Ricordando Dovlatov

di Lorenzo Pompeo

Il 24 agosto 1990, all’età di quarantanove anni, moriva a New York Sergej Dovlatov. L’anno successivo alla sua scomparsa si dissolse l’Unione Sovietica. Quello stesso anno, il 1991, la Sellerio pubblicò Straniera. Mentre la parabola esistenziale dell’autore era stata legata a quel particolarissimo contesto storico, politico e culturale che fu l’Unione Sovietica (la sua formazione, il suo linguaggio, la sua mentalità, tutto era legato, in un modo o in un altro, a quel paese), il suo successo internazionale, almeno in Italia, fu proclamato dopo la dissoluzione di quella singolare entità geopolitica. Oggi, che anche il ricordo di quel periodo della storia russa si sta appannando, l’opera di Dovlatov, a un ventennio dalla scomparsa, appare, a maggior ragione, una testimonianza unica, nel suo genere, della Russia sovietica post-staliniana (anche quando l’ambientazione della sua prosa è statunitense, le origini sovietiche appaiono come un marchio indelebile).
Sergej Donatovič Dovlatov nacque a Ufa (città sugli Urali dove i genitori erano sfollati) il 3 settembre del 1941, a pochi mesi dall’aggressione nazista all’Unione Sovietica del 21 giugno dello stesso anno. Quando, nel 1944, la famiglia dello scrittore tornò a Leningrado, i suoi genitori si separarono. Il piccolo Sergej visse con la madre in una Komunalka: «Vivevamo in un disgustoso appartamento in coabitazione. Il lungo e fosco corridoio si risolveva metafisicamente nel gabinetto. Accanto al telefono, la carta da parati era tutta scarabocchiata: era la cronaca deprimente dell’inconscio coabitativo. (…) Probabilmente il nostro non era un appartamento tipico. Era abitato per lo più da persone istruite. Non c’erano risse. Non si sputavano a vicenda nella minestra (anche se proprio non ci giurerei). Ciò non significa che regnasse perennemente la pace e la prosperità. La guerra segreta non cessava mai. La pentola ricolma dell’irritazione reciproca cuoceva a fuoco lento e ribolliva lentamente…» – scrive Dovlatov in Noialtri.
La sua infanzia fu profondamente segnata dalla figura di Stalin. Il nonno dello scrittore venne arrestato senza motivo e fucilato. Nel dopoguerra, quando il cosiddetto culto della personalità toccò l’apice, il nazionalismo russo-sovietico assunse una coloritura antisemita. Ne fece le spese il padre dello scrittore (di origini ebraiche), che venne allontanato, senza nessun apparente motivo, dal teatro dove lavorava. A questo proposito lo scrittore dichiara in Noialtri: «In generale, che Stalin fosse un assassino, i miei genitori lo sapevano bene. E anche i loro amici. In casa non si parlava d’altro (…) A sei anni sapevo che Stalin aveva ucciso il nonno. E quando ormai stavo finendo la scuola sapevo decisamente tutto».
Nel 1959 Dovlatov concluse gli studi scolastici e s’iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Università di Leningrado. Nel 1956 era cominciata la stagione del disgelo. Non senza una nota d’ironia, lo scrittore, in Noialtri, attribuisce al personaggio del padre la delusione di fronte a quella normalizzazione che seguì la denuncia dei crimini di Stalin: «La gente, a quanto pareva, non la fucilavano più. E neppure la mettevano dentro. O meglio, la mettevano dentro, ma di rado. E per di più per dei fatti più o meno reali. O, come minimo, per aver espresso pubblicamente cose avventate. Cioè, per qualcosa. Non come prima…».
