Disordine capitalistico e popolo minore. Note sull’amnesia mediatica

[Questo articolo è apparso sul numero 6 di alfabeta2]

di Andrea Inglese

“Il 15 settembre 2008, data del tracollo di Lehman Brothers, sta al fondamentalismo di mercato (ovvero il concetto che i mercati, da soli e liberi da ogni vincolo, possano garantire la crescita e la prosperità economica) come l’abbattimento del muro di Berlino sta alla caduta del comunismo.” Lo scrive un premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, nel suo ultimo lavoro, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera (Einaudi, 2010). Se in quest’affermazione c’è qualcosa di vero, e se noi, come si è spesso detto, siamo una società aperta, allora è divenuto necessario affrontare una discussione collettiva e spregiudicata sulla natura del capitalismo e sulla sua compatibilità con i principi di una società realmente democratica. D’altra parte, abbiamo visto in questi mesi un numero sempre maggiore di persone, pur sprovviste di Nobel per l’economia, testimoniare contro l’introduzione in Europa delle solite ricette neoliberiste (taglio della spesa pubblica, blocco dei salari, flessibilità del lavoro, privatizzazioni). Hanno rotto invisibilità e silenzio i lavoratori clandestini arrampicati sulle gru, gli operai che difendono i loro elementari diritti, gli studenti privati di futuro. Sennonché la risposta delle classi dirigenti a queste voci di dissenso pare bizzarramente riprodurre gli stessi principi di quella dottrina che ha subito nel settembre 2008 una plateale confutazione. La pretesa dei cittadini comuni di partecipare alle decisioni d’interesse generale è ingenua e controproducente, in quanto le questioni ultime, che sono tutte di natura economica, sono per ciò stesso destinate a una gestione oligarchica, di minoranze specializzate.

Ora, che sia Marchionne a vanificare con il ricatto il referendum degli operai di Mirafiori o il capo del governo a decidere che i “veri studenti” sono quelli che non contestano la riforma universitaria, il problema all’ordine del giorno non riguarda neppure più la scelta di un modello economico alternativo al capitalismo egemone degli Usa, ma lo statuto stesso della democrazia, ossia ciò che fino ad oggi viene considerata l’eccezione occidentale.

E in tutto questo, quale il ruolo dei famigerati media pluralisti? Almeno loro, di fronte a una tale crisi di consenso, sono disposti a mettere in discussione il paradigma dominante, esplorando le realtà che così poco quadrano con i teoremi degli esperti? Hanno il coraggio di riformulare le agende dell’attualità, gettando piena luce sulle radici di quella violenza, che le nuove élite politico-finanziarie esercitano in forme più o meno legali sui ceti popolari del loro o di altri paesi? Se consideriamo come in Italia la bancarotta del modello statunitense e dei suoi seguaci europei è stata trattata, ci rendiamo conto che siamo ancora nel regno dell’eufemismo e dell’amnesia. Con un’aggravante tutta nostrana: l’unica minaccia alla democrazia, che la sinistra parlamentare e i media che l’appoggiano sembrano riconoscere, viene da Silvio Berlusconi e dai suoi tentativi di manipolazione della carta costituzionale. Ogni dibattito sulle alternative al libero mercato e alle recenti politiche di austerità europee è rimandato al giorno in cui – data non definibile – il capo dell’attuale governo sarà scomparso dalla scena politica nazionale.

Davide contro Golia

La stampa mondiale aveva dedicato ampio spazio al caso di Muntazar al Zaidi, il giornalista iracheno che lanciò entrambe le sue scarpe contro George Bush, nel corso di una conferenza stampa a Bagdad. Di questo episodio, il mondo dell’informazione aveva ritenuto soprattutto un aspetto: col suo semplice gesto, un giornalista iracheno sconosciuto conquistava una “notorietà planetaria”. Questa notorietà gli è costata l’arresto immediato, le torture e una condanna a tre anni di carcere. Ma è innegabile che Muntazar al Zaidi sia rimasto ormai nella memoria di tutti, come una pubblicità particolarmente accattivante, l’immagine inusuale di una balena spiaggiata o il ritornello di un successo discografico internazionale. Nessuno, però, credo che si ricordi con altrettanta chiarezza il numero dei civili uccisi dall’inizio della guerra in Iraq. Il numero di questi innocenti ammazzati non ha “notorietà planetaria”. Se affianchiamo fonti indipendenti come il progetto Iraq Body Count e fonti riservate come gli Iraq War Logs (i diari sulla guerra irachena prodotti dalle Forze Statunitensi e divulgati da Wikileaks nell’ottobre 2010), si raggiunge una cifra superiore a 122.000 persone (1). Naturalmente, queste cifre vengono contestate da fonti ufficiali dell’esercito statunitense e ciò rende difficile convergere su un dato univoco. In realtà, è la questione stessa a non interessare la stampa generalista, che preferisce concentrarsi sul gesto eclatante di un lanciatore di scarpe e di un presidente degli Stati Uniti abile a schivarle. In questo modo è il significato politico di quel gesto a venire abilmente cancellato, isolandolo dallo sfondo in cui è maturato: il popolo di uomini disarmati, donne, vecchi e bambini trucidati, affinché la più potente democrazia del mondo impiantasse in Iraq un regime democratico, che è oggi stimato uno dei più corrotti del pianeta.

