Dover essere riconosciuti ancor prima di nascere
di Roberta Salardi
Nell’articolo La lobby vaticana di Franco Buffoni, apparso su Alfabeta2 (n° 3, novembre 2010), e ripreso qui su NI, si trova una considerazione che non si può che condividere: “Esistono società meritocratiche (in genere quelle anglosassoni), società socialdemocratiche (con lo stato in funzione di nume tutelare dalla culla alla tomba: in genere quelle nord-europee) e società familistiche come quella italiana, per la quale il primato dei valori è nell’ambito famigliare.”
Legami di sangue o parentela più o meno stretta si confermano come forza di coesione primaria nella familiocrazia. Si deve presumere che ciò valga anche per quella nicchia che è la casta letteraria. Amicizie o conoscenze radicate nel passato, inerenti alla famiglia o alla scuola, potranno essere decisive. La loro discreta importanza avranno in seguito le amicizie giovanili più solide, quelle degli anni formativi legate alla politica e all’ideologia, la condivisione di scelte analoghe fino alla vera e propria militanza negli stessi gruppi, schieramenti o chiese. Questi sodalizi intellettuali, a dire il vero, potrebbero rappresentare un significativo allargamento dell’orizzonte, ma va subito precisato che negli attuali movimenti e aggregazioni studentesche, meno estesi e duraturi rispetto a quelli degli anni sessanta e settanta, non può che esservi una minore partecipazione degli attanti sociali e un ridotto rimescolamento delle classi. Con l’ingresso nel mondo del lavoro (ma anche al di fuori di esso) determinanti si rivelano invece i rapporti di sudditanza, fascinazione o più semplice opportunismo, dettati dalla pulsione gregaria, così forte nella nostra specie. La semplice esecuzione dei compiti e la rinuncia a combattere sono i fenomeni più frequenti nella quotidianità lavorativa. Non si può negare che sia più diffuso il pensiero convergente rispetto a quello divergente, il conformismo rispetto all’anticonformismo. Con queste premesse, il coraggio di puntare sul nuovo, la generosità e l’ampiezza di vedute si troveranno raramente all’interno della casta editorial-letteraria, che pur sarebbe chiamata a guardare avanti, a progettare il futuro.
In base a questi elementi, non deve stupire se essa riproduce se stessa senza che vengano lasciate molte alternative.
La prassi per arrivare a una pubblicazione in genere è questa: venire presentati a una casa editrice da uno scrittore già noto. Ma lo scrittore affermato avrà tempo di leggere il manoscritto di Pinco Pallino con tutto quello che deve leggere, fare e scrivere per curare la sua opera?
Proviamo a pensare positivo: pensiamo a chi è baciato in fronte dalla fortuna. Nei rarissimi casi in cui, nonostante mille difficoltà, il dattiloscritto venga accettato in lettura, la lettura venga portata avanti con le migliori intenzioni, con la calma che non si trova quasi mai e con una favorevole disposizione d’animo, come se il personaggio autorevole avesse in mano l’ultima lettera di un caro amico, create le condizioni di una sincera partecipazione e del miracoloso riconoscimento, che porterà alla tanto desiderata presentazione e alle successive letture editoriali, bene, anche in questo caso raro e fortunato uno scrittore che segnali un altro scrittore non indicherà un suo simile piuttosto che uno diverso da sé?
“Ma che cosa pretendi? Questo è naturale, non se ne può fare una colpa!” Immagino le obiezioni. Niente di più vero; tuttavia perché non riconoscere che con questo metodo si persegue più la riproposizione dell’uguale che la ricerca del nuovo?
Bando alle ciance, noi vogliamo continuare a pensare positivo. Per agevolare la circolazione dei manoscritti, per favorire la fortuna, si offrono d’intervenire agenzie letterarie e scuole di scrittura: a tentare di far da cerniera fra editori irraggiungibili e scriventi frustrati, quasi a costruire un ponte su un abisso…
Vogliamo aprire un dibattito sulle scuole di scrittura? E’ fondamentale cogliere subito la differenza fra scuola pubblica e scuola privata: i corsi di scrittura sono invenzioni di privati. Dopo questa banale constatazione, è doveroso auspicare che le future generazioni di scrittori usciranno dalla scuola pubblica, dall’università o da corsi di specializzazione postuniversitari piuttosto che da corsi accelerati sulle ultime tendenze della produzione angloamericana. E’ come minimo necessario creare le premesse affinché uno scrittore del prossimo futuro non sia semplicemente un epigono di Foster Wallace (cito un nome a caso), bensì un figlio della Letteratura: che nel suo bagaglio culturale ci sia posto per Dante come per Sartre, per Proust come per Faulkner, per Sofocle come per Rabelais e non soltanto per l’ultimo autore di grido.
Non che la preparazione di un esordiente importi gran che agli editori. Anche di fronte a quelli meno commerciali, se manca la famosa raccomandazione, un eventuale primo colloquio non ruota proprio intorno al romanzo. Il testo passa immediatamente in secondo piano: anche soltanto per intavolare il discorso occorre citare nomi e conoscenze personali, arrampicarsi sugli specchi per inventarsi un qualche pedigree o una propria rete di amicizie che contano, amicizie che ovviamente devono essere comprese nell’ambiente. Ed è questa la dote reale che si porterebbe nell’accordo o contratto che dovesse seguire. La sensazione netta e inequivocabile è che il proprio dattiloscritto sia un oggetto del tutto trascurabile, magari ricostruibile successivamente, in gran parte modificabile, a cui ci si applicherà insieme in un lavoro d’équipe, in un lavoro di fabbrica: un’appendice artificiale smontabile e sostituibile. Assistiamo a questo paradosso: mentre pubblicare un’opera, renderla pubblica, secondo la definizione e la logica, spetterebbe all’editore, s’invertono le parti e si pretende che sia l’autore ad avere un suo ufficio-stampa privato ed efficiente; l’editore da parte sua è disposto a metterci la scrittura parziale o la riscrittura del testo secondo i criteri che lui ha in mente.
La prima cosa chiara è che non conta quello che si fa; conta quello che si è, o meglio, che si è già prima di diventare scrittori. Prima che il libro esista. Non vorrei che, andando di questo passo, tutto si riducesse a un’unica e semplice domanda: “Che lavoro fa tuo padre?”.
A motivo delle esigenze di vendita per ciascun libro deve mettersi in moto il prevedibile meccanismo di uscita-lancio-recensioni-pubblicità, necessario affinché il libro non venga del tutto ignorato come infatti accade a quei volumi non sorretti da alcuna rete (che cadono appunto nel vuoto senza rete in quanto pubblicati senza referenze e sostenitori). L’articolo di Giacomo Sartori Come scegliere un buon romanzo (italiano), apparso qui su NI, conferma l’immagine della famigliola (ristretta) dei letterati. Spiritosamente viene descritto il momento delle recensioni come festicciola di famiglia dove simpatiche zie e nipoti si scambiano regalini gli uni con le altre.
Qualcuno obietterà che conflitti e contrapposizioni non mancano nemmeno nelle migliori famiglie… Infatti non si può non dare il giusto peso anche a questioni caratteriali. Lo spiccato narcisismo, tratto rilevante delle personalità degli artisti, ha un suo peso e può costituire un freno alla pulsione gregaria. Lo stesso narcisismo può esser causa di facili irritazioni, permalosità e bruschi cambiamenti all’interno dei gruppi e delle consorterie. Una cosa che per esempio può succedere, e da cui si diffidano gli ingenui, è che nel conversare brevemente con un autore, magari alla presentazione di un suo libro, si esprima chiaramente una preferenza per uno piuttosto che per un altro più recente dei suoi testi. Non sia mai! Una frase che altri intenderebbero come segno d’interesse duraturo, di stima e partecipazione, dallo scrittore accecato da se stesso può essere interpretata come una critica indiretta alla sua attuale produzione, un giudizio di declino, che non è detto che sia. Il rischio è di farsene un nemico per sempre.