Agli anni degli studi universitari risalgono i primi tentativi letterari. Lo stesso Dovlatov ne Il libro invisibile dichiara apertamente quelle che allora erano le sue passioni letterarie: Hemingway (la traduzione russa dei racconti, nel 1959, fu un evento), Bell e i classici russi. In seguito, il suo idolo sarebbe diventato Brodskij. Agli anni di università risale un primo matrimonio, a cui Dovlatov accenna molto brevemente ne Il libro invisibile («Esami ritentati all’infinito… un amore infelice sfociato nel matrimonio»), con Asja Pekurovskaja, dalla quale divorziò nell’estate del 1962 (poco prima di partire per il servizio militare). Senza aver terminato gli studi (per via di un esame di tedesco), fu richiamato alla leva, che svolse come guardia carceraria in un campo in Siberia, esperienza che lo segnò profondamente. In quel periodo cominciò a dedicarsi alla letteratura in modo più serio e costante.
Nel 1963 lo scrittore venne trasferito in un campo non lontano da Leningrado, dove prestò gli ultimi due anni di servizio militare. In quello stesso anno sposò Elena Davidovna Ritman, con la quale ebbe due figli: Katia, nata in Unione Sovietica nel 1966 e Kolja, nato negli Stati Uniti nel 1981 (Dovlatov descrive diverse volte nella sua opera l’incontro con la seconda moglie).
Nel 1965 tornò definitivamente a Leningrado. Chruščev era già stato deposto da un anno. Cominciò a lavorare per alcuni giornali. Tra il 1965 e il 1969 collaborò con quello dell’Istituto di Tecnologia Marittima, inizialmente come responsabile della sezione letteraria e dal 1967 come redattore. Tutti i tentativi di pubblicare i suoi racconti su rivista fallirono. Tuttavia, Dovlatov è già un personaggio noto tra gli scrittori di Leningrado.
Frequenta il leggendario caffè Saigon, sul Nevskyj Prospekt, ritrovo dell’intellighenzia, dove i suoi racconti circolano sotto forma di samizdat. Ne Il giornale invisibile scrive: «Con una certa frequenza il mio lavoro veniva lodato da persone ragguardevoli. I racconti piacevano a Gor, alla Panova, a Bakinskij, a Metter. Da loro ricevevo messaggi cordiali». L’invasione della Cecoslovacchia dell’agosto ’68 fu il segnale che il clima era cambiato in modo irreversibile e che la tolleranza verso ogni forma di critica al regime era finita.
Gli anni che precedettero la sofferta decisione di lasciare l’Unione Sovietica furono particolarmente difficili. Nel 1969 provò a entrare di nuovo all’università per studiare giornalismo, ma non ci riuscì. Nel 1971 si separò dalla moglie Elena e, l’anno successivo, per un breve periodo si trasferì a Tallin, in Estonia. «Perché sono andato proprio a Tallin? Perché non a Mosca? Perché non a Kiev, dove ho amici influenti?.. Motivi ragionevoli non ne avevo. Mi avevano offerto un passaggio. Ero in un vicolo cieco. Debiti, problemi familiari, un senso di disperazione. Partimmo verso l’una. In tasca avevo ventisei rubli, il tesserino da giornalista, una penna biro. Nella cartella un cambio di biancheria. (…) Arrivammo di sera, poi un colpo di fortuna: avevo dove passare la notte. Al mattino ero già nell’ufficio del vicedirettore del giornale “Gioventù estone”» – scrive Dovlatov ne Il libro invisibile.
All’inizio del 1975 tornò a Leningrado, dopo che una sua raccolta di racconti era stata bloccata dalla censura quando erano già pronte le seconde bozze. Ormai lo scrittore rientrava in quella categoria di personalità intellettuali di cui il regime voleva discretamente sbarazzarsi. Gli ulteriori tentativi di pubblicare, nuovamente frustrati, gli procurararono solo amarezze.
