Porte à Portes

Rewind: una lettera di Giulia Niccolai sui maestri (Porte senza porta) 1
di
Beppe Sebaste

Alcuni anni fa, nell’ipotesi di ripubblicare una nuova edizione dell’ormai esaurito feltrinelliano Porte senza porta (ora Il libro dei maestri. Porte senza porta rewind) ebbi l’idea di chiedere alla mia amica Giulia Niccolai, già protagonista di una bellissima puntata della trasmissione che ai Maestri avevo dedicato su Radio 3 (riproposta nel cd abbinato al libro), una prefazione: lei aveva pratica, insieme, di scrittura e di meditazione, di sottomissione ai maestri e di indipendenza. Ma, giustamente, la sintesi a cui Giulia era pervenuta irreversibilmente, la sua vita nuova, non permetteva la complicità che lei ha immaginato le chiedessi, e che io avevo probabilmente immaginato di chiederle. Mi scrisse invece una lettera personale da cui mi sentii benevolmente trafitto, e che da allora mi accompagna. Ebbi da lei, in una parola, il dono della severità.
L’ho riletta tante volte, fino a pensare (con il consenso di Giulia) che forse potrebbero leggerla giovandosene anche altri, altri magari che come me si dibattono tra alcune delle contraddizioni che lei indica nel suo testo.

Senza dire che nel frattempo potrei essere già altrove, e altre cose così retoriche (mi sono già espresso nella nuova “Prefazione alla presente edizione” del Libro dei maestri), anche se scrivere è per me un mestiere, nel senso più artigianale della parola – un divenire sempre per non diventare mai, un divenire altro, non certo un diventare scrittore – ciò non toglie che io mi senta ancora spesso (e faccia) l’orso ammaestrato…
Voglio infine ringraziare Nazione Indiana a cui devo in fondo l’idea di rendere pubblico questo testo “privato”: più precisamente il post – A prose is a prose: Giulia Niccolai – dedicato a un libro molto bello di Giulia Niccolai, Esoterico biliardo, su cui scrissi una specie di recensione su l’Unità quando uscì (pure riportata su NI). E, si sa, una cosa, tira l’altra…

