Lo Spettacolo della violenza

di Marco Rovelli

“Roberto ti scrivo perchè ti stimo ma questa volta ti sbagli. I numeri e le immagini mi sembrano chiare e non equivocabili, la logica dei buoni e dei cattivi questa volta regge poco.” E’ stato uno dei commenti di dissenso in calce alla lettera di Saviano sul sito di Repubblica. Questo movimento no  ci sta a farsi dividere in buoni e cattivi. Saviano – a cui riconosco, come persona e come scrittore, grandi meriti, e l’ho scritto più di una volta – stavolta ha mancato il colpo, e lo ha mancato parecchio. E’ interessante fare entrare in risonanza questa sua presa di posizione con la precedente, da cui personalmente mi sento ancor più distante, sulla sua incondizionata dichiarazione di solidarietà allo Stato di Israele e al suo governo resa pubblica durante la manifestazione organizzata nientedimeno che da Fiamma Nirenstein. Si era dimenticato, nell’elogiare l’avanzata legislazione sui diritti civili di quello Stato, che tale illuminata politica poggia esattamente su un apartheid che lo stesso pratica quotidianamente. E che pratica con un quoziente di violenza che dovrebbe essere inaccettabile per qualsiasi persona che abbia a cuore il senso della parola “democrazia” (ma già lo annotava Blanqui 160 anni fa:  “democrazia” è una parola che tutto contiene e nulla vuol dire, una parola-baule diciamo,  troppo pieno, dunque un significante vuoto). Perché un intellettuale così impegnato a reclamare la libertà di un popolo condanna con questa virulenza le forme di contestazione violenta che vengono da una generazione che si sente oppressa e senza prospettive, laddove invece accetta e giustifica la violenza immane di una grande macchina statale? Nella camera iperbarica in cui è costretto a vivere, mi pare che Saviano abbia smarrito il senso della realtà, e rovesciato la prospettiva. Non credo, e l’ho già scritto, che questo fosse già inscritto nel suo percorso ab initio (ho trovato e continuo a trovare semplicistica e fuori fuoco l’analisi di Dal Lago). Mi pare piuttosto che su questo Saviano di oggi si scontino gli effetti visibili della produzione di irrealtà della grande macchina mediatica: Saviano, reso icona spettacolare, separato de facto dalla realtà (ciò che lo ha reso quel che è, ché la forza di Gomorra stava proprio nell’addentrarsi nelle pieghe oscure del reale), non può che vivere il reale “di riflesso” – e in questo reale è compreso egli stesso, che tende perciò ad assumere i contorni e gli attributi della sua Immagine, facendosene copia conforme. Detournando Debord (peraltro, anch’egli, tra i feticci culturali di Saviano), potremmo dire che stiamo assistendo al suo “divenire immagine”.