Il popolo di internet ha celebrato Muntazar al Zaidi come un eroe capace di sfidare il potere (il video di Youtube è stato cliccato più di un milione di volte); ha visto qualcosa di eccezionale e sovversivo nel suo lancio di scarpe. Su questo punto ha reagito come la stampa generalista. Ma la realtà è ben diversa: il giornalista iracheno non è stato un Davide in grado di abbattere Golia. Il suo fu piuttosto un gesto patetico, irrisorio, di estrema impotenza politica, e nello stesso tempo un gesto dovuto. Golia se ne tornò a casa in salute, e Davide finì in mano ai carnefici.

Verosimilmente George Bush non sarà mai processato e giudicato per i crimini di guerra di cui è responsabile. Non pagherà mai per quei centoventimila civili uccisi fino ad oggi, conseguenza di una guerra ingiustificabile e per ciò motivata con l’inganno. La pena peggiore in cui avrebbe potuto incorrere si riduce ad una scarpa in faccia che un cittadino iracheno ha tentato un bel giorno di lanciargli. Quanto al cittadino iracheno il prezzo che ha pagato per quell’atto ragionevole di rabbia e sdegno è stato altissimo.

Wall Stret contro Ninja

Tutti si ricordano senza eccessiva difficoltà l’ammontare del piano di salvataggio del sistema finanziario statunitense elaborato da Henry Paulson, ministro del Tesoro del governo Bush, piano poi ereditato dal governo Obama. Si trattava di 700 miliardi di dollari (500 miliardi di euro) che lo Stato federale decise di spendere per sanare le maggiori istituzioni finanziarie (private) del paese, come banche d’affari, casse di risparmio, assicurazioni. (Da allora ad oggi, i costi del risanamento finanziario sono lievitati vertiginosamente.) La stampa ne ha parlato abbondantemente durante la fase più acuta della crisi, quando personaggi e gesta della finanza mondiale sono fuoriusciti dai santuari della pagina economica, per essere trattati addirittura in prima pagina, negli editoriali solitamente riservati all’attualità politica o alla cronaca nera dai risvolti sociologici. In quel caso, gli specialisti di economia hanno abbandonato il tono esoterico delle loro abituali discussioni, per spiegare al popolo ignaro come mai ai piani alti della finanza si stesse verificando un terribile cataclisma e come ciò rendesse necessario mobilitare la buona volontà di tutti i contribuenti, dapprima negli Stati Uniti, e poi in Europa. Naturalmente fin nelle pagine economiche si respirava aria di contrizione e di autocritica nei confronti degli eccessi del capitalismo. Ma l’opinione pubblica non si è dovuta soffermare più di tanto sulla maggiore crisi finanziaria che il capitalismo ha conosciuto dopo il 1929. Appena è stato possibile, l’argomento “crisi finanziaria mondiale” è retrocesso nelle pagine degli specialisti e ha riacquistato quei caratteri esoterici, a cui la propaganda per una “socializzazione delle perdite” aveva momentaneamente rinunciato. Di recente, esso è riapparso, soprattutto negli editoriali della stampa europea, sotto una veste leggermente diversa: austerità, taglio alla spesa pubblica, riforma del mercato del lavoro, privatizzazioni.

La cifra del “dovere” – i 700 miliardi di denaro pubblico scucito negli Stati Uniti a favore delle grandi banche d’affari – è stata quindi interiorizzata un po’ da tutti, anche da noi europei e prima ancora che si parlasse del salvataggio finanziario di Grecia o Irlanda. Molto meno note sono invece le cifre delle famiglie statunitensi che hanno subito il pignoramento della loro abitazione, venendo più o meno legalmente sbattute in mezzo a una strada. Si è molto parlato dei subprime, cercando di far comprendere a gente normale e sana di mente come i geni della finanza abbiano deciso di costruire titoli ad altissimo rendimento, basati su di un onirico sistema di frazionamento e ricompattamento di milioni di mutui a rischio, concessi a delle famiglie di provata insolvibilità. Disponiamo, però, di pochissime informazioni su quella che assomiglia ad una catastrofe sociale di larga scala, in grado di spopolare quartieri interi di città come Cleveland, Las Vegas, Chicago, Phoenix. Come per il numero delle vittime civili in Iraq, anche qui le cifre non sono facilmente reperibili né le fonti unanimi. E non esiste ancora un USA Foreclosure Count.