"Poema" (1975) scultura di Giulia Niccolai





Lettera di Giulia Niccolai
Carissimo Beppe,
questa è una lettera […], non la nuova prefazione che mi hai chiesto, perché a dire il vero, anche se sono lusingata del fatto che tu abbia pensato a me, mi considero la persona meno adatta per farla. E in questa lettera (che potrebbe anche essere piuttosto lunga), spero di riuscire a spiegartene le ragioni.
Prima di scriverla, ho voluto rileggere il tuo bellissimo Porte senza porta che mi ha affascinato come mi affascinò la prima volta che lo lessi. E’ un libro pieno di entusiasmo e di gioia e te li trasmette quasi a ogni riga, per la felicità e la centratura con la quale i diversi Maestri (Maestri nei più disparati settori), parlano del loro lavoro e delle persone (spesso dei giovani) ai quali lo insegnano. E per l’autenticità, il piacere e l’empatia con i quali tu riferisci tutto ciò a noi lettori, assieme alle osservazioni, ai pensieri, alle rivelazioni che hai avuto parlando e discutendo con loro.
Ho voluto rileggerlo per vedere se riuscivo a spiegarti le ragioni del mio rifiuto, soprattutto citando ciò che ti avevano detto i Maestri. Perché il fatto di servirmi delle tue stesse parole (e delle loro), sarebbe suonato più convincente e valido per te, e a me avrebbe dato un piacere particolare.
[…] L’insistenza con la quale mi hai richiesto uno scritto per la nuova edizione di Porte senza porta, mi ha fatto pensare che tu possa trovarti a una svolta nella tua vita, probabilmente in un momento di crisi profonda dopo la morte prematura del tuo grande amico, Giorgio Messori. E che una parte di te speri di trovare un qualche conforto o una via d’uscita dall’impasse in ciò che io (discepola di Lama tibetani da vent’anni, e monaca del Buddismo Mahayana da sedici), possa dirti. Ma non è così.
Oppure, il problema sta nel fatto che tra due-tre anni ne compi cinquanta e ti stai già chiedendo cosa hai combinato nella vita?
Del Dharma i Maestri tibetani dicono: 1). che va studiato, 2). che va studiato subito, 3). e che si deve studiare solo il Dharma.
Sull’argomento della morte spiegano: 1). che la morte è certa, 2). che è incerto il momento della morte, 3). che al momento della morte solo il Dharma può esserci d’aiuto.
In quei due “solo” in corsivo si evidenzia il valore assoluto che il Dharma (la legge) deve avere per il discepolo. Nonché il fatto che, diventando il perno della tua esistenza, il Dharma, l’insegnamento, sia anche il principale punto di riferimento di tutte le tue esperienze.
C’è naturalmente una grossa differenza tra studente e discepolo. Così come c’è anche tra un Prof. che insegni Buddismo (o religioni comparate) e un vero e proprio praticante.
In Porte ti definisci “un discepolo o studente di zen perpetuamente debuttante”, e (a parte l’insicurezza tra il definirsi discepolo o studente), quel “perpetuamente debuttante” è l’ammissione di sentirsi come una sorta di turista del Buddismo, qualcuno che comunque non è “entrato nel sentiero”, non ha definitivamente praticato la Rinuncia, primo e fondamentale passo per il triplice sentiero di Rinuncia, Bodhicitta (la mente altruistica di illuminazione) e Vacuità (la non esistenza inerente dei fenomeni, bensì la loro esistenza dipendente).
Sei un uomo di cultura intelligente e curioso, sempre alla ricerca di qualcosa, che si è occupato di Buddismo come di Ebraismo o di Cristianesimo. Lo dici e lo dimostri nel tuo libro.
I Lama definiscono la Rinuncia una “Rinuncia alla sofferenza”, ed è paradossalmente corretto, perché effettivamente si smette di soffrire, ma solo dopo aver sofferto. Si soffre mentre si sta abbandonando (lentamente e nel tempo) tutto ciò per cui si aveva eccessivo attaccamento, o eccessivo odio, dovuti alla nostra ignoranza di cosa sia il Dharma. Odio, attaccamento e ignoranza sono i “tre veleni” che causano le nostre rinascite incontrollate nella ruota del Samsara.
Man mano che il Dharma entra in noi (sì, anche nelle cellule e nelle ossa), diminuiranno il nostro odio e il nostro attaccamento, finché non ci ritroveremo liberi, veramente liberi delle nostre passate afflizioni mentali. Se il Dharma non ci cambia, non può essere definito Dharma, e uno studente che segua gli insegnamenti di un Lama senza cambiare, senza migliorare, sta ascoltando il Maestro solo intellettualmente, come si può ascoltare un esperto che tenga una conferenza. In altre parole, non si sta purificando e non sta accumulando energia positiva che gli permetteranno di raggiungere il sentiero della visione, della meditazione e del non più apprendimento. In tutto, cinque livelli del sentiero (essendo i primi due quelli della purificazione e dell’accumulazione).
In Porte citi diverse volte il Sutra del Cuore e mi è sembrato di capire che tu ne sia piuttosto affascinato, e che l’aspetto enigmatico del suo insegnamento ti stia molto “a cuore”. A questo proposito, voglio riferirti il meraviglioso, “paradossale” commento di un Lama proprio a questo Sutra: solo essendo noi un’illusione, possiamo migliorare o peggiorare. E ancora: proprio perché la vita è come un’illusione, ha un senso!