Dovremmo perciò lasciarci lo Spettacolo alle spalle, e tornare alla realtà. E la realtà pare essere quella di una piazza che non “si” tiene più. Di un’intera generazione che non si tiene più, che non ci sta a essere incasellata, gestita, indirizzata, disciplinata. La disciplina che gli hanno scritto sui corpi gli sta stretta: perché aprendo gli occhi al mondo si rende conto che è questo mondo ad andargli stretto. Si scuote, allora, quel che si deve scuotere, comprese la fantasmizzazioni rivoluzionarie che le generazioni precedenti vorrebbero proiettargli addosso con le usurate categorie del politico del Novecento. Quando qui siamo, davvero, “oltre il Novecento”. Nulla a che fare con gli anni Settanta, dove il movimento aveva una fortissima identità ideologica e una fortissima prospettiva politica. Qui c’è una moltitudine polimorfa, dove il discorso pubblico prende letteralmente corpo a partire da urgenze e istanze esistenziali e da considerazioni materialistiche (gli effetti selvaggi del precariato sui propri fratelli e sorelle, se non quando sui propri genitori), oltre che da un totalitarismo, quello sì, ideologico da cui chi è nato nell’era del berlusconismo e non conosce altra dimensione pubblica si trova soffocato. Siamo in presenza di una generazione che sta forgiando, finalmente, il suo linguaggio nuovo, le sue nuove categorie: etiche, esistenziali, politiche.
Ogni logica binaria, a questa moltitudine, sta stretta. Al di là dei buoni e dei cattivi, ricorda qualcosa? Si contemplano – ed è una contemplazione attiva – differenti modi d’essere e resistere e creare. E’ ciò che chiamo “incompossibilità dei mezzi” (ma certo, anche questo potrebbe essere l’abbaglio di uno che appartiene a un’altra generazione). Si possono e si devono praticare varie forme di lotta, ognuno a suo modo, ognuno secondo la propria posizione, secondo la propria etica (ché l’etica è un fatto di posizione, è una mappa geografica). E quelle forme naturalmente saranno anche incompatibili tra loro, ma non si disconoscono, non si rifiutano e si scomunicano vicendevolmente. In quanto si è consapevoli che si sta guardando nella stessa direzione, e l’importante è intensificare il flusso delle cose.
E allora anche la questione violenza/non violenza non può che essere una questione stantia. Tutta chiusa entro quella logica binaria di un altro tempo. Questi ragazzi capiscono bene che c’è una violenza di sistema che viene spacciata per “innocente”, quando invece è il culmine possibile della violenza. E’ l’ideologia della non-violenza planetaria, che occulta il massimo quoziente di violenza mai dispiegato nella storia mondiale. Per essere non-violenti davvero, allora, occorre riconoscere anche la verità di quella violenza che scaturisce ‘naturalmente’ (ovvero, necessariamente) dalla storia. Altrimenti, la non-violenza non è altro che la morale degli schiavi.
E’ per questo che di fronte allo spettacolo ideologico della violenza che, con un singolare rovesciamento di soggetto e predicato, si spaccia per non violenza (e che promette di mantenere il mondo “pacificato”), viene naturale rivendicare la violenza possibile e, nel medesimo movimento, il valore della non violenza: si tratta di togliere ai gesti il velo dell’ideologia, e rivendicarli come puri gesti. (La pura violenza di Benjamin che non è mezzo in vista di un fine, ma ‘medio puro’, violenza che puramente agisce e manifesta: violenza che non rifonda un potere, ma che ne esibisce la finzione). Del resto – e questo anche nel vecchio mondo – la non-violenza non è pacifismo, rimozione del conflitto: piuttosto, essa è gestione del conflitto, ciò che può implicare doverlo far emergere laddove esso venga occultato. E questo mi sembra il caso presente (eternamente presente). Il nazareno, com’è noto, un giorno s’incazzò ed entrò nel tempio a distruggere le proprietà private dei mercanti.
Tutto questo è, semplicemente, “naturale”. C’è solo da comprendere (Nec ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere…). Comprendere la rabbia che monta, segno innocente. Come i fiumi che esondano per la cementificazione, mi si consenta la metafora: in tal caso non si dice che la Terra sbaglia. C’è solo da capire dove abbiamo sbagliato “noi”.
[pubblicato sul manifesto il 21/12/2010]

23 COMMENTS

  1. a Marco,

    è una riflessione questa che condivido, e che tocca punti cruciali. Ce ne sono alcuni che varrebbe la pena di discutere ulteriormente, trattandoli come punti di partenza più che di arrivo. Provo a mostrare quali:

    “Nulla a che fare con gli anni Settanta, dove il movimento aveva una fortissima identità ideologica e una fortissima prospettiva politica. Qui c’è una moltitudine polimorfa, dove il discorso pubblico prende letteralmente corpo a partire da urgenze e istanze esistenziali e da considerazioni materialistiche (gli effetti selvaggi del precariato sui propri fratelli e sorelle, se non quando sui propri genitori), oltre che da un totalitarismo, quello sì, ideologico da cui chi è nato nell’era del berlusconismo e non conosce altra dimensione pubblica si trova soffocato. Siamo in presenza di una generazione che sta forgiando, finalmente, il suo linguaggio nuovo, le sue nuove categorie: etiche, esistenziali, politiche.”

    Ben detto. Ora, proprio perché vi è un processo aperto, di presa di coscienza, e di passaggio nella politica – ma in molti non dicevano che il politico era assente in Italia, in particolare nei giovani? – mi sembrerebbe importante che ognuno immettesse, come può, strumenti, prospettive e materiali, dentro questo processo portato avanti dai più giovani.

    L’ho ricordato a proposito del pezzo di Belpoliti. Bisognerebbe ribardirlo per una buona fetta degli editoriali dedicati agli scontri di Roma: tra il 77 e oggi, c’è stato il movimento altermondialista, che per altro non è mai davvero morto. E tutti i temi che affrontiamo oggi, erano già inscritti in quel movimento, seppure non tutti i nodi erano allora venuti al pettine. Oggi lo sono venuti quasi tutti.

    Perché sottolineo questa amnesia dello snodo altermondialista (1999-2001)? Perché quello è stato un movimento incompiuto nella sua capacità d’intervento politico, ma tutt’ora solido da un punto di vista delle analisi, dei saperi critici e delle proposte alternative. Insomma, lì c’è ancora un tesoro di strumenti e di esperienza, da sfruttare nell’oggi.

