Marco Ceriani: Memoriré
di Alessandro Baldacci
Circa dieci anni fa Giovanni Raboni introduceva l’anomalia di Marco Ceriani parlandone come di un «Poeta agonico, nel senso strettamente originario del termine, come pochissimi altri in questi anni e su queste scene». Oggi, di fronte al nuovo libro pubblicato da Ceriani (Memoriré, Lavieri, p. 124), in cui si respira (anche se il verbo appare azzardato) il cimento solitario di un eremita e faraonizzatore dell’artificio, questa rarità si configura in modo più palese, tutta scavata all’interno di uno stile ‘inaddomesticabile’, petroso. Memoriré sembra sorretto dall’incitamento del primo Porta a «seminare asfissia». Un programma “pestifero” e pestilenziale, dove la furia o mania sonettistica finisce per rovesciarsi nel suo contrario, spingendo alla soglia della suppurazione la stessa forma sonetto, talmente compressa da risultare il bersaglio, il fantoccio da distruggere, tumulare o esorcizzare, profanando il proprio stesso totem. Quante nature morte è possibile produrre da una forma resa, riscritta e vissuta come ‘forma morta’? Questa potrebbe essere la domanda cruciale, il limite su cui si colloca con la sua ostinazione, con la sua werra, la sua mischia fra le parole, l’agonismo di Ceriani. Un barocco per erinni e pizie, in cui un pensiero violento e letale avoca a sé i poli opposti del rammendo e dello scempio. Si tratta di un lavoro altamente perturbante, bramoso appunto di estenuare, di una forma metrica, la sua (ipoteticamente infinita) agonia. Un continuo far ‘piega’ e piaga di idee, ossessioni, mentre il verso spezza, spiazza il canto e «lega il diluvio all’arca» (p. 36). L’opera-ostrica di Ceriani si sostiene in forza della sua passione claustrofiliaca, grazie alla risolutezza spigolosissima con cui protegge il suo ‘altro interno’, il suo fondamento. Un gioco di scatole cinesi costringe il lettore a resistere in apnea, e lo spinge tantalico verso la perla che non esiste («che non è nel verso» come la Tigre-poesia di Borges). Si produce in questo modo un allontanamento spettrale del testo quanto più si tenta di avvicinarvisi, di possederlo. Si tratta di una poesia di ‘avvolgente repulsione’ con la quale l’autore itera sulla pagina il proprio colpo di dadi, la propria partita a scacchi con una morte-arte che «assottiglia» e «figlia» altra morte-arte. Una volta entrati in Memoriré diviene subito chiaro che il libro non permette uscita, come un sepolcro, una trappola, un pozzo stregato. Ceriani traghetta Mallarmé verso l’a-poesia, imbalsamando forme, trasformando Orfeo in un paraschista: «Morire – per me – sarà un trionfo / se quel giorno il mio pettine d’osso avrò qui accanto / – con il feretro che mi porta via in trionfo – / per ravviarmi in fretta al saluto dell’elianto…» (p. 38). A volte di fronte a questa poesia si ha l’impressione di scontrarsi con un vero e proprio muro (un muro della scrittura, una scrittura che fa muro), quasi si finisse con il pensiero dentro una parete, schiacciati da una intransitività che si serve del concettismo solo come malta, non come meta, prossima piuttosto al nero su nero di Ad Reinhardt.
L’articolo, con il titolo Il programma pestifero di Marco Ceriani, è apparso su «Alias» sabato 29.01.2011.
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Un libro ostico, e proprio per questo affascinante. Per leggerlo mi ci sono voluti un piao di mesi (e per leggerlo una volta sola). Quasi una via crucis. Posso confermare, per esperienza diretta, che Baldacci coglie nel segno: “Memoriré” avvolge e, allo stesso tempo, allontana. La densità linguistica – spumeggiante dall’eremo, parafrasando lo stesso Ceriani – mi ha ricordato quella di Edoardo Cacciatore. Mi incuriosisce, per altro, la volontà, direi esibita senza pudore, di mettersi da parte, di proporre una poesia completamente avulsa dalla poesia tipicamente contemporanea. Quanto, nella condizione della forma di questa “separazione” (di “esiliato” dal “codice”, direi stravolgendo un suo verso, pag 65; oppure di esilio volontario in un codice in disuso), quanto, dicevo, è “maniera” e quanto, invece, è “critica”?
NeGa