Come nota a pie’ di pagina, va aggiunto che lo scrittore d’immaginazione, a dispetto delle cospicue e dispersive esigenze di public relations, è nella sostanza una figura solitaria, circondata dai suoi fantasmi, i suoi personaggi.
[Roberta Salardi ha scritto i bei racconti della raccolta “Regressioni” (Effigie, 2010); tengo a specificarlo perchè secondo me le parole degli autori che scrivono cose interessanti hanno sempre un valore aggiuntivo, che me le fa ascoltare con molta attenzione; gs]
E’ un mondo difficile. E’ naturale che il conformismo sia visto, più o meno consapevolmente, come l’unica strategia di sopravvivenza in una società dove tutti gridano ma nessuno ascolta.
Sopravvivono famiglie, gruppi, sette. L’individuo non ha spazio, non esiste da solo. Eppure mai come in quest’epoca tutto ruota intorno all’individuo, come la banca costruita intorno a te, ma intorno a te non c’è prorpio un bel niente, salvo forze indifferenti.
Forse si dovrebbe smettere di cercare di sopravvivere.
Forse questa società, questa umanità, non meritano neanche tutti questi sforzi.
In tutti i campi (tutti, ma proprio tutti) ormai ti viene richiesto di essere riconosciuto prima ancora di nascere. Questo accade quasi come un proforma, perché in realtà nessuno vuole conoscere nessuno.
E’ talmente inconsistente una identità smarrita in mezzo a milioni di altre, ma tutte si sentono così importanti, così essenziali e invece subito svaporano e vengono sostituite con altre altrettanto inessenziali.
Viene in mente la novella di Beckett Lo spopolatore.
E’ talmente grottesco tanto agitarsi, eppure siamo costretti a farlo: dopotutto, anche se inessenziali, siamo unici, e questa unicità non dovrebbe andare sprecata: invece succede e anche molto spesso.
Non possiamo continuare nè fermarci.
Massimo, concordo in pieno con le tue parole.
Forse occorrerebbe fare un passo indietro. Un no pronunciato prima dentro di noi in modo deciso, e poi dichiarato all’esterno. Certo, questo aprirebbe un futuro carico di sacrifici. Ma che noi e tutte le generazioni a venire siamo comunque destinati al sacrificio (economico, sociale, esistenziale), questo mi sembra chiaro.
Bello scritto questo di Roberta. Ho poco da aggiungere perché conosco il mondo dei letterati – per conoscenza indiretta – proprio come lo ha descritto lei.
Per quanto riguarda il tipo di società di cui si parla nell’incipit.
Tutto vero. Ma fino a un certo punto. Esistono società anzi nazioni, come l’Italia, che si riescono a vedere sempre ciò che esiste all’estero come un modello da seguire e ciò che esiste in patria come il peggiore dei modelli da esporre. Se applicassimo la nostra fine analisi per ciò che avviene qui alla meritocrazia anglosassone e alla socialdemocrazia nordeuropea, scopriremmo quanta ipocrisia sia mascherata da meritocrazia, e quanta indifferenza sia mascherata da socialdemocrazia.
Concordo, anche se vorrei tenere insieme i miei pezzi. La descrizione e’ la stessa qualunque sia l’attivita’ svolta. E’ decisamente un mondo difficile, che purtroppo non cambia qualunque sia l’analisi gli si applichi. Concordo anche con i commenti, il cui unico consiglio mi par quello di “resistere”.
«Legami di sangue o parentela più o meno stretta si confermano come forza di coesione primaria nella familiocrazia. Si deve presumere che ciò valga anche per quella nicchia che è la casta letteraria.»
Cioè si presume che la «casta letteraria» (e mi piacerebbe sapere di quale casta in particolare parli Salardi, perché ognuno ha la sua) sia fatta da gente imparentata? Pezze, e soprattutto statistiche, please.
Che abbia fatto invece le stesse scuole potrebbe andarmi bene, è da giovani che si stringono le amicizia più formative, di solito sulla base di affinità intellettuali, se si è intellettuali, e in genere la gente si sceglie reciprocamente tra pari grado, o rango, o qualità.
Ormai non sono più irritata da questi tipici discorsi da rete, generalizzazioni come questa mi fanno un po’ ridere. Si passa da una giusta attenzione al familismo nostrano e ai suoi vincoli a una dietrologia a 360°.
Il mio consiglio, o lettori ambiziosi, è di non stare a chiedervi quale casta vi si sia messa di traverso, ma come potete lavorare meglio, sempre che possiate.
[@Sartori, mi dispiace, sembra che io ti insegua per criticare le posizioni che rappresenti, in questo caso via Salardi, ti assicuro che non è così, è che negli anni mi sono fatta un quadro un po’ più articolato di quello che esce da questo post.]
@alcor
questo pezzo non è mio, è di Salardi (e quando voglio dire qualcosa lo dico con la mia penna, non per interposta persona!);
e io stesso credo che hai perfettamente ragione, quando dici che bisogna stare attentissimi alle generalizzazioni e alle dietrologie (cosa che ho fatto presente in privato a Roberta stessa);
però ecco, queste valutazioni – e il senso della mia postilla finale era quello – non le ha scritte una persona qualunque, ma una autrice che ha scritto dei testi degni di nota; una persona che, visto che poi ha pubblicato con un minuscolo editore quale è Effigie, suppongo (non ne so niente, perchè con Roberta non ne abbiamo parlato) si sia scontrata con il mondo editoriale, e quindi parli per esperienza diretta; ecco, a me questa esperienza interessa, e interessa che sia resa pubblica e che si confronti con altre esperienze; perchè io noto un mortale conformismo (assolutamente assente negli scritti di Roberta), e mi interessano molto i meccanismi con i quali si arriva a questo conformismo; tu con la tua esperienza editoriale, sei liberissima, per carità, di considerarli “tipici discorsi da rete”; a me non sembra;
qualsiasi cosa si dica, cosa italianissima, rete o non rete, salta fuori che ti zittisce, perchè ne sa di più lui; perchè non rispettare mai l’interlocutore, che spesso può avere (ed è senz’altro il caso di Roberta, grazie appunto ai suoi testi) la sua piena dignità?; per quanto mi riguarda moltissime cose che dice Roberta (a cominciare dalla sensazione che ha lo scrittore che quello che scrive, e la sua qualità, conti davvero pochino, cosa che io in Francia non ho MAI AVUTO) sono fondatissime;
o altrimenti daccela tu, la tua versione di questo quadro più articolato! (lo dico senza ironia); dove si trova secondo te (in forma scritta), non nella testa delle persone e nelle chiacchiere di corridoio?
Sì, credo che la sfera di relazioni offerta dalla famiglia originaria possa contare qualcosa in tutti i campi. Ognuno può riflettere sugli esempi che conosce. Perché escludere la nicchia letteraria dagli altri settori della società, non considerarla un prodotto come il resto? Quanto alle amicizie o ai sodalizi intellettuali formatisi negli anni della scuola o dei movimenti, ben vengano, ma il ’68 e gli anni settanta (che pur ne produssero molti) sono ormai lontani, il divario sociale è aumentato, il rimescolamento delle classi non so fino a che punto sia possibile, le contestazioni vivono stagioni più brevi… Di recente qualcuno ha pure affermato con soddisfazione, dopo l’ultima insurrezione studentesca: “Il ’68 è finito”.