    Infine, una domanda che farei subito scivolare, a lettura conclusa della bella riflessione di Marco. “C’è qualcosa che ci può far sperare in quanto si è visto in questi mesi in Italia e poi a Roma?”
    Se certi segni possono ridare speranza a molti di noi, questo non credo che possa riguardare un discorso generazionale. Anzi, c’è il rischio che questo discorso sia di corto respiro, sopratutto se non è affiancato da ben altre prospettive. Tra i migliori esiti politici del 68, a livello mondiale, c’è stata l’alleanza studenti-operai, il saldarsi della contestazione universitaria con l’autunno caldo… Ogni sono le “saldature” molteplici che dovrebbero diventare al più presto tema stesso dell’azione politica: raccogliere coloro che più ferocemente subiscono la violenza del sistema.

    La capacità di autodifendersi dei ragazzi di Roma, così come dei migranti sulle gru e nei presidi a Brescia, così come degli operai in altre occasioni, fa ben sperare. Permette addirittura di sognare un’autodifesa spontanea che diventi, nel tempo, consapevole e organizzata azione collettiva di disubbidienza civile.

    Allo stesso modo, questa capacità di autodifendersi nata proprio tra gli studenti, fa sperare che essa sappia dotarsi non tanto di una nuova narrazione – che conta assai poco – ma di quegli strumenti di analisi dell’attuale europa finanziaria, economica e politica che, pur non essendo propriamente nuovi, sono però indispensabili, per dare maggiore articolazione politica alla protesta.

  2. Saviano, badate bene, non dice che la violenza è sbagliata (o non solo) – aspettate – ma dice che la violenza come risposta è proprio quella che il Governo auspica. E perchè auspica una tale risposta? Facile: perchè su quel piano è più forte del Movimento. Tu mi picchi dieci poliziotti? Bene, io domani te ne scaravento contro altri cento freschi freschi. Alla luce di ciò sono più comprensibili (?) anche certe dichiarazioni di Gasparri.

    Stando così le cose, costatando cioè che la violenza è più che altro inutile, è facile non afferrare e tacciare questo atteggiamento come facile pacifismo.

    Ultima cosa, io terrei distinte le due cose: Saviano su Israele – Saviano sul Movimento. Sono due cose diverse: se mi piacciono i fiori non è detto che io debba fare il fiorista.

  3. Mi sembra un bell’articolo questo di Marco, utile, anzi necessario.
    Io lo condivido quasi totalmente e Marco ha fornito spunti sociologici e filosofici per interpretare quanto è in atto in questi giorni che io non avrei saputo utilizzare.

    Sono d’accordo con tutte le critiche che Marco rivolge a Saviano, anche se io credo che del processo di iconizzazione Saviano stesso sia il principale artefice, con le sue scelte, che i media poi hanno amplificato inserendole in un meccanismo che ha prodotto un isolamento dalla realtà.

    Credo che Saviano abbia sbagliato nella lettera agli studenti i toni e i modi – come del resto fa sempre: lui emette giudizi, pontifica, più che indagare, discutere, come ho già scritto in un altro post – ma anche le parole (“strategia della tensione) e soprattutto l’interpretazione della violenza dei manifestanti.

    E in tutto questo concordo con Marco.

    L’unico vero disaccordo riguarda la frase:

    “Si possono e si devono praticare varie forme di lotta, ognuno a suo modo, ognuno secondo la propria posizione, secondo la propria etica (ché l’etica è un fatto di posizione, è una mappa geografica). E quelle forme naturalmente saranno anche incompatibili tra loro, ma non si disconoscono, non si rifiutano e si scomunicano vicendevolmente.”

    Io sul tema della violenza capisco e supporto la preoccupazione e il giudizio che hanno mosso Saviano a scrivere la lettera. E che ha appena evidenziato Gabriele nel commento sopra. Non credo che ogni forma di lotta vada praticata – “possa e debba” essere praticata, parafrasando Marco.

    Credo cioè che la violenza, per quanto comprensibile e forse in certa misura inevitabile, sia controproducente se ci si concentra sugli effetti repressivi e politici che può far scaturire. E in questo, quindi, capisco l’intento tutto in buona fede della lettera di Saviano. La rivolta violenta rischia eccome di disconoscere le istanze di chi lotta per gli stessi fini con altri mezzi, rischia di esserne il maggior nemico.
    E parlo in termini di risultati concreti, non etici.

    Ma non per questo credo si debba impostare il discorso su come evitare le violenze. Credo anzi occorra chiedersi, come ha fatto Marco, quali siano le ragioni profonde, dove abbia sbagliato la società e la politica; e soprattutto, se si cerca di discutere di politica, penso sia prioritario impostare il discorso su cosa chiedono gli studenti da due anni e su quali risposte istituzionali ci siano state.