Tra il 1976 e il 1977, dal momento che il clima a Leningrado si stava facendo sempre più cupo, Dovlatov decise di andare a lavorare come guida turistica presso le Puškinskye Gory (le “montagne puškiniane”, così ribattezzate poiché qui, presso Pskov, vi si trovava la proprietà appartenuta un tempo al poeta russo). Nel 1977 la moglie decise di emigrare insieme alla figlia (particolarmente commovente è il racconto dell’addio ne Il parco di Puškin). L’anno successivo lo scrittore subì un interrogatorio e un arresto di dieci giorni. Gli agenti del KGB lo convinsero a emigrare. Così, nel 1978, Dovlatov si decise a partire e, dopo una prima tappa di sei mesi a Vienna, giunse nel 1979 negli Stati Uniti, dove poté riunirsi con la moglie e la figlia.
«Ci siamo stabiliti in una colonia russa di New York, in uno dei sei casermoni occupati quasi esclusivamente da fuoriusciti sovietici» – scrisse ne Il libro invisibile. Il primo problema che lo scrittore dovette affrontare era la lingua. Stando a quanto ha affermato, l’inglese non lo imparò mai bene, continuando sempre a scrivere in russo. Alla sua scarsa padronanza dell’inglese erano legate anche le difficoltà di trovare un lavoro.
Lo scrittore, insieme ad altri tre ex-giornalisti sovietici che abitavano nel suo stesso palazzo, fondò una rivista. Nacque così, nel 1980, il “Novy amerikanec” a cui Dovlatov collaborò con grande entusiasmo per quasi due anni. Allorché la rivista prese delle posizioni che non condivideva, se ne andò. Tuttavia, a partire dal 1980, alcuni suoi racconti cominciarono regolarmente a essere pubblicati sul “New Yorker”. Da allora le pubblicazioni in russo e le traduzioni in inglese si susseguirono a breve distanza. Dal punto di vista creativo, questi furono gli anni più fecondi e intensi della sua vita.
Con l’epoca della perestrojka, si riaprirono le porte della Russia. Allora si era già trasferita negli Stati Uniti l’intera famiglia, compreso il padre e la madre. Il figlio, Kolja, era nato a New York. La prospettiva di un ritorno non era più realistica. Tuttavia, grazie all’interessamento del suo amico Andrej Ar’ev, riuscì a pubblicare in patria un romanzo. La rivista di Leningrado “Zvezda” fece uscire nel 1989 Filial, un breve romanzo ambientato nell’emigrazione russa. Malgrado Dovlatov non lo considerasse il suo miglior lavoro, accettò la proposta di pubblicarlo.
Se a questo punto le sue condizioni materiali migliorarono, la sua salute peggiorò. Morì a soli 49 anni per insufficienza cardiaca nell’agosto del 1990, un anno prima della fine dell’Unione Sovietica.
La lunga lotta con la censura prima e l’esperienza poi dell’emigrazione diedero all’autore la possibilità di osservare il paese natale con un altro sguardo. Questa distanza fu un elemento fondamentale anche per l’elaborazione del suo stile. Dovlatov stesso scrisse ne La valigia: «Come la maggior parte dei giornalisti, sognavo di scrivere un romanzo. E, a differenza della maggior parte dei giornalisti, mi dedicavo davvero alla letteratura. Ma i miei manoscritti venivano respinti dalle riviste più progressiste. Adesso posso solo compiacermene. Grazie alla censura, il mio apprendistato si è protratto per diciassette anni. I racconti che avrei voluto pubblicare in quegli anni mi paiono oggi del tutto fiacchi».
Senza dubbio Dovlatov fu il campione di una generazione senza eroi, che non aveva vissuto direttamente l’epopea della Grande Guerra Patriottica, che aveva una vaga memoria, confinata tra i ricordi d’infanzia, dell’epoca staliniana, che non aveva fatto in tempo a godere dei tiepidi venti del disgelo, ma che aveva vissuto sulla propria pelle l’infinito crepuscolo sovietico (all’epoca nessuno avrebbe osato immaginare una fine così prossima e repentina del regime).