Ti confesso che a volte mi sembra di capire e a volte no.
Bene. Ma ora torniamo a noi e al tuo libro.
Nel capitolo su Fausto Taiten Guareschi, egli cita una frase straordinaria detta dal suo Maestro a un pastore protestante: “C’è qualcosa che vi brilla davanti agli occhi, e vi è indispensabile. Solo nel momento in cui questo scintillio scomparirà (quando non ne avrete più bisogno) potrete capire il vero Zen”.
Riconosco perfettamente quello scintillio e per me (come credo anche per te), rappresenta la scrittura. Tutto ciò che di bello, autentico, e mai banale ha rappresentato lo scrivere, il mondo degli scrittori, l’intelligenza, l’introspezione, la comprensione della vita e dell’animo umano che i grandi scrittori ci hanno trasmesso. Ecco. Finché ci nutriamo di tale illusione, ci crogioliamo in tale compiacimento, abbiamo una tale ammirazione per loro e una tale aspirazione a imitarli, non potremo capire il vero Zen.
Dopo che ebbi incontrato il Buddismo tibetano nel 1985, i Lama mi tennero così occupata (per una decina d’anni), che non ebbi più il tempo fisico per scrivere. Come dicono le date sotto i capitoli di Esoterico biliardo, riuscii al massimo a scrivere un capitolo l’anno. In più, i Lama mi sfottevano chiedendomi: ma quand’è che ti rimetti a scrivere? (I Lama sfottono spesso e volentieri).
Nel 1993 fui invitata a Marsiglia per tre mesi dall’Assessorato alla Cultura. Mi davano uno stipendio mensile, un appartamentino nel Panier (quel montarozzo tra il Vieux Port e i nuovi Docks, senza traffico e dove sembra di stare in campagna), e non dovevo fare altro che scrivere un testo che la loro Casa della Poesia avrebbe poi pubblicato nelle proprie edizioni.
A dirla così, sembra una situazione ideale e privilegiata. In pratica, la vissi come una sorta di galera per la sua estraneità al mio quotidiano, e perché tutta la situazione mi appariva falsa e forzata. Ogni giorno che mi mettevo a tavolino per lavorare, provavo una vera e propria nausea nei confronti della scrittura e dovevo smettere. Iniziavo così le mie pratiche di meditazione che, come in un ritiro, sarebbero durate tutta la giornata. Alla fine di due mesi capii che ciò che in passato aveva inquinato la mia scrittura era il desiderio di riconoscimento e di successo e scrissi questo breve Frisbee: “Ho la quasi certezza di essere stata una foca in un circo in una precedente incarnazione. Andavo matta per il pesce e gli applausi. Andavo matta per il pesce e gli applausi? Bene, in questa vita ho imparato a farne a meno”.
Ma ho dovuto scrivere un secondo libro in prosa, Le due sponde, prima di poter dire con convinzione e certezza, ora (dicembre 2006), che sento di essermi liberata del desiderio e del bisogno di scrivere e che vivo questa “novità” come un’assoluta liberazione!
Ma, come ho cercato di spiegare, questa trasformazione è passata attraverso diverse fasi, anche molto dolorose e ci ho impiegato venti anni. Venti anni di duro lavoro “in miniera” da parte mia, con preghiere, ritiri e lunghe meditazioni quotidiane. Certo non con la bacchetta magica.
Nel capitolo su Bruno Munari, discutete spesso sulla sua “curiosità” quale molla indispensabile dietro tutta la sua opera di design. Quella di Munari appare dunque come una curiosità “pura e pulita”, che riguarda sempre le forme degli oggetti o delle associazioni poetiche tra le stesse. Ma c’è anche una curiosità inquinata, più “morbosa” direi, più ossessiva, che non ti lascia mai in pace e ti fa sempre essere altrove con la mente. Bene. Anche della curiosità sono riuscita a liberarmi completamente, ma so che il dirlo verrebbe subito frainteso quasi da tutti.
Nel capitolo su Kar Fung Wu-Santaro, insegnante di qi gong, scrivi che “Nella tradizione classica cinese un ‘letterato’ è il ‘custode della memoria’”. Verissimo, ma vorrei togliere un altro strato alla cipolla, raccontandoti questa esperienza personale.
Esoterico biliardo può essere considerato un libro di memoria. Come ho appena scritto, ci ho messo più di dieci anni a farlo. Prima di mettere “nero su bianco” ricordavo perfettamente tutte le date nelle quali si erano verificati i diversi episodi importanti di questa mia vita. Dopo averlo scritto, le ho dimenticate tutte. Come dire che il letterato è un custode di memoria finché non ha potuto liberarsene, passandola ad altri. Potremo allora azzardare che, prima la memoria gli pesava come una responsabilità, e poi è riuscito a viverla più impersonalmente?
Perché appunto, questo dell’impersonalità, del viversi in maniera più impersonale (di prima) è un aspetto fondamentale del cammino spirituale che corrisponde a quella liberazione da se stessi (quale definizione del Nirvana) di cui parla Taiten Guareschi nel capitolo che lo riguarda.
Cinque o sei anni fa, un giorno in meditazione, ebbi la percezione fisica di aver “sgomberato” un corridoio che dal terz’occhio nel mezzo della fronte porta alla pineale al centro del cervello. “Sgomberato” è il solo verbo che mi sembrasse corretto per ciò che provavo: come se mi fossi liberata di un ammasso di mobili accatastati gli uni sugli altri in cantina (forse “solaio” è più corretto, dato che sto parlando della testa).
