scarto risiede nella possibilità che il linguaggio impiegato nella costruzione di un racconto sia così lavorato da trascendere se stesso e le proprie regole”.
Vorrei un esempio (con spiegazione). Lo vorrei perché ho l’impressione che questa frase non significhi nulla.
ciao giulio,
andiamo per ordine:
1) ho scomodato i vocabolari da te citati proprio per sostenere che per ovvie ragioni la finzione ha l’indubbio potere sia di raccontare e mettere in forma la realtà sia di raccontare storie totalmente inventate. la falsificazione, per essere più sottili e fuori dai dizionari, è una potenzialità del linguaggio in sè.
2)hai ragione tu, anche se non ho mai sostenuto il contrario: dentro le regole di un linguaggio può passare sia ciò che è reale, sia cio che reale non è. nel momento in cui reale o non reale entrano nel campo della letteratura queste acquistano un altro statuto, diventano una rappresentazione, cioè qualcosa non così nettamente ascrivibile alla realtà o alla non realtà. è dall’attrito di queste due forze in campo che si accende la possibilità di comprendere il mondo, il tempo, la condizione umana. è chiaro però che anche quando si racconta qualcosa di completamente inventato, ciò che è inventato per poter essere credibile non sfugge alla verosimiglianza o in parte alla rappresentazione realistica. prendi gregor samsa, l’uomo diventato scarafaggio ne “la metamorfosi” di kafka: questo si muove esattamente come un insetto osservabile nella vita di tutti i giorni, nello stesso tempo continua a pensare con una logica da impiegato praghese. ed è esattamente quanto sostenevo nei confronti della finzione: la finzione non è una cesura netta tra fatti e racconto dei fatti (inventati o meno), ma è un continuo scambio tra realtà e rappresentazione.
3) esempi, ce ne sarebbero un’infinità, fortunatamente. siccome li ho letti da poco, in letteratura: “2666” di bolano, “suttree” di mccarthy, “tu, sanguinosa infanzia” di mari. sono libri completamente diversi gli uni dagli altri, ma possiedono quello che ho spiegato e che avresti capito se fossi andato avanti nella frase fino al punto.
per essere ancora più chiaro ti lascio giù le parole tratte da un’intervista a david foster wallace:
“il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. io non so cosa stai pensando o che cos’è che hai dentro, e tu non sai che cos’ho dentro io. nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro. ma è solo un primo livello, perchè l’idea dell’intimità mentale o emotiva con un personaggio è un’illusione, un meccanismo creato dallo scrittore attraverso la sua arte. c’è anche un altro livello su cui un testo letterario diventa una conversazione. fra il lettore e lo scrittore si instaura un rapporto che è molto strano, complicato e difficile da descrivere. un ottimo brano di letteratura non è detto che mi catturi completamente e mi faccia dimenticare che sono seduto in poltrona. c’è della narrativa commerciale che è perfettamente in grado di riuscirci; una trama avvincente è perfettamente in grado di riuscirci: ma non mi fa sentire meno solo. invece c’è una specie di “a-ah! qualcuno almeno per un attimo pensa come me, o vede una cosa nel modo in cui la vedo io”. non capita sempre. sono brevi flash, fiammate, ma ogni tanto mi capitano. e non mi sento più solo, a livello intellettuale, emotivo, spirituale. la letteratura e la poesia riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi profondamente e significatamente in comunicazione con un’altra coscienza, in una maniera del tutto diversa da quanto riescano a fare altre forme d’arte”.
aggiungo pure che la letteratura non solo mi fa vedere nel modo in cui la vedo io, come dice wallace, ma continua a farmi vedere e intuire forme e modi di sentire e di pensare che ancora non possiedo o che non ho sviluppato.
” continua a farmi vedere e intuire forme e modi di sentire e di pensare che ancora non possiedo o che non ho sviluppato “.
E’ questo il punto, bravo Zucco.
aggiungerei questo pensiero che mi fa di sperare
“nessuno sa trasformare la forte emozione dalla quale è investito in autentica esperienza conoscitiva di se stesso e delle persone che lo circondano, rimane appunto la sorpresa, senza alcuna risonanza interiore, incapace di condizionare alcunchè nella propria vita”
e
“per chi ha preso l’incresciosa abitudine di smascherare le apparenze, “evento” e “malinteso” sono sinonimi.
andare all’essenziale significa abbandonare la partita, confessarsi vinti”
abbandonare la partita non è dichiarare fallimento nel senso comune del termine, abbandonare la partita significa ricominciare da questo “fallimento”, ri cominciare a prenderci/si sul serio, essere finalmente in grado di distinguere le narrazioni “oneste” e quindi “fallimentari” dalle narrazioni “disoneste” e quindi “vincenti”, narrazioni consapevolmente o inconsapevolmente “disoneste”
e altro, ma non ho tempo
bravo giuseppe zucco
bacio la fu