Siamo di fronte a uno scenario degno dei film distopici del cinema indipendente americano degli anni Settanta: i più ricchi della nazione, operatori finanziari, grandi azionisti, manager, amministratori di banche e consulenti del governo si arricchiscono sulla pelle di una working class atomizzata, priva di lavoro e di risparmi, ingannata dal duplice miraggio di un credito bancario “democratico” e di una crescita inarrestabile del valore immobiliare. Un osceno banchetto di speculatori ricchissimi sulla pelle delle persone più povere e meno scolarizzate del paese. Legioni di famiglie costrette a rifinanziare due o tre volte il proprio mutuo, ossia a riacquistare a un prezzo sempre maggiore la propria abitazione. In concreto, i tassi elevatissimi – intorno al 16% – dei mutui per famiglie senza reddito fisso costituivano il rendimento di titoli inseriti nei portafogli di investitori statunitensi e di altri paesi, permettendo così a tutta la catena d’intermediazione immobiliare e bancaria di ingrassare con commissioni sempre più laute.

Tutta questa faccenda non ha suscitato particolare indignazione nei paesi democratici europei, che nei fatti hanno sempre sostenuto la politica estera degli Stati Uniti, considerati come garante mondiale dei valori democratici, ma anche come il più autorevole modello sociale, politico ed economico di riferimento di tutto il mondo occidentale. Dal 1989 in poi, infatti, la critica politica al modello statunitense è stata ribattezzata “antiamericanismo” e come tale è un lusso che si possono permettere solo minoranze anarchiche o di estrema destra extraparlamentari. In realtà, da tempo gli Stati Uniti non possono più presentarsi come il paradiso della classe media, dal momento che 44 milioni di americani vivono sotto la soglia della povertà e il loro numero è in crescita costante (dati del Census Bureau, il nostro Istat, nel 2010).

Se combiniamo questo dato con la cifra dei pignoramenti dallo scoppio della crisi, nel 2008, ciò che è emerge è una situazione di larvata guerra civile. Nel numero di marzo 2010, Alternatives économiques, basandosi su fonti statunitensi (il sito di Moody’s Economy), riportava i seguenti dati, tra pignoramenti di case e appartamenti: 1,7 milioni nel 2008, 2 milioni nel 2009 e prevedeva 2,4 milioni per il 2010. Nonostante gli sforzi del governo Obama per venire in aiuto ai mutuatari insolventi, la campagna di pignoramento non ha subito pause d’arresto ed è condotta a spron battuto proprio da quelle banche d’affari come JP Morgan Chase o Bank of America, salvate dagli interventi dello Stato federale. Si tratta di una guerra civile tra una cerchia ristretta di ricchi e una base sempre più ampia di poveri: i colletti bianchi di Wall Strett contro i cosiddetti Ninja (No Income No Job or Asset), ossia cittadini senza alcun tipo di garanzia sociale e reddito sicuro. Non solo, quindi, dei Golia gonfiati con i soldi dei contribuenti si avventano contro dei David disarmati di salario e di strumenti culturali, ma nella lotta stessa Golia, nonostante la soverchiante potenza nei confronti dell’avversario, è disposto anche a violare le più elementari regole dello scontro. Sulle procedure di pignoramento gravano i sospetti delle autorità federali, a cui sono state segnalate violazioni e frodi degli istituti finanziari.