Sul momento non riuscii a interpretare questa sensazione. Solo un anno più tardi, mentre ero al cinema con un’amica che di colpo era scoppiata a piangere, avendogliene io chiesta la ragione, lei mi rispose: “Il film mi ricorda il mio passato”. La parola “passato” mi colpì come un pugno e subito lo associai ai mobili accatastati e al loro “sgombero”. Meditare, praticare tutti quegli anni mi era anche servito a liberarmi del passato, del peso del passato o comunque a viverlo più impersonalmente, essendomi liberata della fissazione che ognuno ha nei confronti di se stesso.
Ma vedi, anche questo concetto può essere veramente compreso solo da chi ne ha fatto l’esperienza. E viene frainteso da tutti gli altri. Tu prova a dire a qualcuno: “Mi sono liberato del passato”. Indignato, quel qualcuno ti giudicherebbe un barbaro senza cuore e potrebbe anche toglierti la sua amicizia.
“Gom” tibetano per “meditare”, letteralmente vuol dire “fare esperienza”. Da quanto ho capito, in meditazione, mentre la vita passata ti scorre davanti agli occhi come in una moviola, riesci finalmente a decifrare e a dare il giusto nome a tutte quelle emozioni che ti avevano sopraffatto mentre, trafelata e con la lingua fuori, rincorrevi la vita tentando di non fartela sfuggire di mano. “Vita” che va sempre troppo in fretta perché uno riesca a starle dietro. L’ordine e questa inedita consapevolezza delle proprie passate e caotiche emozioni rende più liberi e leggeri.
Ti cito dal capitolo su Elizabeth Bing: “Credo fermamente che raccontare un’esperienza significhi viverla pienamente, e che non viviamo davvero ciò che non riusciamo a raccontare”.
Da ciò che ho appena scritto, risulta che scrivere possa essere considerato come un primo passo verso il meditare?
Un ultimo accenno a spazio e tempo. La sensazione di “liberazione” alla quale ho accennato diverse volte può anche venire descritta come una sensazione di spazio interiore che si amplia all’infinito, con flessibilità e naturalezza, mentre prima, a volte, ci si poteva sentire quasi senza fiato e soffocati. Credo che questa differenza dipenda dall’aver abbassato le pretese e la petulanza dell’Ego.
Sempre durante una seduta di meditazione, per pochi attimi, e per una decina di volte in vent’anni, ho vissuto, in diverse forme, un assoluto sconfinamento temporale che, ad esempio, mi riportava di colpo ai miei cinque anni. Non è che ricordassi un momento particolare di me che avevo cinque anni, semplicemente tornavo lì, avevo di nuovo cinque anni, scavalcando in un sol balzo (con degli stivali delle Sette Leghe), tutti quegli anni che mi separavano dai cinque anni di allora. Queste esperienze di pochi secondi ti regalano però un senso di meraviglia e di devozione infiniti e ti fanno pensare di aver “assaggiato” un attimo di eternità. Eternità, ovvero “assenza di tempo”.
Secondo Einstein e la sua teoria della relatività, è la massa (la materia) a essere assoggettata alla legge del tempo.
La mente (definita dai tibetani) “chiara limpida e senza forma”, non è materia, e come tale può sconfinare dalla linearità del tempo.
Ecco. In definitiva, è come se tu abbia vissuto i Maestri in un modo e io in un altro, in maniera diversa. Dunque, è solo per questa ragione che non me la sento di fingere e di parlare del tuo libro – che trovo splendido – come se fossimo compagni di strada.
Lo siamo, lo siamo stati per quanto riguarda la scrittura, da quando negli anni Settanta, tu ancora liceale venisti a trovare Spatola e me che facevamo la rivista di poesia Tam Tam a Mulino di Bazzano. Non ricordo se quella prima volta fosti solo o ci fosse anche Giorgio Messori. Ricordo che comunque siete stati da noi anche assieme, e con Daniele Benati. Ci siamo poi rivisti a Bologna, quando frequentavi l’università e condividevi un appartamento con Aldo Costa. Ci eravamo venuti con Corrado? Poi c’è sempre stata la tua generosità nei miei confronti: i tuoi inviti alle letture di poesia, a Parma per Di versi in versi, all’università di Ginevra e a Fidenza con Taiten Guareschi. Hai voluto che presentassi un tuo libro alla Mondadori qui a Milano e mi hai fatto collaborare all’Unità. Per tutto ciò io ti sono profondamente grata e l’attrazione che abbiamo da sempre, entrambi, per i giochi di parole e la magia della sincronicità ha agito da validissimo collante nella nostra amicizia e complicità anche se non ci siamo mai visti più di una volta all’anno o ogni due. Tu sei comunque, per me, un solido punto di riferimento.
Ma so che la scrittura è ancora una ragione di vita per te, che non vi hai rinunciato e non saresti disposto a farlo. Questo è ciò che ora ci rende diversi e che mi impedisce di scrivere il testo che mi hai chiesto. Ti prego di scusarmi. E io ti invio i miei più affettuosi auguri per il nuovo anno e la nuova, “felice” uscita di Porte senza porta, tua Giulia.