Mi pare fosse Manganelli a dire che il successo, stando come stanno le cose, va preso come una maledizione. La mia personale esperienza con un altra disciplina artistica mi fa fortemente convergere verso l’irritazione della Salardi. Ho visto affermarsi gente senza nessunissimo talento e scomparire artisti di primissima qualità. Ma quest’ultima genia, secondo me in giro ce n’è ancora tanta, non si mette a piagnucolare per via che è ignorata dallo Stato o dal sistema industriale: il primo, in quanto Potere, non può che essere contro gli artisti; il secondo, deve giustamente pensare agli azionisti, e non gliene può fregare di meno dell’arte. Per concludere, voglio pure dire che nemmeno il pubblico ha le carte in regola, essendo disposto da sempre a ingoiare quello che gli fornisce il sistema, più o meno quello che metteva Pietro Manzoni nelle sue scatolette. Certo, la mangia ovunque, ma in Italia con una eleganza inarrivabile.
Qui si intrecciano però questioni diverse: un conto è passare avanti perchè si conosce Tizio o Caio (in fila dal dottore o nella lettura del manoscritto), un altro è quando uno scrittore ne segnala un altro (il che non vuol dire poi che venga pubblicato). Essere “segnalati” non vuol dire per forza “essere amico di”, ma magari fare un lavoro che nel tempo è stato riconosciuto (attraverso altre pubblicazioni, ad esempio): ecco che allora si può giudicare usando come categorie “quella scuola” piuttosto che “quella parrocchia” (dico in merito a questo passaggio: “uno scrittore che segnali un altro scrittore non indicherà un suo simile piuttosto che uno diverso da sé?”). Si tratta di una famiglia? Può essere, nell’accezione di un’aria familiare… Quanto al discorso sulle conoscenze, forse può valere di più per un esordiente…
La grande soluzione, la grande apertura, offerta oggi ai giovani sono le scuole di scrittura, che, per mia esperienza personale, si situano fra la truffa (cioè lo sfruttamento delle illusioni altrui a scopo di lucro) e una forma molto limitata e funzionale di scuola. Perlopiù vengono interpretate subito dagli stessi fruitori come modo per conoscere l’autore importante che vi insegna, come occasione di public relations.
Non lo so… mai fatte scuole di scrittura: tengo un laboratorio di scrittura a titolo gratuito, ma conoscermi non cambierà le sorti dei pochi partecipanti :-)
mai fatto (non fatte): nel senso di mai frequentato…
@ sartori
“via Salardi” era inteso per affinità, non perché io pensi che non sei in grado di dirle da solo, cose come queste.
Ciò detto, è vero, come dice Salardi sopra, che la provenienza familiare può «contare qualcosa in tutti i campi», ma appunto, “qualcosa” se consideriamo i campi di attività, moltissimo solo se consideriamo le opportunità sociali in genere.
Ma basta andare a guardare le biografie e soprattutto i numeri. Per uno scrittore che ha il padre o il marito o la moglie o il fratello che fa lo scrittore e che lo ha imposto al proprio editore, ci sono tutti gli altri, e cioè la maggioranza schiacciante, che hanno fatto gli scrittori mentre il padre faceva l’impiegato.
Non ho letto niente di Salardi e non conosco la sua storia, perciò prendiamo lo scrittore X che fatica a trovare un editore e quando finalmente lo trova lo trova piccolissimo.
E’ per colpa della «casta» (e non tiratemi fuori Morselli, per pietà, o Pizzuto, o Musil, che sua moglie ha dovuto fare una sottoscrizione per pubblicare l’ultima parte dell’Uomo senza qualità, ma sono casi eccezionali – e quello di Musil un caso eccezionale per eccesso di eccellenza dell’autore – o tutta la casistica dei geni incompresi e troppo avanti per il loro tempo, perché si tratta appunto di eccezioni, e spesso si tratta di scrittori per scrittori, destinati ai piccoli numeri e al successo di stima) o per altre ragioni? Per esempio, può essere troppo sofisticato per i grandi numeri, può essere troppo debole per i grandi numeri, o può essere anche semplicemente mediocre, e se è mediocre dovrà combattere con la folla dei mediocri, ovviamente una folla enorme, che competono sul suo stesso terreno.
E’ vero che le relazioni contano, ma vorrei far notare che le “relazioni” fanno parte della biografia intellettuale, ed è ovvio che se una persona si sveglia a cinquant’anni e si scopre una vocazione di scrittore tardiva, farà più fatica a trovare gli interlocutori, ma anche se decido di iscrivermi a legge adesso e di fare l’avvocato, farò fatica a farmi una clientela.
Per farsi apprezzare, sempre che si abbia qualcosa di apprezzabile da dire o da scrivere, ci vuol tempo, di solito.
Ma possibile che non si spieghi, invece di dire se ti va male è perchè la casta ti esclude, che se ti va male è perché forse non sei in grado di capire chi sei e a chi ti rivolgi? Se vuoi scrivere per Mondadori e scrivi un esercizio di stile vuol dire che non sai chi sei.
Sostenere il contrario è una di quelle facili generalizzazioni che trovo perniciose perché danno l’impressione che il valore che ognuno si attribuisce sia schiacciato non dalla natura di quello che ha scritto, ma da un muro ostile che altri, arroccati nei loro fortini, hanno alzato per tenere fuori lui, proprio lui, solo lui.
Ma secondo voi, gli editori, che come dice giustamente Salardi, se la ho intesa bene, “producono merci”, come possono essere, in quanto produttori di merci, anche tanto masochisti da non cercare quelle merci che possono fare al caso loro?
Poi c’è una merce che fatica a imporsi sul mercato e fa una strada lenta, una merce che parte subito, una merce di nicchia, una merce mediocre.
In Francia, scusa, ma funziona come da noi, salvo il maggior peso che ha per tradizione l’intellettualità e la diversa qualità delle loro istituzioni, ma se scrivi un libro debole o di ipernicchia, l’ascolto è lo stesso.
Lo so che tu vivi lì, ma è un paese con il quale ho una certa dimestichezza anch’io.
@alcor
1) ti sbagli ancora, alcor: se faccio parlare qualcuno non è per affinità, ma perchè mi interessa quello che dice, anche se è il contrario di quello che penso io; c’è una grandissima differenza; io parlo per me, e Roberta per lei;
2) mi stupisce sempre molto come persone anche molto intelligenti, come tu sei, e anche spesso aperte verso l’estero, dove vigono funzionamenti molto diversi, ed è anche questo il tuo caso, siano poi incapaci di parlare serenamente delle pecche della nostra editoria, il che naturalmente non vuol dire sparare a zero, ma appunto mantenere una distanza critica (la stessa che presupponeva il tuo primo commento, quando parlavi di “quadro più articolato”);
le affermazioni generiche che fai, nulla dicono, a mio modesto avviso, di alcune specificità dell’editoria italiana; a cominciare dal fatto, per restare al ragionamento di Roberta, che la gran parte delle case editrici italiane non leggono (o, se lo fanno, si servono di persone incompetenti) i manoscritti che ricevono per posta, il che altrove rappresenta certo un canale minoritario, ma importantissimo per la “sanezza” e la “vivacità” dell’intero sistema;
ma si potrebbero citare, avendone il tempo, tante altre stranezze e anomalie; conosci altri paesi (escludendo la povera Africa) dove grandissimi e navigati scrittori, riconosciuti come tali dai pari (es. Pardini per la narrativa e Mesa per la poesia), non riescono, o lo fanno molto difficilmente, a pubblicare?
Questo pezzo solleva una questione cara a tutti gli esclusi, ai vinti, del piccolo mondo italico.
