L’ultimo viaggio di Seneca
di Francesco Saponaro (da Lucio Anneo Seneca)
Ho conosciuto uomini potenti, ricchi, molto influenti e fortunati. Ho visto oppressori di deboli, rapitori, calunniatori, scacciare dalle loro case i vicini, altri sconfinare violentemente dai loro confini. A volte mi chiedo se anche Dio vede tutto questo.
Tutti questi uomini si circondano di beni illusori, ingannando i loro spiriti vuoti con la promessa di un lungo sogno; si coprono d’oro, d’argento, d’avorio e brillano impettiti, come fiaccole al vento, a far mostra di sé. Bevono in coppe gemmate e vomitano tutto quanto hanno bevuto, ruminando tristi la propria bile. Sono ben curati in superficie, come le pareti delle loro case; ma è solo apparenza, una patina esterna, e per di più sottile. Sembrano felici, ma se si guardano più da vicino sono meschini, volgari, turpi; dentro non hanno nulla di buono.
S’ingozzano di ogni ben di Dio. Posseduti dalla follia impazzano fra le risate. Rallegrano le orecchie con feste e baccanali, gli occhi con spettacoli, il palato con buoni sapori. Le loro belle case li rendono arroganti. Lodano l’eloquenza, si inchinano davanti all’autorità, esaltano il potere. Giocano, oziosi, senza prevedere i rischi incombenti del destino. Vivono sotto la minaccia del rimorso e marciscono in mezzo ai beni materiali senza pensare a quanti accidenti pendono loro sul capo.
Dissipano patrimoni, rovinano gli amori nei postriboli, perdono il Senato, il Foro e tutti i luoghi dedicati alla pratica pubblica; occultano i registri dove la loro cupidigia, illusa, aveva vergato una falsa fonte di ricchezza; piangono, si lamentano.
Impostori, percuotono cembali, gridano menzogne su ordinazione e venerano il vizio come una divinità e coloro che la professano come sacerdoti. Cambiano continuamente direzione; si fanno tormentare la coscienza dalla mutevolezza e dalla vanità dei desideri. Ondeggiano, scegliendo ora un oggetto ora un altro, lasciano ciò che hanno cercato, cercano di nuovo ciò che hanno appena abbandonato e in loro si alternano continuamente desiderio e rimpianto. Sono schiavi del giudizio altrui e apprezzano soltanto ciò che gode il favore della folla. Corrono, come le formiche, che vanno su e giù per gli alberi e salgono e poi discendono, senza motivo e senza una meta.
Questi stolti, questi inquieti, ignorano il sommo bene, la fermezza di un animo nobile che non si spezza, che è insieme previdenza, grandezza, salute morale, libertà, armonia, bellezza.
Davanti a questi conquistatori di città, le mura crollano, le torri sprofondano d’un tratto nei cunicoli e nelle gallerie sotterranee; ai loro ordini si alzano bastioni d’assedio per raggiungere i più alti baluardi; ma tutti questi uomini non hanno ancora trovato una macchina da guerra capace di scuotere un animo forte.
Tra le spade scintillanti, in mezzo al tumulto dei soldati scatenati al saccheggio, tra le fiamme, il sangue e le macerie delle città distrutte, mentre i templi crollano con fragore sui loro dei, una via d’uscita da ogni dolore è sempre aperta.
E allora cada pure ogni cosa sotto il potere di un despota, e le terre siano dominate dalle sue legioni e i mari dalle sue navi; vengano pure i soldati di Cesare ad assediare le mie porte; io so come uscirne: so aprirmi una strada verso la libertà.
Non intendo più accettare alcuna costrizione. M’innalzerò al di sopra del tragico quotidiano, a guardare serenamente i dolori, le sventure, le ferite, le perdite e i grandi sconvolgimenti che mi circondano. Voglio arrivare là dove il sole risplende, è il destino a condurmi.
L’armonioso movimento delle stelle, questo inalterabile moto dell’universo, della terra e dei mari; e gli astri, splendenti di luce propria, le piogge, le nuvole, lo scoppio violento dei fulmini, le fiamme lanciate dalle cime dei vulcani, le sorgenti di acqua calda in mezzo al mare, le nuove isole che spuntano nell’immenso oceano, i terremoti e tutti gli altri sconvolgimenti della terra, ebbene, tutti questi fenomeni, per quanto improvvisi, hanno tutti le loro cause, come le hanno quelli che, mostrandosi dove non ce li aspettiamo, sembrano un miracolo.