NOTE
  1. il testo si può leggere anche sul blog di Beppe.🡅

30 COMMENTS

  1. Non credo nello Zen, nel distacco dalle passioni e che la rinuncia sia un valore. Chissà perché si dà sempre per scontato che quello religioso sia il più grande messaggio morale possibile.

  2. scusa Roberta, però mi sa che in questo caso tu corra un po’ troppo e così sconti il valore, saldi e ribassi, di un percorso che è tutt’altro che meramente (e solamente) religioso. effeffe

  3. Giulia Niccolai è da anni monaca di rito tibetano, rappresentante in Italia del Dalai Lama, non c’entra con lo Zen (che è stato elaborato in Giappone).

  4. @roberta: ehh…chissà perché?
    (per quanto chiamare “morale” il messaggio religioso sia già impoverirlo o mancarlo)

  5. (una precisazione: Giulia Niccolai è monaca “tibetana”, e rappresentante in Italia del Dalai Lama (nulla a che fare con lo Zen, elaborato in Giappone). Giulia Niccolai, dopo anni di appendistato e di ritiri, continua a a scrivere e leggere poesie (e questa, lo confesso, è la cosa che mi commuove di più)

  6. Giulia ripete varie olte che corre il rischio di essere “fraintesa”, e con ragione; il buddhismo non è una religione, o almeno non è solo una religione, è una pratica di vita, un’esperienza anche lunga e faticosa che si fa o si prova a fare, senza cercare né volere indottrinare alcuno, per “liberarsi” e “liberare” intorno. In questo senso la lettera mi sembra pienamente coerente e limpida anche nel rifiuto affettuoso.

  7. Il mio giudizio, infatti, non è sulla persona né sulla sua opera omnia. Mi ha solo colpito la posizione di rinuncia contenuta in questa lettera, che decidete di pubblicare in un momento in cui la popolazione italiana è accusata dal mondo di essere poco reattiva.
    Lo Zen è citato più volte nel testo. Es.: “Tutto ciò che di bello, autentico e mai banale ha rappresentato lo scrivere, il mondo degli scrittori, l’intelligenza, la comprensione della vita… Ecco. Finché ci nutriamo di tale illusione, ci crogioliamo in tale compiacimento, abbiamo una tale ammirazione per loro e una tale aspirazione e imitarli, non potremo mai capire il vero Zen.”
    Ma a me non interessa capirlo.

  8. eh sì, quelle frasi sono dirette a me (implicato e coinvolto dalla zen, ma anche dallo scrivere, che spesso è agli antipodi). il tuo “a me non interessa capirlo”, cara roberta, lo capisco molto bene (non è un gioco di parole). Parli di te, dici una cosa di te quasi con urgenza, e a me questo sembra molto importante. Sei a un millimetro dal sentirtene coinvolta (da ciò che dici che non ti interessa) perché la motivazione (lo dico per esperienza) è la stessa… e qui mi fermo, scusandomi dell’invadenza.
    (Ogni volta che esce qualcosa che mi riguarda su NI, mi propongo di leggere con distacco i commenti eventuali senza intervenire, intervenire al massimo dopo 24 ore; mai una volta che riesca a mantenere il proposito :-)).
    Ma ho preso qui la parola per riportare una frase, col suo consenso, che mi è appena pervenuta da Giulia Niccolai, questa (vale come suo misterioso commento, io ne sono solo messaggero):
    “Ha sempre ragione Max Jakob: chi è all’avanguardia sta seduto su una sedia scomoda e aspetta gli altri”.

  9. Preferisco il bello, l’autentico e mai banale, l’intelligenza, la comprensione della vita, l’aspirazione alla conoscenza (e anche contro la curiositas viene portato un affondo), il desiderio d’imitarli (i grandi scrittori, non gli epigoni degli epigoni)…
    Non sarei intervenuta, perché abitualmente non faccio commenti, lasciando agli altri le loro legittime opinioni. Ma sono stata recentemente accusata io di disincentivare alla scrittura i giovani scriventi: accusa che respingo in toto.
    Mi pare che qui invece certe parole si dicano chiaramente. Ecco non accusatemi di esortazioni che hanno fatto altri.
    Mi pare che qui le cose si dicano a chiare lettere

  10. se contaminazione c’è stata, ben vengano questi corto-circuiti. ben vengano anche le tue osservazioni, Roberta. detto questo non credo che nell’altro post, Alcor ti abbia tacciato di disfattismo, ma contestualizzato, a ragione o a torto, alcune tue tesi contenute nell’articolo, tesi non abbastanza problematizzate. A mio parere le parole contano molto, e più le si usano più si consumano, perdono lucentezza, come la parola, quella sì assai religiosa, casta.
    effeffe

  11. Grazie a Nazione Indiana – e agli autori dei post – per aver pubblicato stralci di scrittura di Giulia Niccolai che reputo di una purezza incontestabile.