I vinti (in qualunque campo o settore del vivere, quindi anche in ambito editoriale) sono perfettamente in grado di rappresentarsi, senza che sia l’empatico e stucchevole altruismo dei vincitori, a farlo. Attenzione, però, a non cedere agli inganni della frustrazione, e dalla rabbia, che portano al massimalismo, al ‘tutto un’erba un fascio’ e soprattutto a un’eterna, statica e talora comoda posizione orizzontale. Da ‘vinti’ appunto.
A proposito di fasci, anzi di nazi, bisogna evitare, secondo me, di convertire la propria esperienza dell’ingiustizia (comunque percepita, reale o immaginata che sia) in categorie troppo nette, alla Carl Schmitt, del tipo
Buono-Cattivo Etica
Bello-Brutto Estetica
Utile-Dannoso Economia
Amico-Nemico Politica
Leggendo il pezzo di Roberta verrebbe da aggiungere una nuova dicotomia:
Simile-Diverso Letteratura (o forse: Editoria.
O forse: comunità di ‘scrittori’ che si sentono tutti dei gran falliti versus aspiranti falliti
che non si sentono accettati come scrittori, e che quindi non possono fallire compiutamente…)
In base alla mia personale esperienza delle cose di editoria (ho subito rifiuti cocenti da gente che conosco da una vita) la ricerca giovanile o tardo-giovanile del proprio ‘simile’, in ambito ‘gruppettaro/rivistoide’ prima ed editoriale poi, porta con sè, a seconda degli esiti e delle fortune individuali, o un sentimento di inclusione e di convivenza, il che non sempre giova alla scritture, anzi spesso le appiattisce in un sotterraneo, reciproco mangiarsi dove vince chi ha più ‘micropoteri’ dell’altro, o un sentimento di esclusione, il che può essere un ottimo punto di inizio, magari per scriverci un romanzo, ma non un punto di arrivo, una conclusione.
Forse la migliore risposta, cara Roberta, è rivendicare la propria ‘diversità’ da tutte queste ‘somiglianze’ non corrisposte, e sopratutto non cercarle a tutti i costi, perché magari non ci sono. Talora è un bene che non ci siano.
Da questo punto di vista, i poeti avranno sempre qualcosa da dire
Per esempio Pasolini, che quanto ad amicizie non scherzava:
“Cos’è che rende scontento il poeta?
Un’infinità di problemi che esistono e nessuno è capace di risolvere: e senza la cui risoluzione la pace, la pace vera, la pace del poeta, è irrealizzabile”.
Quanto nfine al familismo, vale lo stesso discorso, tu hai ragione, esiste eccome, ma non è la sola cosa con cui fare i conti, spesso nemmeno la più importante, quando parliamo di ‘fare soldi’ con il ‘talento’, reale o putativo che sia.
Continua a scrivere come sai. Un saluto
Intanto è necessario che ci sia qualcuno ingrado di riconoscere un talento per poterlo valorizzare in qualche modo; peccato che in Italia questi segugi siano rari, anzi rarissimi, e quelli che ci sono siano pigri.
ok, chiedo venia per il fraintendimento al punto 1)
ma per quanto riguarda il punto 2) Salardi parlava di «legami di sangue e parentela» e di «casta», e su quello sono intervenuta, non sulle pecche dell’editoria.
Solo un appunto sul funzionamento diverso negli altri paesi, guarda che non è così, è vero che in paesi in cui si legge tradizionalmente di più le cose vanno un po’ meglio, ma tanto per fare un solo caso, Manganelli, che in Germania poteva contare, un paio di decenni fa, su tremila lettori, non li ha più, perché l’appiattimento e la commercializzazione sono un fatto europeo, non solo nostrano.
E’ vero che negli altri paesi ci sono politiche culturali più efficaci, ma questo divario che qui si nota principalmente nella cultura, potrebbe fartelo notare allo stesso modo un piccolo imprenditore che vuole metter su un’impresa. Lì ci sono gli start-up che funzionano, qui no, lì il credito è facilitato e qui no, eccetera. E anche un’impresa è un prodotto del’ingegno.
Cioè, un sistema che funziona, sostiene tutti i suoi settori produttivi, culturali o meno che siano, ma non parliamo di caste o di papà e mamma.
Scusa, sempre @Sartori, una piccola postilla a questo: «che la gran parte delle case editrici italiane non leggono (o, se lo fanno, si servono di persone incompetenti) i manoscritti che ricevono per posta, il che altrove rappresenta certo un canale minoritario, ma importantissimo per la “sanezza” e la “vivacità” dell’intero sistema;»
Tu sai quanto me che il Italia si pubblicano ogni anno 60.000 (SESSANTAMILA) volumi, non stiamo a chiederci quanti sono di narrativa (lascerei da parte la poesia per varie e spero comprensibili ragioni), ma anche se fossero una minoranza, sotto la punta dell’iceberg di quelli pubblicati c’è per l’appunto l’iceberg.
Io credo che le case editrici grandi una sfogliata riescano a darla a quasi tutto, perché possono permettersi di pagare, magari male, i lettori, ma a me sembra evidente e anche intelligente che vengano presi in considerazione prima i libri proposti da persone affidabili che gravitano già intorno alla casa editrice.
Persino io che non conto un piffero, non sono una consulente, non scrivo recensioni, vivo appartata e sono sconosciuta ai più, ricevo dattiloscritti, al 99,99% mediocri e dimenticabili, almeno per una come me, e mi chiedo con stupore come sia possibile che sapendo più o meno chi sono, visto che ha la mia mail e il mio indirizzo, la gente me li mandi lo stesso.
Qua tutti scrivono, questa è l’angosciosa realtà, come potrebbero sopravvivere le case editrici, se non mettessero degli step?
E non solo tutti scrivono, ma purtroppo spesso spediscono in giro la prima cosa che hanno scritto a chiunque abbia non dico sei, ma anche venti gradi di separazione da un editore.
Persino le agenzie dicono di no agli autori, tanti ne sono.
Non varrebbe allora la pena, invece di parlare di caste e famiglie, spingere a un certo sano realismo chiunque intenda dedicarsi alla scrittura, che poi è fonte di piacere in sé ed è un onesto passatempo?
Poi possiamo parlare anche delle pecche dell’editoria.
Alcor è in battibile in certi frangenti nei quali bisogna tirar fuori unghia (pl dantesco) e denti per difendere lo status quo. Prima di tutto lo fa con la nota tecnica dello spostamento, facendo ricadere la colpa del disfacimento sempre su chi argomenta contro il sistema editoriale italiano. Infatti dice più o meno: come volete che gli editori leggano i testi? Gli scrittori sono troppi, risolviamo prima questo problema! Anche a me chenonsononessuno arrivano vagonate di testi insignificanti “ (sarei curioso di leggerli… se gli autori mandano i testi a nessuno non sono sicuro siano tutti così disprezzabili. Si scherza…). Trascuro di sottolineare che una persona pre parata come Alcor non può ignorare che in questo contesto dire che i testi sono troppi e di poco valore significa dare un giudizio sul post della Salardi, che del resto sa difendersi da sola e sa, se vuole uscire da sola la sera, tenere sotto controllo il tasso arcorico, mi pare. Ma in generale vorrei dire che non si può difendere un sistema liberale nel quale, del resto in tutti i campi, il merito viene sistematicamente calpestato a vantaggio di comportamenti di favoreggiamento amicale o familistico o partitistico o massonistico o mafiosistico. Non si può primaditutto perché son tempi politcamente bui, nei quali gli esclusi magari un giorno si incazzano e si rimettono a bruciare in piazza i libri degli inclusi. Ma non si può sopraditutto perché generazioni intere di esclusi, con la scusa del rinnovamento sociale, magari un giorno si incazzano e si rimettono a bruciare in piazza gli autori stessi dei libri inclusi. Pensateci. Come si dice: ogni limite ha una pazienza e i cocci sono suoi.