Le cose umane non vanno più per il verso giusto. Sono vecchio, abbandonato; vedo attorno a me solo cose nemiche; eppure posso ben dire che tutti i miei beni sono salvi e senza danno; sono protetti da difese solide e inattaccabili, resistenti al fuoco e agli assalti, altissime, inespugnabili, elevate quanto le dimore degli dei e io conservo tutto, integro e intatto. La mia casa è piccola, silenziosa e modesta; e tuttavia, per questa soglia spalancata e libera, la sorte non passa: non c’è più posto per lei dove non c’è nulla di suo. Le sventure, i dolori, le umiliazioni, gli esili, i lutti, le separazioni, tutte queste cose – le ingiurie della sorte – non possono più travolgermi.
Che la mia anima non si lasci più corrompere né dominare dalle cose terrene, ma ammiri solo se stessa, fidandosi solo del suo coraggio, artefice dell’unica via. Che la mia anima sieda giudice del lusso e delle vanità, perché non resti più nulla di turpe, nulla di equivoco, nulla in cui io possa urtare o cadere; sazia di tutto quello che suole dilettare i sensi si volga al passato e, ricordando i piaceri goduti, gioisca di quanto ha avuto e si avvii, al più presto, verso quello che sta per venire.
Che la mia soluzione sia stabile, rapida, efficace e il mio principio incrollabile. Accetto la prova finale contro cui nulla possono nemmeno le leggi più dure e i tiranni più feroci. Accetto la prova finale e resto fermo, sicuro, come uno scoglio solitario di fronte al mare, che le onde flagellano da ogni parte senza riuscire a smuoverlo nonostante l’assalto dei secoli. Il mio spirito è pronto, mi lascio alle spalle la vita!
E come in mare si allontanano i paesi e le città, così in questa corsa rapidissima del tempo mi lascio dietro la prima fanciullezza, l’adolescenza e poi tra giovinezza e vecchiaia quell’età che confina con entrambe e dopo, ancora, gli anni migliori dell’età senile; e ora, in ultimo, ecco l’approdo, il porto sicuro. Così come scelsi le navi quando mi toccò di andare per mare, e le case in cui vivere, ora scelgo la morte.
Contro il mal di testa ricorrevo spesso a un salasso: aprivo una vena per diminuire la pressione del sangue. Non era necessario che io mi squarciassi il petto con una vasta ferita: era sufficiente un bisturi ad aprire la via: in fondo la mia serenità dipendeva da un piccolo taglio.
Esca dunque la mia anima per quella strada che ha preso di slancio, avanzi decisa e spezzi le catene della sua schiavitù. Non importa morire presto o tardi, ma morire bene o male; perché morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male. È vergognoso vivere di rapina, morire di rapina, invece, è bellissimo.
(dallo spettacolo De Ira, viaggio all’Averno. Versi Igor Esposito, ideazione e regia Francesco Saponaro, con Giovanni Ludeno (Nerone), Toni Servillo (voce di Seneca), Licia Maglietta (Sibilla), Peppino Mazzotta (Tenente). Produzione Teatri Uniti, Laila 2006. La foto è di Fabio Esposito)
Bellissimo e terribile (soprattutto in questi tempi bui). Grazie.
Magnifico! La voce antiqua possiede un eco in nostri tempi odierni.
Com’è bella questa parola, bevuta nella coppa della satira.
La ricchezza descritta come uno sfogo volgare del corpo, dei sensi, invec del silenzio. Parola formata nel paesaggio del lago Averno, nel territorio della bellezza, quando il colore rosso e oro si unisce all’acqua mai quieta.
Se vuoi ancora in questo mondo trovare un sentimento di bellezza, camminare vicino al lago o al mare antiquo, ascoltare parole come quelle, non dimenticare che il teatro cerca l’anima del cittadino.
Molto importante proteggere questa bellezza, questo luogo (Cuma, Pompei, Napoli…) Il mio sogno è di vedere in Francia Toni Servillo al teatro. E’ un attore incantenvole, con un gioco sobrio, elegante.
[…] Via Nazione Indiana […]