  12. Saluto tutti, visto che non sono mai intervenuta su NI, e se mi permettete, vorrei iniziare con due domande, a me per prima: il Buddhismo è una religione? Cosa significa il termine religione?

    Il rifiuto di Roberta nei confronti del concetto di rinuncia credo di conoscerlo, direttamente e indirettamente. È un rifiuto che a mio parere si incastona in modo preciso nella nostra cultura e tradizione, e da essa stessa è giustificato. Credo abbia molto a che fare con la nostra idea di sofferenza e con la nostra ansia di identità. E… con la religione, sì, :-) che ha (noi consenzienti o recalcitranti) in-formato la nostra cultura e il nostro modo di percepire, rappresentare e ragionare.

    Tutta la lettera di Giulia Niccolai, invece, si articola in un’altra dimensione, ondeggiante tra confidenza e ascolto, in misura tanto equilibrata da poter essere vicina, sincera e “severa”. Questo già in sé, lo considero un insegnamento solenne. Tanto più perché indiretto. Confidare e ascoltare, ascoltare e confidare, citare l’altro puntualmente (attenzione e dedizione) e rispondere con una confidenza (non giudicarlo parlando di differenze), citarlo e rispondergli con una domanda sui propri dubbi, citarlo e ricordare un vissuto (la cura del condiviso), citarlo mettendoglisi virtualmente accanto con il suo libro in mano e con mite fermezza.

    Mi preme molto aggiungere che un rifiuto come quello motivato con questa lettera non è una “mancanza di reazione”, ma un esercizio di acuta e lucida osservazione seguito da una coerente non-azione. È una delle reazioni più difficili che possiamo imparare ad avere. Mi chiedo, non troppo provocatoriamente, se in questo momento, in Italia, non ci sarebbe bisogno di molta più rinuncia e di molto più coraggio di rifiutare/si di quanto immaginiamo, per darci una ripulita da una sgominante e sgomitante “dittatura della se-duzione”. E nel gesto di Giulia Niccolai trovo un’impeccabile coerenza (una “purezza incontestabile” come scrive “milka”), altra qualità particolarmente reietta di questi tempi.

    Mi trovo particolarmente d’accordo con “viola” quando rileva la consapevolezza di Giulia circa il rischio di essere fraintesa. Il rischio c’è e si fonda sulla stessa questione dichiaratasi con la prima reazione di Roberta. Mi piace pensare che da parte di Beppe e Giulia sia stata accettata la potenza della possibile ambiguità come spunto per recuperare un ascolto meno automatizzato del significato delle parole, specie quando le parole sono traduzioni… e da una lingua che considera il suono come elemento iniziale iniziatico e originario.

    
Infine, ripeto volentieri quello che ho scritto a Beppe per ringraziarlo del suo post, che ritrovo qui con grande piacere: sono intimamente grata per la pubblicazione della lettera e, dopo il primo imbarazzo nel leggere parole che hanno tutta l’aura di parole private, ho pensato che il loro messaggio sia particolarmente adatto a fluttuare fecondo nella rete. E che per chi, come me, tiene Il libro dei maestri pronto alla (ri)consultazione, come un talismano, stampare questa lettera e inserirla tra le sue pagine è come avere aggiunto una molto speciale postfazione.
    Grazie
    laura marcolini