Quando, nel 1978, lo scrittore abbandonò per sempre l’Unione Sovietica, aveva già visto e vissuto tutto di quel paese: dal disgelo alla “stagnazione”; aveva sperimentato l’apparato repressivo da entrambi i lati (l’esperienza di guardia carceraria nel gulag e nel 1978 la breve detenzione nel carcere di Leningrado). Il bagaglio di esperienze era già colmo (non a caso questo fu il tema e il titolo del suo lavoro La valigia). Tutta la miseria, la tragedia e la grandezza, la paradossale assurdità e la follia di un’epoca e di un paese erano stipate in quella valigia. Bastava soltanto aprirla, dipanare le storie e dare voce ai personaggi.
Nelle sue interviste Dovlatov si è spesso definito un “rasskazčik”, una parola che non ha un preciso equivalente italiano: “narratore orale”, anche se la traduzione più esatta sarebbe “raccontatore”. Fra le caratteristiche della sua prosa, la presenza della componente autobiografica è quella più rilevante. Anche quando compare un suo alter ego, quel Boris Alichanov protagonista de Il parco di Puškin e di Regime speciale, il lettore capisce immediatamente che il personaggio in questione è Dovlatov stesso. Ciò accade perché il narratore, il protagonista e l’autore sono perfettamente fusi in un’unica categoria, il cosiddetto autore implicito, che si impone nella mente del lettore, indipendentemente dall’uso della prima o della terza persona o dai nomi con cui viene indicato. È come se il lettore, su una qualsiasi pagina dell’opera, potesse “vedere” l’autore nel momento stesso in cui gli racconta un fatto.
Altra caratteristica della prosa di Dovlatov è la forma della sua narrazione. Dovlatov è uno scrittore che predilige decisamente la misura breve. In uno dei suoi aforismi più celebri, pubblicato sui taccuini, scriveva: «Il narratore orale agisce a livello della voce e dell’udito. Il prosatore a livello del cuore, della mente e dell’anima. Lo scrittore a livello cosmico. Il narratore orale parla di come vive la gente. Il prosatore di come dovrebbe vivere, lo scrittore del motivo per il quale vive».
La misura breve della narrazione in Dovlatov è legata al racconto orale. Anche in Straniera, il romanzo meno autobiografico, e già per questo diverso da quasi tutte le altre sue opere, prevale. I capitoli, tutti con un titolo, possono essere considerati dei racconti tenuti insieme dalla storia della protagonista, che ha un andamento cronologico regolare. La valigia è una raccolta di racconti posti all’interno di una cornice narrativa, mentre Noialtri è una serie di ritratti dei parenti della famiglia della voce narrante. Regime speciale, il romanzo dedicato all’esperienza di guardiano del gulag, non è che un insieme di piccoli episodi che hanno come sfondo la vita del campo. Inoltre, l’autore interrompe continuamente la linea narrativa inserendo brani di una corrispondenza (non sappiamo se vera o fittizia) con l’editore. Ne Il libro invisibile la linea narrativa viene continuamente interrotta da aneddoti e da aforismi introdotti dal titolo Solo na underwood, che rappresentano la quintessenza dello stile dovlatoviano.
Quanto all’umorismo (forse la caratteristica più apprezzata della sua opera), dal momento che il peso specifico dell’elemento autobiografico è così rilevante, sarebbe più corretto parlare di autoironia, legata evidentemente alle circostanze della sua biografia intellettuale: la sua affermazione nel mondo delle lettere fu di qualche anno successiva alla scelta di abbandonare l’Unione Sovietica, paese in cui la distanza tra l’utopia e la storia era talmente grande da permettere una rappresentazione della realtà in chiave paradossale.