@Larry: a me sembra che Alcor dicesse semplicemente che, vista la mole di testi che arrivano nelle redazioni, non è poi così assurdo che una casa editrice recepisca le indicazioni di lettori (certo: spesso anche scrittori) di cui stimano il lavoro.
Oltretutto, oggi internet permette di ritagliarsi un piccolo spazio a chiunque voglia farsi leggere: il che potrebbe essere un ottimo strumento per talent scout vogliosi di navigare in cerca di cose interessanti…
Ok: l’editoria italiana è piena di scrittori con il papà scrittore: Busi, Mari, Siti, Cordelli, Lagioia, Vasta, Nove, Moresco, Scarpa, Nori, Falco, Pugno, Giordano, Murgia, Tabucchi, e aiutatemi voi a fare la lista completa.
E io difendo lo status quo, è vero, voglio che anche gli scrittori a venire abbiano una famiglia alle spalle, dopotutto sono italiana, non posso che difendere il familismo amorale nel quale sguazzo anch’io.
Mentre non voglio che altri geniali scrittori senza papà possano metter piede nell’editoria. Scherziamo?
E perché sono così cattiva? Perché sono d’accordo con questo che dice Salardi «La prima cosa chiara è che non conta quello che si fa; conta quello che si è, o meglio, che si è già prima di diventare scrittori.»
Lo diceva già Goethe e con Goethe, anche se non è mio parente, sono sempre d’accordo.
“Al momento non prendiamo in esame manoscritti non richiesti.” :)
http://www.feltrinellieditore.it/Contatti
Benché abbia collaborato con molte riviste e pubblicato alcune piccole cose, sono la prima a riconoscere di non far parte della casta. Mi sono limitata a fare 1 + 1 (cioè l’articolo di Buffoni + quello di Sartori, entrambi interessanti, anche per molti altri motivi, ovviamente). Ho descritto semplicemente alcune dinamiche da me osservate e ammesse anche dagli addetti ai lavori, come quella che occorre trovare un altro scrittore che legga lo scrittore che ancora non si è. Per la mia esperienza, questa non è una cosa per niente facile.
Mentre sono molto facili altre cose, per esempio leggere la recensione all’ultimo libro di Aldo Nove (su cui non esprimo opinioni perché non l’ho letto) pubblicata in un post di poco successivo a questo. Ecco quella recensione mi pare molto vuota, molto poco significativa in relazione al libro, a meno che il libro stesso non sia insignificante, così come la biografia del protagonista viene definita “impersonale”.
la reazione di Alcor, che peraltro stimo, come tutti stimiamo, per i suoi commenti spesso molto acuti, mi sembra tipicissima, una difesa nevrotica (scusa Alcor non ce l’ho affatto con te, ripeto in piena sincerità): quando si toccano certi tasti, anche in maniera garbata e inelligente, e soprattutto personale e per così dire vissuta, come fa Roberta, ZAC, arriva la risposta scontata, vero e proprio rictus nevrotivo: “i manoscritti sono milioni, come fanno le povere case editrici…”; ed ecco che l’interessante cosetta di cui si parlava è spazzata via, ed ecco che non si parla, ed ecco – tutti saputelli che siamo – che non si parla mai di nulla;
io non so come potrebbero fare, so che in Francia se metti in una busta un manoscritto e lo manci a 5 case editrici, 4,5 ti rispondono, e magari un paio anche in modo dettagliato;
ma certo questo fatto dell’accesso diretto non è la soluzione di tutti i problemi per carità, è solo un piccolissimo tassello (che però diminuisce le autocensure degli scriventi, aumenta la capacità di giudizio del giudicante, permette di “balayer plus large”…), però qualcuno mi spieghi perchè una casa editrice ricca e prospera come Feltrinelli (qui i problemi non sono i soldi, siamo tutti dac) non possa – come fa notare winston leggere i manoscritti che riceve (io stesso una quindicina di anni fa, quando muovevo i primi passi, ho ricevuto un paio di lettere prestampate che dicevano la stessa cosa!);
ma certo adesso ci siamo fissati su un problema da nulla (il vero problema, come nota Ares, è che da noi i veri segugi da noi sono pochissimi, veramente pochissimi, e di questi il grande segugio, forse l’unico vero segugio, sappiamo tutti come si chiama …;
ma appunto, le cose da dire sarebbero tantissime, e invece parlare è difficilissimo, perchè appunto ci sono sempre le risposte preconfezionate, e assolutamente fasulle (Alcor: nessuno ha detto le cose di cui tu fai una caricatura!); scavare un po’ più in profondità, e analizzare i veri problemi è davvero molto difficile; gran brutto segno
e l’argomento del mare di manoscritti a dir la verità me l’aspettavo
Non me la prendo:–)
tra l’altro ho appena visto sul Corriere un articolo che dà ragione a Ghelli, la rete può essere una buona vetrina, e certamente viene monitorata.
Onestamente, non so quante siano le case editrici che non leggono i dattiloscritti, e non so se in Francia tutte li leggano tutti, bisognerebbe chiedere a loro, a me risulta che ci sia gente che legge, ma quello che fa sempre reagire male me, in questi casi, è il senso di vaga paranoia che esce da questi pezzi.
Tu Sartori dici che nessuno ha detto le cose di cui io faccio una caricatura, ma se rileggi il post vedrai che le ha dette Salardi.
Se vuoi ti faccio un corposo copia-incolla, ma è più semplice se le rileggi qua sopra.
E poi, cos’è la casta? non sarà la proiezione di un senso di esclusione?
Se è così andrebbe prima indagato e poi curato, ed è quello che invito a fare.
Quanto a me, non difendo nessuno, e non do risposte preconfezionate, fotografo. Vedo maree di libri che nessuno o pochi leggeranno, dietro ai quali ci sono oceani di dattiloscritti. Non è che non posso vederli, incombono.
Il vero problema è che se ne debbano pubblicare tanti per restare in libreria, e che ci restino poi per così poco tempo, come panini che oggi sono freschi e domani già destinati alla poubelle.
Questi sono i problemi, e sono problemi noti e se non ricordo male più volte discussi anche qui su NI.
Il nome di André Shiffrin, Editoria senza editori, dovrebbe dirti qualcosa. Quelli sono i problemi, anche se finora nessuno ha trovato la soluzione, non il fatto che Feltrinelli non legga più dattiloscritti di sconosciuti, e non la chiusura di una casta escludente e familistica.
Alcor, pensala come vuoi. Secondo me 1 + 1 = 2. Ma tu puoi pensare tranquillamente che faccia 33 o 45 o 24. Non ti posso fare dei nomi, perché mi dà fastidio obbedire a una tua richiesta che sminuirebbe il mio discorso. Probabilmente chi fa parte della casta più di me, ne conoscerà anche più di me, perché non sempre i parenti portano lo stesso cognome. E poi, se hai notato, ho parlato fin dall’inizio di famiglia e di relazioni inerenti alla famiglia. I nomi ci sono, ci sono sempre state persone favorite fin dall’inizio. Il punto è vedere se nei cerchi più ampi rispetto alla prima socializzazione (la scuola, la politica, il lavoro) si creino oggi delle possibilità rivolte anche a chi è meno favorito dalla condizione iniziale. A me pare che queste possibilità si vadano restringendo, che fenomeni come quelli di Di Ruscio siano sempre più difficilmente reperibili.
Non ho parlato della rete, che offre ampie opportunità di scambio, di discussione, di visibilità e altro. Certo, il futuro potrebbe essere lì.
Per adesso, comunque, ho l’impressione che persino su alcuni blog letterari o riviste letterarie on-line non possano scrivere tutti un post. Un commento sì, ma un post no. Anche su questi occorre essere già conosciuti oppure venir presentati.