  13. Che bella Giulia Niccolai! …la sua voce…le sue parole.. Sorella di Vajra, sicuramente, anche se non ci siamo mai incontrati (dopo un’iniziazione che non sia solo un permesso di pratica, nella tradizione Mahayana si diventa fratelli e sorelle di Vajra). Però penso che Beppe non abbia bisogno di ricorrere alla Rinuncia(dello scrivere e dello “scibile”). Penso che scrivere sia…il suo/nostro “Dharma”. (e non Karma, proprio Dharma!) Il Dharma è come l’Oceano, …infinito, vasto… e non basta saper nuotare ed avere empatia con l’acqua! Se attraverso l’Oceano a nuoto, affogo. E allora è meglio predisporre una barca, possibilmente a vela… La mia barca, in questo attimo, si chiama Dzogchen, una disciplina antichissima, che risale all’epoca del Bon(in Tibet), e che proclama, senza mezzi termini, che “..non esiste nulla a cui rinunciare, in quanto non esiste nulla a cui attaccarsi.. L’unica cosa che ci è dato di fare è… l’osservare la nostra autentica natura(primordiale), il nostro “Rigpa”, senza bisogno di modificare nulla…perchè non c’è nulla da modificare.” E questo si scontra con l’insegnamento Mahayana, non c’è dubbio, e forse è meglio così, caro Beppe, perchè io non voglio assolutamente rinunciare al tuo… “particolare”!
    “..La sfumatura, il particolare, solo il particolare: tutto il resto è letteratura!”
    Proprio come particolari sono le scuole del buddismo tibetano, ..Ghelupa, Nyingmapa, Sakyapa e Kagyupa, incredibilmente diverse eppure coesistenti…
    E a me, che sono privo di esistenza inerente, e che quindi non esisto, ora che ho preso il Libeccio(che da noi, in Emilia, si chiama Garbino), chi mi ferma più?… Ma la scrittura, naturalmente! ..Stavo procedendo spedito, macinando miglio su miglio, quando ho avvistato il veliero di Sebaste, e mi sono fermato: in fondo l’ancora serve anche per questo, ed ogni tanto bisogna usarla. Magari, salendo a bordo, ci trovo anche Giulia Niccolai, che nel frattempo, rileggendo “Il libro dei maestri-Porte senza porta rewind” e leggendo anche “Il Demone e il Dalai Lama” (di Raimondo Bultrini, Baldini Castoldi Dalai editore), ha cambiato idea e si è… “imbarcata”! Perchè -e sono parole del Dalai Lama, che è il mio Maestro- “persino l’Oceano può essere contaminato, prosciugato..” Quindi bisogna sbrigarsi. E prendere Rifugio…
    (nel Buddismo si prende rifugio nel Buddha, nel Dharma e nella sacra comunità..)…E fare attenzione…a non sbagliare direzione..
    Quindi meglio partire, imbarcarsi con Sebaste, o, a seconda dei casi, seguire il suo Veliero con la propria imbarcazione…fino al prossimo approdo, al prossimo libro/Porto Franco. Intorno a noi mare, cielo e spazio. E le parole di Giulia Niccolai…che prende il sole sul Ponte del Veliero… OmManiPadmeHum.

  14. P.S. – In realtà non è che rifiuti il buddismo. Non avrebbe senso un rifiuto radicale a priori, un non volerne sapere niente. Ovviamente me ne sono interessata in passato. E’ che non ho trovato risposte nelle religioni. Scusate il mio eccesso di aggressività iniziale. Non ce l’ho con voi.

  15. quoto roberta salardi, trovo esteticamente brutte le pratiche tibetane, bruttissime in italia, credo che gran parte dei nostri mali, o almeno dei miei, derivino dal fatto che attualmente le tensioni verso l’assoluto e il trascendemte vengono incanalate e deformate in religioni, confessioni, pratiche, discipline convenzionali , lessi il libro di sebaste e mi piacque, soprattutto perchè mi fece scoprire levinas, se queste mie opinioni non coincidono con quelle dei presenti non saprei se qualcuno ne ha colpa

  16. interessante. (mi) chiedo: da quale “punto di vista” (espressione tediosissima), diciamo di quale origine del proprio sguardo, o formazione di sé, ecc. ecc., uno può trovare brutti dei rituali religiosi, soprattutto se di altre civiltà? E’ già arduo per quegli ambiti che pure dipenderebbero da valorizzazioni estetiche e di gusto (non sono sinonimi). Non è una domanda polemica, è solo uno spunto di riflessione (altri potrebbro fare a partire da qui un seminario di epistemologia o di antropologia culturale). Buddhismo, per me (ma la definizione vale anche per “filosofia”) e religione, e soprattutto per “maestri”, significa arrendersi a qualcosa di più grande del proprio ego e insieme interrogarsi sulla formazione del proprio guardare, del proprio comprendere; NON il capire o apprezzare qualcosa, ma cercare di capire che cosa significa capire (e apprezzare, e vedere).
    un saluto – e grazie infinite alle frasi lievi e acute di laura marcolini e all’incoraggiamento energico, festoso e pensoso insieme di alfredo.