La lontananza dalla madre patria, invece, gli offrì la possibilità di rielaborare i suoi ricordi, cogliendone ancora meglio l’aspetto comico, ma senza quell’astio e quel rancore che l’apparato oppressivo sovietico avrebbe probabilmente generato in lui se fosse rimasto in Russia (Dovlatov non fu e non volle mai essere considerato un dissidente). La censura paradossalmente gli rese un servizio, come dichiarò lui stesso, poiché gli offrì l’occasione di guardare l’Unione Sovietica dalla giusta distanza, confrontandosi, nel frattempo, con una realtà radicalmente diversa. Lo statuto di scrittore sradicato, mai perfettamente integrato nella nuova realtà nordamericana, estraneo al nuovo contesto, fu il serbatoio dove attinse il suo senso dell’umorismo.
La sua condizione fu quella di un outsider, dimensione esistenziale nella quale lo scrittore russo, per scelta o per necessità, si trovò durante tutta la vita. Dietro al sottile velo comico e autoironico, si scorge la dimensione tragica. Per ammissione dello stesso Dolvatov, il servizio militare come guardia del campo segnò un primo traumatico passaggio nella sua biografia intellettuale. Così egli descrive, ne Il libro invisibile il suo ritorno da quell’esperienza: «Ho incontrato i miei vecchi amici. I rapporti con loro si erano fatti difficili. C’era una sorta di barriera psicologica. I miei amici stavano laureandosi, studiavano seriamente la letteratura. Còlti dal vento tiepido dei primi anni Sessanta, erano intellettualmente fioriti. Mentre io ero rimasto irrimediabilmente indietro. Sembravo uno che, tornato dal fronte, avesse scoperto che i suoi amici se la passavano alla grande. Le mie medaglie tintinnavano come i sonagli di un giullare».
Dovlatov supera la nozione tradizionale di realismo, imprimendo alla sua narrazione una personalissima impronta, a partire dalla frase, nervosa, essenziale. Josif Brodskij, in un articolo in cui a due anni dalla scomparsa ricordava l’amico, racconta di quando Dovlatov gli sottopose i suoi racconti. Non gli piacquero. Dovlatov, tuttavia, continuò a sottoporgli i suoi scritti e ciò, afferma Brodskij, fu il segno che il narratore (o meglio, il “raccontatore”) sentiva di doversi misurare con la poesia: «E’ certa una cosa: lo spingeva l’impressione, del tutto inconsapevole, che la prosa deve misurarsi col verso. Adesso guardandosi indietro è chiaro che lui sulla carta tendeva alla laconicità propria del linguaggio poetico: alla massima capienza della locuzione». E ciò, come nota ancora Brodskij, avviene a spese dello stile.
Il piano cronologico della narrazione appare spesso frammentato e il lettore ha come l’impressione che l’umorismo abbia soppiantato la narrazione. Il testo, divorato da un sarcasmo sempre più corrosivo, si fa sempre più laconico, lapidario. Non solo l’autore salta da un piano cronologico a un altro, ma omette spesso alcuni passaggi logici, giocando con i sottintesi.
Ultimo degli scrittori dell’epoca russo-sovietica, Dovlatov fu un grande solista, ma anche un uomo tragicamente solo. Il suo virtuosismo fu e sarà inarrivabile per i suoi contemporanei come per i suoi successori. Il segreto del suo raccontare, paragonabile per alcuni aspetti al fraseggio del grande Miles Davis (ugualmente laconico, lapidario e nervoso) è scomparso con lui venti anni fa, insieme al paese dove era nato e cresciuto, l’Unione Sovietica.

5 COMMENTS

  1. grazie di cuore a max rizzante, per aver ricordato a tutti noi l’importanza di un autore così vitale e valido.

  2. Il grazie lo dobbiamo all’autore dell’articolo Lorenzo Pompeo.
    Da parte mia solo il ricordo di chi Dovlatov me lo fece conoscere davvero: Mauro Martini, studioso e amico scomparso ormai cinque anni fa, ma che non smette di mancarmi.

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