Ma posso immaginare cosa scriverai adesso: era meglio se il tuo post tu non lo scrivevi eccetera eccetera…
A parlare così generico, però, non se ne esce fuori.
Per la mia piccola esperienza di lettore di manoscritti posso dire che se ne escono così pochi, da quelli che arrivano in redazione, è perché la qualità media è veramente bassa. Piuttosto è vero che spesso le case editrici hanno un personale troppo ridotto per la mole di materiali che arriva, che è un’enormità, perciò continuo a pensare che non sia così strano avere delle persone di riferimento che segnalino alcuni scrittori (se poi si tratti veramente e soltanto di “conoscenze”, chissà, ma sarebbe stupido da parte di un editore puntare su un libro che non vale niente: almeno che il nome non sia quello di un cantante o di un calciatore famoso, ma questo è un altro discorso).
@Salardi
non preoccuparti, non ti chiedo nessun nome e men che meno ti dico che sarebbe stato meglio non scrivere il post.
Anzi, me ne esco, perché la discussione non è interessante, e se l’ho fatta è solo perché penso sempre che tra quelli che leggono ci siano persone giovani che da un post come questo possono ricavare solo depressione e senso di sconfitta aprioristica, ma nessuna indicazione utile, né a leggere il mondo editoriale contemporaneo né a praticare una critica culturale efficace.
A loro, e solo a loro, vorrei dire, non ascoltate Salardi, ascoltate Ghelli, e magari anche me, che a quanto pare ho maggiore esperienza di vita, e tutto sommato anche di editoria.
Pubblicare non è facile, questo è certo, ma non per le ragioni che dice Salardi, e non sarà il figlio di qualcuno a sbarrarvi la strada, pubblicare un libro non è la stessa cosa che entrare nello studio di avvocato o nell’azienda del papà.
Poi, se preferite praticare il pensiero paranoico, non mi immischio, gli equilibri psichici sono strani e anche se io non penso che sia un atteggiamento sano, per un altro potrebbe essere produttivo.
Buona giornata a tutti.
Per combinazione, ho appena letto sulla home page del “Primo amore” (www.ilprimoamore.com) un articolo di Gabriele Del Grande, dal titolo “Mi scusi Presidente” che, sollevando vari problemi, denuncia anche l’esistenza di “parentopoli varie”, le quali occupano spazi e riducono possibilità. Il settore a cui si riferisce è il giornalismo, come dire: appena dietro l’angolo…
Plinio il giovane, Plinio il vecchio, Dumas padre, Dumas figlio, poi c’è il primo Wittgenstein e a seguire il secondo (fratello gemello, credo :-)). Forse non dovremmo preoccuparci più di tanto di qualcosa che pur esistendo, dal principio, non ha impedito ad altri di nascere, rinascere, esordire o morire due volte come fu il caso di Goliarda Sapienza, Comunque spunti interessanti. Comunque sono d’accordo con Alcor. effeffe
Inoltre, Alcor, salutandoci nell’ultimo intervento, hai anche fatto un’esortazione che ribalta la cosa fondamentale affermata in precedenza. Scrivevi prima: ci sono troppi manoscritti, troppe cose arrivano in lettura che è impossibile leggere, troppi scrivono senza esserne capaci… Alla fine dici a tutti: scrivete, mi raccomando, non lasciatevi deprimere da discorsi sociologici o paranoici che siano! E fai passare me per quella che invita gli altri a lasciar perdere.
Non erano queste le mie intenzioni, in primo luogo perché, denunciando dei meccanismi di potere (veri o presunti, ognuno valuterà in base alla sua esperienza, considerando che non si è parlato unicamente di parentele di sangue), non posso che stare dalla parte di chi non rientra in questi giochi di potere. In secondo luogo perché non credo affatto che uno scrivente possa essere disincentivato a scrivere da un articolo qualsiasi, fosse anche quello di U. Eco di tanto tempo fa che anticipava Moresco riguardo ad alcune rivelazioni circa l’accesso alla pubblicazione.
Alcune constatazioni invece possono invitare a scrivere di più e a trovare altri canali, se possibile. Io stessa non credo per nulla che il cammino sia sbarrato.
Alcor
Da’ccordo sul ruolo seconario e marginale rivestito dal familismo, come lo intendi tu, in modo perlatro riduzionista (padri che piazzano i figli), rispetto alle sue dimensioni effettive (reti di amicizie che nascono già, all’interno del proprio habitat familiare, quello che Gaetano Mosca, un reazionairo, chiamava con certo compiacimento il vantaggio delle poszioni già prese. Fai mente locale e valuta quanta gente che lavora nel mondo dell’editoria e che pubblica i suoi romanzi totalmente privi di successo commerciale rientra in questo ‘luogo feroce’, più che comune , che purtroppo un fondo di verità ce l’ha.
Forse la paranoia di alcuni ‘giovani, a cui accennavi e sulla quale ironizzavi non è imputabile solo alle loro tare, o al fatto che ‘rosicano’. Magari esiste un sistema di relazioni umane, prima che editoriali, che la paranoia la incentiva. Ci hai mai pensato?
Quanto alla ragionevolezza del sistema dei lettori, ho i miei dubbi che sia un sistema effiicente. Certo una schiera di precari, amici, o scrittori amici, a cui subappaltare manoscritti sarà sempre necessari per smaltire il carico, su questo sono d’accordo, ma è anche vero che moltisisme volte le case editrici grandi non fanno nessun tipo di ricerca effettiva sui ‘talenti’, al limite svolgono un ruolo parassitario, nel senso che offrono contratti a gente che ha publbicato il proprio romanzo di esorido o quant’altro con un ‘piccolo’, e che ha avuto un minimo di risonanza mediatica, o in rete. Qui, oltre all’esistenza di casi in cui effettivament egli editori piccoli hanno fatto un buon lavoro, che i ‘grandi’ sfruttano, o meglio comprano pagando i diritti, ve ne sono altri in cui la risonanza mediatica è un prodotto delle proprie personali conoscenze.
Ti faccio poi un’altra domanda: chi è, secondo te, il lettore di Daria Bignardi? O di Federico Rampini? O di Ligabue? O di Jovanotti? O di Benedetta Parodi? O di Fabio Volo? Qui entriamo in un campo molto diverso, dei libri preceduti da un nome e cognome già “affermati” altrove. Ne vogliamo parlare?
Poi certo, Scalfari romanziere (a mio avviso pessimo) era amico di Calvino.
Caro Marco Mantello,
scusa, non avevo risposto al tuo primo intervento, che si situa a un livello di maggiore profondità di quelli di Alcor, la quale fa fuoco e fiamme e attira maggiormente su di sé l’attenzione.
Posso accettare di vivere una vita solitaria, che è quella che in effetti vivo e può anche giovare alla scrittura. Però mi piacerebbe, prima di morire, vedere pubblicati i miei romanzi. Chiedo troppo? Forse. Non conosco la risposta perché non sono stati pubblicati né letti né giudicati dalla critica. Devo essere letta e giudicata per sapere se chiedevo troppo, se sono un’esaltata megalomane o “paranoica”. Mi piacerebbe quindi ricevere una risposta dalla critica. Per questo non posso pubblicarli a pagamento o a caso, sapendo come vanno le cose. Quindi il discorso ricomincia: come conoscere qualcuno, come arrivare a un editore anche piccolo ma almeno visibile eccetera. La solitudine rischia di andare a farsi benedire.
Benché sia la cosa fondamentale. Benché occorra concentrazione e forse un amaro senso di esclusione per scrivere bene.