  4. bellissimo articolo marco, necessario.
    un passaggio mi ha particolarmente colpito:
    “Nella camera iperbarica in cui è costretto a vivere, mi pare che Saviano abbia smarrito il senso della realtà, e rovesciato la prospettiva.”
    forse qui è cominciato il corto circuito, dove si è interrotto il contatto con la realtà è iniziata la beatificazione, che non è sostegno come molti ritengono, ma isolamento iconografico: una camera iperbarica, appunto.

  5. mentre credo che alcuni frammenti di analisi generale svolti da Marco siano condivisibili, insisterei a sottolineare le considerazioni molto pragmatiche offerte da Galbiati nella seconda parte del suo commento. Per rovesciare il discorso in critica positiva, ritengo particolarmente importane, vista anche la persona da cui proviene, l’intervista al prof. Salvatore Settis, fino a un mese fa rettore della Scuola Normale Superiore, che spero di riuscire a citare qui: http://www.youtube.com/watch?v=PgOOjWyp6so

  6. Sono d’accordo, Andrea, l’esperienza “altermondialista”, come dite voi in Francia, è un serbatoio potente. Del resto gli avvenimenti successivi ci hanno dato ragione, hanno mostrato che c’era un’analisi che aveva saputo individuare gli elementi centrali del sistema globalista. Io credo che i ragazzi del nuovo movimento sapranno fare questa mossa ulteriore di dotarsi di strumenti di critica globale, lo stanno già facendo. Però il discorso generazionale, oggi, assume una rilevanza immediatamente politica, credo: questa è la generazione precaria, che sconta nella sua realtà quotidiana gli effetti della controriforma neoliberista e del precariato globale. In questo senso, è quasi una classe universale, nel senso in cui Marx parlava del proletariato. Attorno ad essa, allora, tramite lo stabilimento di nessi e alleanze (che cercano: oggi sono andati alla Cgil a chiedere di proclamare lo sciopero generale), si può far avanzare questo movimento, eludendo il rischio di riflusso dell’Onda.
    Sulla violenza, so bene che è controproducente, nella situazione presente. Dico però che, se non va auspicata né proposta come strategia, questo movimento ha dimostrato di avere la maturità di sapere da solo “chi è”, e di non disconoscere quelle parti di sé che sono esplose in quella particolare contingenza.

  7. Sono molto d’accordo, Marco.
    Io, però, penso che il «Saviano icona spettacolare» sia nato assai prima della cosa di Fiamma Nirenstein e della «lettera ai ragazzi del movimento».
    Già in maggio – ma io penso che le cose siano cominciate prima – Saviano, a proposito della coiddetta «legge bavaglio», scriveva:

    «Quello che mi sento di dire è che governo, magistratura e stampa, in questa vicenda, dovrebbero trovare un terreno comune di discussione, perché di questo si tratta, di riappropriarsi di un codice deontologico che renda inutile il varo di leggi che limitino la libertà di stampa, di espressione e di ricerca delle informazioni. Non è limitando la libertà di stampa e minacciando l’arresto dei giornalisti che si arriva a creare una regola condivisa».

    Cioè: limitiamoci da soli.
    Dimostriamo a papà-governo che sappiamo fare i bravi.
    Cerchiamo regole condivise con chi ci vuole schiacciare, con chi non riconosce la funzione democratica del giornalismo, con chi non ha rispetto delle istituzioni e delle loro funzioni.
    Facciamogli capire che non ce l’abbiamo con lui!
    Rendiamo superflue le sue punizioni negoziando in prima persona la nostra resa e punendoci da soli.

  8. Primo volevo dire tutta la mia ammirazione per la giovinezza italiana.
    E’ una giovinezza che si alza sul mondo.

    Secondo la mia opinione Roberto Saviano non ha sbagliato. E’ uno scrittore che si dedica alla parola e al dibatitto; d’altronde ha risposto
    con intelligenza e rispetto, anche con simpatia alle lettere su La Repubblica.
    Non era nel fuoco dell’azione, era nel tempo della riflessione.
    La riflessione è nella margine dell’azione, ma le radici sono nella terra
    dell’impegno.
    I libri di Roberto Saviano, la sua presenza mediatica hanno iniziato un desiderio di cambiamento. E’ un esempio per il paese.

    Dire che Roberto Saviano è “in una camera iperbarica” è una verità dolorosa. Non immaginavo che fosse un argomento per nutrire una critica sull’opinione dello scrittore.

    Leggendo articoli sullo scrittore,( l’ultima intervista l’ho scoperto su Le Nouvel Observateur), ho sentito come Roberto Saviano è costretto a un mondo chiuso, stretto, senza possibilità di sentire la pelle della vita, di respirare, di incontrare amici, di sentire il vento, il sole, di vedere le città.