  17. Ci riprovo, perchè alcune parti sono state tagliate..
    Che bella Giulia Niccolai! …la sua voce…le sue parole.. Sorella di Vajra, sicuramente, anche se non ci siamo mai incontrati (dopo un’iniziazione che non sia solo un permesso di pratica, nella tradizione Mahayana si diventa fratelli e sorelle di Vajra). Però penso che Beppe non abbia bisogno di ricorrere alla Rinuncia(dello scrivere e dello “scibile”). Penso che scrivere sia…il suo/nostro “Dharma”. (e non Karma, proprio Dharma!) Il Dharma è come l’Oceano, …infinito, vasto… e non basta saper nuotare ed avere empatia con l’acqua! Se attraverso l’Oceano a nuoto, affogo. E allora è meglio predisporre una barca, possibilmente a vela… -Una volta era “andato in barca” per una donna bellissima, e lei mi disse:”Infinite sono le barche..” …Ecco, penso ancora che quella donna fosse Tara, la madre di tutti i Buddha..- La mia barca, in questo attimo, si chiama Dzogchen, una disciplina antichissima, che risale all’epoca del Bon(in Tibet), e che proclama, senza mezzi termini, che “..non esiste nulla a cui rinunciare, in quanto non esiste nulla a cui attaccarsi.. L’unica cosa che ci è dato di fare è… l’osservare la nostra autentica natura(primordiale), il nostro “Rigpa”, senza bisogno di modificare nulla…perchè non c’è nulla da modificare.” E questo si scontra con l’insegnamento Mahayana, non c’è dubbio, e forse è meglio così, caro Beppe, perchè io non voglio assolutamente rinunciare al tuo… “particolare”!
    “..La sfumatura, il particolare, solo il particolare: tutto il resto è letteratura!”
    Proprio come particolari sono le scuole del buddismo tibetano, ..Ghelupa, Nyingmapa, Sakyapa e Kagyupa, incredibilmente diverse eppure coesistenti…
    E a me, che sono privo di esistenza inerente, e che quindi non esisto, ora che ho preso il Libeccio(che da noi, in Emilia, si chiama Garbino), chi mi ferma più?… Ma la scrittura, naturalmente! ..Stavo procedendo spedito, macinando miglio su miglio, quando ho avvistato il veliero di Sebaste, -fatto di scrittura e di “parole al vento”, proprio come fossero bandierine tibetane- e mi sono fermato: in fondo l’ancora serve anche per questo, ed ogni tanto bisogna usarla. Magari, salendo a bordo, ci trovo anche Giulia Niccolai, che nel frattempo, rileggendo “Il libro dei maestri-Porte senza porta rewind” e leggendo anche “Il Demone e il Dalai Lama” (di Raimondo Bultrini, Baldini Castoldi Dalai editore), ha cambiato idea e si è… “imbarcata”! Perchè -e sono parole del Dalai Lama, che è il mio Maestro- “persino l’Oceano può essere contaminato, prosciugato..” Quindi bisogna sbrigarsi. E prendere Rifugio…
    (nel Buddismo si prende rifugio nel Buddha, nel Dharma e nella sacra comunità..)…E fare attenzione…a non sbagliare direzione.. -..a Milano un falso lama guaritore consigliava ai suoi discepoli di non seguire più il Dalai Lama, reo di essere il responsabile dell’attuale e tremenda situazione del popolo tibetano!!! …E guarda caso proprio a Milano vive questo piccolo e vile uomo ridicolo(che chissà perchè chiamano “Premier”..) che sta portando l’Italia allo sfacelo…-
    Quindi meglio partire, imbarcarsi con Sebaste, o, a seconda dei casi, seguire il suo Veliero con la propria imbarcazione…fino al prossimo approdo, al prossimo libro/Porto Franco. Intorno a noi mare, cielo e spazio. E le parole di Giulia Niccolai…che prende il sole sul Ponte del Veliero… OmManiPadmeHum.

  18. trovo brutti i finti nomi tibetani apposti a quelli italiani, mi fanno pensare ai nomi dei cani, trovo brutta una frase come “chi vuole capire il vero zen”, trovo brutta la rinuncia alle passioni,che esclude di per sé ogni bellezza (è semmai necessario alla bellezza l’attraversamento di quelle passioni), trovo brutta la retorica da iniziati che si associa quasi sempre agli orientalismi, ecc.. trovo più zen di chi ha capito il vero zen un caciocavallo lucano fatto da un contadino lucano, o un buon articolo intellettuale scritto da un buon intellettuale. trovo bella la proba lettura dei libri zen o buddhisti, e credo che un po’ di zen anche nella sua declinazione brutta sarebbe assai salutare e disintissicante per i politici italiani. riguardo alle domande di cui dice sebaste, credo che se le siano poste meglio appunto levinas e forse ancor di più merleau ponty (e che molti se le pongano in forma zen perchè richiede meno sforzo: ma l’ormai bandito sforzo è bello, in senso etico e anche in senso zen)

  19. Peccato che Levinas e Merleau-Ponty non scrivano commenti su un blog. Ringrazio Sebaste di farlo.

  20. non mi sorprende di non essere in disaccordo con sebaste – visto che condivisi anche il suo approccio ai maestri zen nel libro ….
    mmm… casi saluti al passante, visto che mi sa di capire chi è, è un passante diverso dal solito che fa il malizioso…. bene, tutti siamo passanti a pieno titolo, anzi, ahimè siamo soprattutto questo…

  21. “proprio perché la vita è come un’illusione, ha un senso” – grandissima, bravi a pubblicarla, grazie davvero

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017