Quanto ai vip-che-scrivono-il-libro, purtroppo sono quelli che si prendono più spazio, sugli scaffali, in televisione, sui media. Il discorso è spesso trattato (es. in A. Moresco “Lo sbrego”). A mio avviso si potrebbero anche organizzare blitz nelle librerie “occupando” le vetrine (cioè sostituendo le pile di libri di Vespa piuttosto che di Littizzetto con opere di poesia o piccoli libri di piccoli editori). Dall’occupazione delle università all’occupazione delle librerie. Secondo me, accordandosi con un giornalista per ottenere l’attenzione, si potrebbe anche fare una nobile azione d’effetto in favore della biblio-diversità. Certo, la cosa credo sia perseguibile dalla legge: fare un assalto a una libreria e cambiare la vetrina… Si potrebbe fare con un libraio amico, giusto come azione dimostrativa, meglio se un libraio di una libreria nota di una grande città. Però un’azione da ripetere, una volta avesse successo…
Mi sa che Ares l’ha detta giusta: chi è in grado di capire chi ha talento?
Il problema non sono le parentele o le amicizie, ma una mediocrità diffusa che appiattisce tutto a sua immagine e somiglianza.
Il fatto che le case editrici ricevano migliaia di manoscritti non significa nulla: la gente che scrive sarà sempre meno di quella che fa qualunque altra cosa per campare o svagarsi. Scrivere è una tale fatica che solo per averlo fatto si meriterebbe almeno che qualcuno ti rispondesse no grazie non ci interessa. Invece nemmeno questo è concesso.
La quantità inimmaginabile di ciarpame nelle librerie non depone certo a favore dell’indefesso lavoro di chi decide tu sì e tu no. Anche perché molte di quelle porcherie durano meno di una stagione. Non si capisce neppure che ritorno economico abbiano le case editrici pubblicando la quantità di roba che pubblicano. Buttano tutto nel mucchio sperando che vada al traino delle vendite di Faletti e Volo?
Dal volume Epistole agli editori, primo tomo, Epistola terza.
Da un po’ di tempo penso che anche voi editori siete bottegai come gli altri, senza offesa parlando. Fingendo di aprirvi allo sperminato popolo degli scrittori, con la vostra lotteria fantasmagorica per esordienti, fate in realtà opera di raffinato marketing. Sembrate dire: dai, vedrai che ti pubblichiamo, ma nel frattempo tieniti in allenamento e compra i libri che stampiamo.
Libri non ne compro! Anzi, aveva ragione Massimo Troisi, alla cui regola mi attengo scrupolosamente non solo in fatto di letteratura, quando diceva: “ io non leggo mai, non leggo libri, cose, perché… che comincio a leggere mo’ che so’ grande?… che i libri so’ milioni, milioni… non li raggiungo mai! Avete capito? Perché io so’ uno a leggere, loro so’ milioni a scrivere… so’ milioni di persone… tatata!… mentre ne leggo uno n’hanno scritti già milioni!… allora dico: che me n’importa a me! “
PIU’ EDITORI PER TUTTI!
http://www.youtube.com/watch?v=6N3WnPSKjL0
santa pazienza:–)
mi tocca rispondere
a @Salardi che mi dice:
«hai anche fatto un’esortazione che ribalta la cosa fondamentale affermata in precedenza. Scrivevi prima: ci sono troppi manoscritti, troppe cose arrivano in lettura che è impossibile leggere, troppi scrivono senza esserne capaci… Alla fine dici a tutti: scrivete, mi raccomando, non lasciatevi deprimere da discorsi sociologici o paranoici che siano! E fai passare me per quella che invita gli altri a lasciar perdere.»
rispondo che scrivere è in sé un’attività positiva, che dovrebbero fare tutti, aiuta a riflettere, a pensare, a mettere ordine nelle cose, insomma, mi piace, e non è in contrasto con il fatto che troppi scrivano cose poco interessanti e mal scritte e le mandino senza riflettere agli editori.
poi, sempre @ Salardi che dice: « In secondo luogo perché non credo affatto che uno scrivente possa essere disincentivato a scrivere da un articolo qualsiasi»
do ragione, nel senso che un articolo non disincentiverà nessuno, ma do torto al sottaciuto perché un articolo come il suo fa pensare che l’editoria sia fatta in un modo, mentre è fatta in un altro, diversamente e magari ancor più criticabile.
a @marco mantello
per la prima parte del tuo commento ti rimando al mio di ieri alle 13:11
«Ciò detto, è vero, come dice Salardi sopra, che la provenienza familiare può «contare qualcosa in tutti i campi», ma appunto, “qualcosa” se consideriamo i campi di attività, moltissimo solo se consideriamo le opportunità sociali in genere.»
per questo che dici, invece «Magari esiste un sistema di relazioni umane, prima che editoriali, che la paranoia la incentiva» ti rimando al mio commento di ieri delle 10:42:
«Che abbia fatto invece le stesse scuole potrebbe andarmi bene, è da giovani che si stringono le amicizia più formative, di solito sulla base di affinità intellettuali, se si è intellettuali, e in genere la gente si sceglie reciprocamente tra pari grado, o rango, o qualità.»
Inoltre, come ho già scritto, non mi sognerei mai di negare i privilegi sociali. Quanto alle relazioni, esistono e sono un patrimonio della persona, e come ho detto sopra fanno parte della biografia intellettuale. Se questa consapevolezza crea paranoia, il mio consiglio è di pensarci un po’ su e sbarazzarsene (della paranoia).
Se siete lettori di epistolari e biografie, cosa che consiglio a tutti, vedrete che le relazioni partecipano allo sviluppo intellettuale e culturale, e anche alla «carrriera» della persona in questione. Addirittura nelle cronologie potrete leggere per esempio: nell’anno tale incontra il tale, nell’anno talaltro incontra quell’altro eccetera.
La seconda parte del tuo commento mi appare lievemente caotica e fatico a risponderti a tono, ci provo.
A proposito di questo: «Quanto alla ragionevolezza del sistema dei lettori, ho i miei dubbi che sia un sistema effiicente.» Leggiti le lettere editoriali di Pavese, vecchie, ma sempre buone per capire, pur nelle enormi differenze portate dagli anni, che il sistema dei lettori circonda e nutre ogni casa editrice. E il sistema delle agenzie, ovviamente, sempre più numerose.
Quanto alla seconda parte della seconda parte, è dolorosamente ovvio che una casa editrice di un certo tipo pubblichi non solo il primo, ma anche il decimo libro della Littizzetto, molte altre tuttavia non lo farebbero mai, o almeno, non ancora. Sui lettori di Littizzetto e Bignardi non mi soffermo, come non mi soffermo sugli acquirenti di scarpe Hogan, e spero che si capisca perché.
Quello che trovo inutile per capire i problemi, è prendere un caso singolo, [effeeffe fa spiritosamente il caso di Plinio e Dumas, potremmo ficcarci dentro anche la famiglia Strauß, anche se quelli suonavano, ma sono casi, numericamente risibili e anche per questo tutti ce li ricordiamo.] e allargarlo a sistema, visto che una casa editrice è anche un’azienda e mai quanto oggi guarda agli utili, cercando di coniugarli con quello che ritiene, secondo il suo standard, la qualità, e su questa invece sono d’accordo che si potrebbe discutere, sapendo che anche questo è un problema che non ci è dato, maledizione, risolvere con tanta facilità.
Sono, mi pare, questioni di puro buon senso.
Vorrei fermarmi definitivamente, non prima di aver citato il matrimonio di cui ho letto ieri, tra la Donzelli e la Feltrinelli, che con questo discorso ha a che fare.