    Virginia Woolf ha scritto sull’importanza di possedere una camera sua.
    Roberto Saviano dovrebbe avere una stanza senza pareti, una stanza dove il sole canta, una stanza aperta sul paesaggio, una stanza nel mondo, un luogo di libertà, un luogo dove si viaggia, un luogo dove il mare viene a lui, un luogo di vita con tutti i profumi, una stanza per lui.

    Nonostante la sua vita blindata, ascolta per creare una musica sua, umana.
    La parola di Roberto Saviano nasce dietro un vetro ma si scrive con maggiore sensibilità.

  9. E’ caduto un altro eroe…innamorarsi è facile,convivere un po’ meno..

    Quanto alle analisi,alla narrazioni…(spesso anche troppo frettolose e italocentriche) hanno a che fare con un potere mondiale cento volte più forte di quello del ’68 o ’77,nonostante le crisi,e che ha sempre compendiato come costo collaterale i vari movimenti altermondialisti, che non ne scalfiscon nemmen la crosta.
    Potere mondiale in corso di ridefinizione con nuovi attori come Cina e India,ma sempre quello resta.
    Non è certo la fine della Storia,ma pare che stati o ordini antagonisti ,e che contano, ad un certo sistema,per ora scarseggino alquanto.
    Restano i popoli,ma se dovessimo prender esempio da come vengon trattati dall’Europa e dal resto del mondo,vedo poche speranze.
    Questo sistema liberista può certo essere oggetto di modifiche,ma che non intaccano mai il suo nucleo portante.
    Un suo eventuale crollo poi, porterebbe al caos mondiale,con esiti difficilmenti pevedibili.
    Intendiamoci,sono avverso ad ogni mondialismo che realizzerebbe i pieno la previsione orwelliana,ma non mi faccio nemmeno prender da facile entusiasmo o dalle illusioni di improbabili alleanze che possano abbattere questo ordine.
    Ci muoviamo sempre dentro lo stesso cerchio.

  10. dire che saviano ha smarrito il senso della realtà è una gran cavolata. lo dimostrano tutti i suoi lucidissimi interventi a “vieni via con me”.
    è sulla questione israeliana che dovrebbe chiarire la sua posizione.

    sottoscrivo comunque quanto detto da veronique. mi sembra che tutti stiano aspettando una mossa sbagliata di saviano.

  11. Solo una cosa, Antonello: lei ha scritto “mi sembra che tutti stiano aspettando una mossa sbagliata di saviano”. Io non sono tr questi, le assicuro. Mi sono speso egli ultimi anni “con” Saviano, qui e altrove. Lei non è certo tenuto a sapere che cosa ho scritto fino ad ora. Ma il movente psicologico che lei individua non si attaglia al caso presente. Basta appunto andare a cercare, anche solo questo sito, ciò che ho scritto fino ad oggi.

  12. Marco, so che Saviano ha cominciato da Nazione Indiana, per questo mi ha un po’ meravigliato sentire accuse simili proprio qui. Al di là di questo, io credo che Saviano non abbia sbagliato nel denunciare, senza se e senza ma (oddio, che brutto modo di dire) la violenza di piazza. Oggi i ragazzi sono sulle prime pagine di tutti i quotidiani, da protagonisti positivi. Da vincitori. Con questo non voglio dire che il movimento ha seguito il consiglio di Saviano. Però non si può neanche dire che Saviano abbia sbagliato mira.

  13. Antonello, Roberto è un redattore di Nazione Indiana. E’ un amico fraterno. E’ un intellettuale che dice cose che ascoltiamo sempre con la massima attenzione. Questo è davvero l’ultimo posto dove si possa dire che si aspetta una sua mossa sbagliata. Essergli amici, e per davvero, può significare in certi casi, come ha fatto Marco, prendere posizioni divergenti. L’ultima cosa di cui ha bisogno Roberto (dato che lo stuolo di rancorosi invidiosi ce l’ha già) è uno stuolo di adoratori acritici fra chi gli sta vicino.

  14. Infatti Gianni, non dubito della sincerità della polemica. Credo che ogni intervento di Saviano, anche quello sulla ricetta della pizza margherita, sia destinato ormai a creare queste divisioni.

  15. Che avesse sbagliato mira gliel’ha detto il movimento stesso. La divisione tra i buoni e i cattivi è stata rifiutata in tutte le assemblee. Se vai a vedere i commenti alla lettera di Repubblica, la forma tipica era: “Roberto ti stimo mai stavolta hai sbagliato”. Ed erano sempre studenti. Il movimento rifiuta ogni logica binaria, lo ribadisco. E’ successo quel che è successo, e non si sono dissociati, non hanno cercato il capro tra di loro. La piazza, quel giorno, era lì che sosteneva gli scontri, quando la fiducia era stata approvata. Ma appunto era un’esplosione, nulla che faccia parte di un progetto, di una pratica identitaria, tantomeno di una cornice ideologica. E per questo – non certo perché abbia ascoltato un sermone che ha invece rifiutato nella sua essenza dicotomica e binaria – il movimento ha avuto la capacità e l’intelligenza di lasciare il Palazzo “nella solitudine della sua miseria”, e così conquistare il centro della scena ancora, ma stavolta con la sottrazione.

