Su Sangue di cane (ancora)
di Marco Rovelli
Quando si assiste all’esordio di una casa editrice come Laurana, non si può che essere felici. Laurana infatti ha pubblicato un libro che è senza dubbio tra i più belli usciti di recente, un libro che il “consigliere” Giulio Mozzi aveva prima proposto a diverse grandi e medie casa editrici, ricevendo in cambio solo rifiuti. Poi è arrivato a Gabriele Dadati, che l’ha pubblicato. Si tratta di “Sangue di cane”, di Veronica Tomassini.
Una storia la cui verità, e il suo valore di verità, si sentono e si toccano di continuo, grazie a una lingua potente. Una lunga lettera d’amore, che racconta – labirinticamente così come labirintica fu la storia – un amore tra la “scrivente” e un polacco conosciuto a un semaforo, “visto e preso”, fatalmente. Un polacco bellissimo, alcolizzato, violento, “impossibile”. Ed è questa impossibilità – un’attrazione letale e pure girardianamente mimetica – che conduce la scrivente nel sottomondo di Siracusa, in quella Siracusa che era “cimitero di polacchi”.
Spettri che si muovono tra la “casa dei morti” (il cuore di quel sottomondo) e le grotte delle balze; ma Slawek è un essere con un’infinita “fame di vita”, ed è questo che lega la giovane di buona famiglia. E’ una discesa agli inferi quella che Tomassini racconta, e lo fa senza indulgenze. La rivede da lontano, eppure ne sa riconoscere l’amore smisurato che la sosteneva (un amore “irripetibile, prodigioso”), che di quell’insensatezza era il senso profondo. Un amore fatto di male (batailleanamente inteso), da cui la scrivente non si chiama fuori:
“Ti ero correa e compagna. Ero il seno di una madre che allattava il suo aborto”.
E’, lei, una creatura che osserva dal limite che le è concesso quel sottomondo di cui sa di non fare parte, e che pure la chiama. E che, poi, per dare un senso a quell’abisso, rilegge tutto sotto la chiave escatologica del piano divino, che avrebbe voluto necessario quell’amore. Ciò che chiama il lettore a questa storia (e che aveva tenuto lontane le grandi case editrici, credo) è la lingua sporca, cruda: una crudezza che torna su se stessa come una frusta, circolare e auto lesiva, fatta di iterazioni, ritorni allo stesso punto – là dove il dente duole. Una lingua presa a morsi, verrebbe da dire, fatta a brani, fino al sangue. Una lingua mimetica con quel sangue di cane del sottomondo.
(pubblicato il 2/10/2010 su l’Unità)
sottoscrivo
c.
“batailleanamente” è un vero salto mortale, carpiato & triplo.
:)
Sì, mi piacciono i salti mortali. Sempre batailleanamente intesi, s’intende :-)
Comunque, giusto per non buttare le cose così alla cazzo: Bataille alla nozione di “male” diede un’accezione ben specifica,e a quella mi riferivo. Carpiato: leggendolo Bataille avrebbe inevitabilmente ecceduto [sic] nella messa in atto dei suoi strumenti concettuali, come fece esemplarmente ne La letteratura e il male.
Credo che fp si riferisse “unicamente” all’avverbio, in sé…
(Il libro è splendido, una delle cose migliori lette quest’anno.)
Sì. Gli è che talvolta mi viene da essere fin troppo acribico per non lasciar fraintendimenti (anche se poi tanto ne resteranno sempre). [In ogni caso, per precisare ulteriormente: “buttare le cose alla cazzo” era riferito a me]