Ma prima aggiungo, tanto per non trovarmi uno spiritoso come massino che mi dice che difendo lo status quo, che non si tratta di difendere, ma di conoscere le cose per quello che sono e poterle criticare senza farsi prendere da paranoie castali che non servono a niente, o meglio ancora, se uno è in grado di farlo, per poter creare realtà diverse. Io non sarei in grado di farlo, ma sono sicura che gente più energica e capace di me ci prova.
E adesso, vado a scrivere:–)
Alcor
Sulla prima parte del mio commento le divergenze restano. E’ verissimo che le relazioni umane hanno a che fare con la carriere e sono spesso frutto del caso. Ma dobbiamo anche valutarle storicamente, queste relazioni, non sono un dato estratemporale, nè sempre frutto del caso. E ancora: ci sono ‘qualità’ e qualità’ di relazioni umane, altrimenti i rapporti fra Joyce e Svevo sarebbero equiparabili a quelli fra Dell’Utri e Gianni Letta. Sembra che per te esista una sorta di legge dei rapporti umani ingiudicabile dall’esterno (altrimenti si è paranoici), per cui la gente che scrive e ha, tra virgolette, successo, si sceglie, o meglio si seleziona fra pari grado, o qualità, a partire dalla scuola media (magari dall’università con le riviste di scrittura creativa). Questo a mio avviso è darwinismo, una forma piuttosto ingenua, di darwinismo, come se le affinità elettive fra gli uomini non fossero dettate anche da materialissimi interessi, ambizioni e trasformismi dell’età cosiddetta adulta.
Sulla seconda parte del mio intervento (noto che hai copia-incollato anche il mio dislessico ‘effiicenti’, spacciandola forse per caos), ribadisco che il sistema dei lettori è senz’altro strutturale all’editoria di massa, ma ti dico anche, senza bisogno di andarmi a rileggere Pavese, che una riflessione critica, interna a quel sistema, al suo modo di operare, in questo periodo storico, non in empireo, è a mio avviso opportuna, specialmente quando si parla di grandi case editrici e del modo in cui ‘leggono’ i manoscritti, rispetto al ‘format’ che hanno in testa. Allora per chiarire meglio: io penso che il sistema dei ‘lettori’, per come opera oggi, sia del tutto inefficiente, rispetto all’esigenza di ‘selezionare’ la ‘qualità’. Tutto qui
Sulla seconda parte della seconda parte. Mii pare che nella sostanza siamo d’accordo, anche se a tratti la tua vis polemica sovrappone ‘ovvietà’ delle mie osservazioni a ‘ovvietà’ dello status quo (del tipo: ‘Certo che è così, lo sappiamo. E comunque c’è tanta gente che prova a cambiare le cose’. Ok anche questo è ovvio, come forse un comune senso di stanchezza, e di impotenza di fronte allo status quo).
Ciao. Buona scrittura.
Temo che le due posizioni rimangano inattaccabili fincé non si forniscono esempi, casi ai quali ci si vuol riferire. La posizione di partenza, quella da cui parte l’articolo, mi sembra voglia sottolineare una certa carenza di qualità nell’editoria italiana. Ma stiamo parlando in generale o per grandi numeri? Stamani, mentre attendevo che scattasse il mio numeretto, ho dato un’occhiata allo scaffale dei libri venduti nell’agenzia di Poste Italiane. Il primo scaffale era occupato da libri scritti da “non scrittori”: c’erano Jovanotti, Nino D’Angelo, etc etc… seguivano libri di cucina, manuali vari, e poi la narrativa: dove erano tutti o quasi titoli da classifica (più alcune ristampe di classici). E’ di questi che stiamo parlando o di editori medi o piccoli che si affidano a editor che sono anche scrittori? Dobbiamo definire quest’ultimo un rapporto di parentela o amicizia? O piuttosto di affinità letterarie (più o meno condivisibili: e se non ci piacciono non gli si comprano i libri).
Sui manoscritti: è vero, molti editori si limitano al prestampato (o non rispondono proprio); ma come detto più sopra dipende in primo luogo dalla scarsità di personale. Avete idea di quanto tempo serve per leggere interamente e a fondo un manoscritto, in modo poi da rispondere in maniera dettagliata? Bene: moltiplicate questo tempo per le decine di pacchi che arrivano ogni mese…
Sono d’accordo con Alcor almeno sul fatto che uno scrittore, per combattere l’orribile realtà, ha un’arma formidabile, che è quella di inventarsene altre. Come dire che in letteratura nemmeno lo status quo esiste, è solo urticante realtà letteraria, sostanzialmente un’invenzione degli scrittori che ci hanno preceduti. Consiglio a chi non l’ha ancora fatto di leggere almeno la prima parte del libro ” La struttura delle rivoluzioni scientifiche “, di Thomas Kuhn (una volta leggevo…)
@ mantello
scusami, rinuncio, non posso star qua tutto il giorno a precisare, ribadire spiegare e fare copincolla [per inciso, quando copincollo, copio e incollo, la revisione non è prevista].
ciao.
Alcor e non fare la permalosa… Alltrimenti sembra che tratti tutti dall’alto in basso e non credo sia nelle tue intenzioni. Ciao.
Simone Ghelli
E’ vero, ci sono profili molto diversi da considerare in una discussione come questa.
Per esempio:
-piccola e media editoria. Come funziona con gli editors, che talora sono scrittori che hanno fatto il salto alla ‘grande editoria’, e con i ‘lettori’
-grande editoria. Come funziona con gli editors, che talora non sono ‘scrittori’, e con ii lettori, che talora sono scrittori che pubblicano le loro cose un po’ dappertutto, sia nella grande sia nella piccola e media editoria
-Che tipo di effetti produce sul ‘gusto’ e sulle ‘scelte’ degli addetti ai lavori il fatto che ci si conosca un po’ tutti, che le agenzie letterarie siano gestite sovente da ex editors, che talora chi decide se pubblicare o meno qualcosa in una collana di anrrativa italiana è anche uno scrittore, che di riflesso gestisce una propria ‘carriera’, accanto al lavoro in casa editrice
Poi c’è il discorso a parte sui ‘nomi’ già conosciuti (jovanotti, etc.), su cui l’editoria di massa specula, per ottenere profitti (e garantirli agli autori), e, a un livello più basso, il discorso sul ‘familismo’, da intendersi in senso lato, e forse in una prospettiva meno angusta rispetto a come come lo intende Alcor. Ecco se non vogliamo chiamarlo ‘familismo’ chiamiamolo nella sua versione più pura ed esistenziale: ‘farsi un gruppetto di amici’, e in quella più squallida, non necessariamente scopereccia: smarchettamento, o scambio di favori.
Detto questo: c’è tantissima gente che lavora in modo serio nell’editoria italiana e non bisogna fare di tutta un’erba un fascio. Saluti
no @mantello:-)
e solo che:
http://www.youtube.com/watch?v=wDO5ea8MwgY&feature=related
Quanto al “fare i soldi” con il proprio talento, sarebbe materia per un altro capitolo, che magari qualcuno scriverà. A questo proposito si potrebbe porre una questione morale anche nelle arti e nelle lettere, nel senso che gli scrittori tutti, presa coscienza del tessuto sociale troppo pericolosamente corrotto in cui ci muoviamo, decidessero loro per primi che qualcosa va cambiato: si rifiutassero, tanto per cominciare, di degradare il loro lavoro alle pure esigenze di cassa. Potrebbe essere l’inizio di un nuovo romanticismo, di un grande riscatto. Il sentimento dell’orgoglio, il sentimento della vergogna, non è chiamata a formarli anche la letteratura?
l’inizio?scusa Roberta, ma l’inizio è già cominciato tanto tempo fa. Mi dispiace che non te ne sia accorta…effeffe
Tanto tempo fa, non so. Comunque sì, l’inizio è già cominciato. Sarebbe bello, dato il momento storico, che ci fossero più adesioni.