  16. Sì sì, ho letto i commenti, ho visto l’esplosione improvvisa della piazza. Ho notato però anche molti caschi difensivi in più il 14 rispetto a ieri. Insomma c’era voglia di scontrarsi. e non era neanche una voglia condannabile, a quelo punto. Ma io credo che il movimento stesso, il giorno dopo, abbia capito l’errore. E parlo del movimento a roma. Perché a Palermo erano ancora coi caschi e gli scudi da book blok a ingaggiare scontri con la polizia. E il contrasto tra Roma e Palermo era impressionante.
    Palermo, nella forma di lotta scelta, sembrava indietro di decenni.

  17. da cdc (come don chisciotte) intervento estremamente interessante in risposta al pezzo di gianluca freda “come costruire una rivoluzione che non cada a pezzi in due giorni”

    «La rivoluzione non è piu’ quella che si fa scendendo in piazza a manifestare e scontrandosi, o meno, con la polizia. La rivoluzione è la comprensione da parte di ogni singolo individuo che tutto il sistema è sbagliato». Buonissimo punto di partenza, Caterina. Ma da questo punto non possiamo ancora sapere nulla circa le ragioni (gli argomenti, i pensieri, le idee) che nella testa degli individui devono essersi formate prima di arrivare alla sintesi “tutto il sistema è sbagliato”. Ed è proprio di queste ragioni che dobbiamo sapere il più possibile se vogliamo comprendere che genere di rivoluzione potremmo andare a costruire mettendoci insieme a questi individui. Sia che si tratti della “soldataglia” di cui scrive Freda, sia che si tratti di una qualche supposta “élite” di rivoluzionari novelli, sia che ci si trovi di fronte ad una forma di aggregazione fra persone mai sperimentata prima. A mio avviso, nel secolo appena cominciato possono esistere, a questo riguardo, essenzialmente due figure di rivoluzionari: a) quelli, e sono la stragrande maggioranza, che ritengono il sistema sbagliato perché produtore di tutte le miserie e le nefandezze che connotano la catastrofe in corso: situazioni derivate, in estrema sintesi, da rapporti di forza che ci costringono a subire le condotte antisociali e criminose di alcune élite sovranazionali detentrici del potere a livello finanziario, economico e politico. Il rimedio rivoluzionario, per questo primo tipo di figure, consiste nella sostituzione (più o meno “violenta”, più o meno “domocratica”, un po’ più “dall’alto” o “dal basso”) di queste élite con un nuova leva di élite (meglio illuminate, meglio organizzate) aventi un orientamento più favorevole alle moltitudini planetarie, che blocchi il saccheggio a tempo indeterminato chiamato da ultimo “crisi” attuando una serie di misure redistributive e un utilizzo meno distruttivo delle risorse del pianeta; b) quelli, in netta minoranza per il momento, che pensano altrimenti la catastrofe in corso, al punto da imputarla non semplicemente alle condotte delle élite sovranazionali al potere, quanto alla logica stessa di funzionamento di un “sistema” che tende ormai a riprodursi “in automatico” avendo formato e legato a sé le menti degli attori sociali (tanto quelle dellé elite dominanti di cui si serve quali “esecutori” e “sicari” di una sua logica senza umane misure “a monte” e “già data”, quanto quelle delle moltitudini dominate tenute aggrappate al suo carro da illusioni di realtà quali il Progresso, lo Sviluppo, la Scienza, il Consumo, il Desiderio, la Vita-dopo-questo-schifo, ecc.). Il rimedio rivoluzionario, per questo diverso tipo di figure, non può risiedere nella sostituzione delle attuali élite al potere con nuovi e più illuminati “leaders mondiali”, bensì nell’inceppamento e nella rovina del meccanismo automatico mediante la differente formazione e il distacco delle menti dei dominati dalla sua logica di funzionamento: processi da innescare a partire: a) dall’immaginazione (quindi anche dalla dimensione dell’utopia) di una differente forma di società, di un diverso rapporto con le specie viventi e col pianeta; b) da un insieme di comportamenti conseguenti, da attuare per quanto si può da subito, che stiano fuori dal meccanismo (scambi senza denaro, risorse vitali preservate e usate da tutti, più tempo diversamente vissuto per stare insieme, ecc.). Personalmente, ritengo che solo questa seconda figura di rivoluzionario abbia oggi una qualche possibilità di proporre ed agire in modo non fittizio il cambiamento. Le figure del primo tipo, consapevolmente o meno, incarnano l’impostura. Su questo punto molti che frequentano questo ed altri siti la penseranno diversamente da me. In ogni caso, dovrebbe apparire chiaro almeno questo: la vera linea di demarcazione tra quanti pensano che “tutto il sistema è sbagliato” passa di qua. Qua c’entrano pochissimo le varie “personalità” in gioco, le “matrici” e le “incrostazioni” ereditate dalla storia passata dell’antagonismo sociale degli ultimi due secoli (tipo la cosiddetta “dialettica destra-sinistra”). Oggi, tutta la differenza nelle “azioni concrete” possibili (strategie e tattiche) delle persone implicate (facenti o meno parte di élite nel senso specificato da Freda) non può che derivare dal primitivo convincimento di ognuno/a riguardo alla natura del “sistema” sbagliato, dal suo essere figura di rivoluzionario del primo o del secondo tipo. Tutto il resto, per quanto vitale e importante possa sembrare, davanti a questo punto affatto dirimente, assume il rilievo che può avere la cura dei sintomi della malattia rispetto alla scoperta delle sue cause. In altre parole, senza considerare il responso di questa primaria cartina di tornasole per i rivoluzionari del ventunesimo secolo, tutto il resto è come la carta da parati (wallpaper) che, come disse con inarrivabile humour Oscar Wilde nel suo letto di morte, ci sta uccidendo tutti quanti… Vediamo allora come si colora questa cartina di tornasole quando viene immersa nella soluzione chiamata Gianluca Freda. Intanto, egli sembra voler rimuovere troppo disinvoltamente la dimensione dell’immaginazione collettiva di una diversa società dal novero delle “azioni” rivoluzionarie indispensabili per il salto al di fuori dell’esistente. Non a caso la rinomina e la ricomprende sotto categorie più docili e sfumate: “sogni e utopie”, “progettazione di un cambiamento sociale” e “pianificazione intellettuale”. Leggiamo: «Il lettore ritiene che sogni e utopie siano il motore di ogni cambiamento. Può darsi che questo sia vero per la vita individuale. Ma quando parliamo della progettazione di un cambiamento sociale, sarebbe bene che ci abituassimo a lasciare i sogni nella dimensione che ad essi appartiene di diritto: quella del dormiveglia e delle fantasie notturne». E ancora: «Date retta a un fesso: le rivoluzioni, quelle vere, sono roba per persone ben sveglie e con i piedi per terra. Soprattutto, sono roba da élite. Dove, col termine “élite”, non si intende indicare una realtà connotata sul piano della gerarchia economica o sociale, bensì su quello del pragmatismo politico e della pianificazione intellettuale». Dunque, secondo Freda il soggetto protagonista del cambiamento rivoluzionario è senz’altro l’élite come lui la intende, ovvero l’élite depositaria unica della consapevolezza di cui è priva per definizione la “carne da cannone”. Tuttavia, il dispositivo tramite cui la cosa ci viene spiegata appare disarmante nella sua piatta semplicità: l’autore non ci dice mai ciò che a me sembra invece cruciale, ossia se nella consapevolezza dell’élite debba rientrare oppure no un’interpretazione del fondamento della società da rivoluzionare in termini diversi rispetto alla chiave di lettura dei meri rapporti di forza che essa stessa “agisce”: «L’élite pianifica, organizza, gestisce, manovra la percezione del mondo e la stessa violenza di piazza secondo modalità che sono funzionali ai suoi obiettivi; la carne da cannone è del tutto priva di capacità di decodifica dell’esistente e di schemi progettuali». La cosa resta inspiegata e avvolta nel silenzio anche più oltre, quando l’autore, con l’occhio alla situazione italiana, lamenta come le finalità perseguite dalle attuali élite di potere che hanno manipolato la “soldataglia” lo scorso 14 dicembre a Roma siano «antitetiche a ciò che ritengo essere l’interesse attuale del nostro paese, inteso nel suo insieme complessivo di pastori e di mandrie, di colonnelli e subordinati». Anche da tutto il seguito dell’articolo non arrivano lumi circa il tipo di consapevolezza del fondamento della società di cui l’élite rivoluzionaria, per definizione dell’autore “consapevole”, si farebbe portatrice. A questo punto la nebbia si fa pesante e densa, e tutto il resto dell’argomentazione, per quanto conseguente con l’assunto di partenza dell’articolo, rischia di assomigliare ad una danza di ombre agite da un equivoco di fondo: l’élite rivoluzionaria auspicata da Freda viene definita in modo spregiudicato unicamente in base a caratteristiche estrinseche funzionali alla sua sopravvivenza e al suo successo nella “guerra” col nemico (le élite attualmente dominanti), a prescindere dal tipo di pensiero in base al quale riesce o meno a raggiungere i propri scopi. Insomma: per Freda all’élite rivoluzionaria pertengono le doti della comunicazione efficace, della diplomazia, della furbizia e dell’inganno (perché, come prescrisse Sun-Tzu, «tutta la guerra è basata sull’inganno»). Non pare essere prerogativa o compito dell’élite né la comprensione dei fondamenti del vivere sociale al di fuori dei rapporti di dominio né l’immaginazione di un fondamento della società distinto da quello della società esistente che s’intende “rivoluzionare”. Insomma, l’élite rivoluzionaria pensata dall’autore fonda se stessa e la società futura a partire da se stessa. Il che, ovviamente, puzza di marcio appena lo si pensa. È, ancora una volta, un’élite autoreferente, come tutte le élite costituite da quel particolare materiale umano che è il ceto politico e sindacale d’ogni dove. Quindi, l’élite rivoluzionaria auspicata da Freda, del resto non diversamente da quella vagheggiata da Barnard, Chiesa, Massimo Fini e Pallante, non è in grado di spiegare altrimenti se stessa né possiede un’interpretazione di società in termini differenti da se stessa e dai rapporti di forza nei quali soltanto sembra vivere. Se così stanno le cose, i suoi esponenti non potranno che essere figure di rivoluzionari del primo tipo. E anche Gianluca Freda pare esserlo, per quanto rispetto ad altri possa tirare fuori una maggiore dose di lucidità e di coerenza logica nell’analisi dei processi che stanno “a valle” delle sue assunzioni di partenza. Ciò non rende meno surreale e “di plastica”, per così dire, tutta la parte finale del suo articolo, che vale la pena riportare integralmente: «Occorre dunque decidere – e decidere adesso – se desideriamo rivestire il ruolo di soldati che subiscono la rivoluzione prossima ventura o di progettisti che la pianificano e la manovrano. Rivolgo pertanto un appello a tutte le menti razionali che, ritrovatesi martedì scorso nel bel mezzo di una guerra alla cui progettazione non avevano in alcun modo contribuito, abbiano sentito “a pelle” di trovarsi nel livello sbagliato della gerarchia. Invito tutti costoro a lasciar perdere le molotov, le risse coi celerini e gli scudi di cartone e a venire dietro le tastiere, dove c’è urgente bisogno di loro. Di truppaglia mercenaria da gettare allo sbaraglio contro il nemico ne abbiamo anche troppa. Ci servono generali, strateghi, programmatori, psicologi delle masse, scrittori, articolisti, ministri della (nostra) propaganda. E’ con questi strumenti e solo con questi che si organizzano e soprattutto – come avrebbe detto con saggezza il vecchio Sun Tzu – si può provare a vincere le guerre e le rivoluzioni». Domanda: cosa mai potrebbero pensare i “soldati” di coloro che decidono di stare dalla parte dei “progettisti” che “pianificano” e “manovrano” se sapessero la piccola verità che questi ultimi hanno in testa soltanto l’idea della rivoluzione come rovesciamento dei rapporti di forza e sostituzione delle élite esistenti con l’élite nuova di cui fanno parte essi stessi, mentre la logica di funzionamento della società rimane la medesima che ha prodotto la catastrofe in corso per i “soldati” e per le loro famiglie in ogni parte del pianeta? Tellavelde

  18. Gianni, non sono una adoratrice. Solo ho pensato che la violenza puo mettere nell’ombra i problemi del paese. I giornalisti stranieri hanno parlato degli scontri violenti e hanno messo al secondo piano le ragioni della rivolta.
    Vorrei aggiungere che la situazione di Roberto Saviano mi ha sempre fa dolore al cuore, sentimento di ingustizia condiviso da molti: vedere un ragazzo coraggioso privato di una vita piena. L’ho ammiro perché questa situazione la supera con grande dignità, con impegno.
    la sua sensibilità è divenuta più grande ancora. Questo scrittore coraggioso non deve avere adorati, ma calore umana intorno a lui.
    Marco Rovelli ha detto la sua opinione con sincerità e penso che accoglie un commento come il mio; è un punto di vista diverso; ma il dibattito si nutre di opinioni diversi. E l’accenno alla camera iperbarica che mi ha fatto scrivere. Ho sentito un sentimento di ingustizia, perché Roberto Saviano vorebbe sentire la realtà con i suoi occhi, le sue mani, il suo corpo, e credo che la sente per fortuna, ma atttraverso vetri.
    Le trasmissioni sulla RAI hanno testimoniato della sua sensibilità: ascolta il mondo, vuole con la sua parola vivere nel mondo.
    Per me la sua parola è preziosa. Spero per lui una più grande libertà e la possibiltà di creare la sua vita come lui desidera.

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marco rovelli
marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.