Autodifesa del popolo minore

Quale morale trarre da questi odierni scontri tra deboli e forti nella nostra civiltà democratica, ritenuta superiore a tutte le altre, perché appunto l’unica in grado di garantire prosperità diffusa e diritti civili al popolo sovrano? I perdenti, in queste guerre, sono considerati quantité négligeable, frazione di popolo nominalmente sovrano, ma nei fatti irrilevante. Che siano i civili iracheni massacrati dalle truppe di liberazione statunitensi, le famiglie spossessate delle loro abitazioni, o le fasce di reddito più deboli che, anche in Europa, stanno pagando le politiche di austerità, non vi è per loro particolare attenzione da parte del mondo della libera informazione. Una rivoluzione dei valori è ormai definitivamente compiuta: il quotidiano “La Stampa” può così titolare un articolo d’attualità politica del 15/10/2010: Negli USA boom di pignoramenti. Wall Street trema. Tralasciando il paradosso per cui i pignoramenti sono fatti in nome di Wall Street, ciò che colpisce è il trasferimento dell’emozione (lo spavento) subìta dalle vittime dell’azione oggetto d’interesse giornalistico ai responsabili di quella stessa azione: le banche d’affari si spaventano di fronte al disastro che hanno generato le loro procedure di pignoramento. I giornalisti sollecitano l’empatia dei lettori nei confronti dei carnefici, non più delle vittime: i milioni di famiglie messe sulla strada. Esse sono evocate a margine della vicenda, e godono di uno statuto ambiguo negli eventi della crisi: né del tutto colpevoli né del tutto innocenti, quasi si desse per scontato una loro costitutiva minorità civile e politica.

Tale minorità è la stessa che oggi i governi europei, sia di destra che di sinistra, attribuiscono al loro elettorato, nel momento in cui varano i diversi piani di tagli alla spesa pubblica, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita di una larga fetta di cittadini. Tito Boeri scriveva a dicembre su “Repubblica”: “In tutti i paesi avanzati è stato il lavoro poco qualificato a pagare il conto della Grande Recessione”. E dopo il lavoro poco qualificato, lo stanno pagando i più giovani, che usufruiscono dell’istruzione pubblica in attesa di entrare nel mondo del lavoro. Ma la Grande Recessione non è riconducibile a fatali e impersonali forze della natura. La deregulation dei mercati finanziari è stata conseguenza di una precisa scelta politica. E i suoi esiti disastrosi hanno a loro volta dei responsabili. Gli esponenti della tecno-finanza – coloro che dal punto di vista epistemologico (detenevano i modelli interpretativi più efficaci), sociale (uscivano dalle scuole migliori) e ideologico (sostenitori del liberalismo occidentale) erano i più accreditati a far prosperare la democrazia, realizzando la felicità per il maggior numero – hanno lanciato l’intero sistema contro il muro, lo hanno sfasciato per bene, lasciando a terra morti e feriti, e sono ripartiti in Ferrari. E i testimoni di tutta la vicenda, testimoni deboli da un punto di vista epistemologico, sociale e ideologico, eppure non completamente decerebrati, come i lavoratori licenziati, gli impiegati con i salari bloccati, i precari del terziario che non verranno mai assunti, gli studenti dell’università divenuta troppo costosa o massacrata dai tagli, i migranti irregolari che lavorano in nero e rischiano l’espulsione ogni giorno, ebbene tutti questi idioti qualunque, invece di starsene a casa in un ubbidiente e narcotizzato lamento, ogni tanto escono per strada moderatamente furibondi, e chiedono democraticamente, dal momento che le radici della sovranità politica affondano nei loro corpi senzienti, chiedono che chi ha sbagliato paghi, che non siano i loro salari a fare da premio assicurativo per il grande autoveicolo guidato dai tecno-finanzieri, con il consenso della classe politica, ed ora finito in pezzi.

Può sembrare strano a tutti coloro che predicavano la fine o l’assenza della politica, l’esaurimento dei conflitti sociali, il pacifico e collettivo sprofondamento nei poco reali meandri dello spettacolo, può sembrare strano, dicevo, la ricomparsa improvvisa di un popolo che, anche se considerato minore dai rappresentanti politici e dai professionisti dell’informazione, si difende, e si difende nell’unico e ultimo modo che gli è concesso: esercitando direttamente la sua sovranità, ossia assumendosi il rischio di manifestare pubblicamente il proprio dissenso. In realtà, questa autodifesa popolare è stata per anni annunciata da politologi e opinionisti di ogni colore, nel momento in cui analizzavano finemente la crisi della rappresentanza democratica su entrambe le sponde dell’Atlantico. I rappresentanti del popolo mentono, sono pilotati da lobby miliardarie, vivono eterni conflitti d’interesse, si appoggiano a potenti media televisivi privati o di stato, tradiscono nei fatti il mandato elettorale, e in molti casi, anche in Europa, diffondono abilmente nelle istituzioni la logica della guerra civile, come Sarkozy in Francia o il binomio Lega-Berlusconi in Italia. Tutto il discorso sulla sicurezza e l’ordine pubblico diventa allora propagandato in quest’ottica: lo Stato deve armarsi contro una parte dei suoi cittadini considerati di volta in volta dei nemici pericolosi. Inutile dire che i cittadini pericolosi sono innanzitutto quelli che hanno buone ragioni di essere, a vario titolo, scontenti dello Stato.

Le contestazioni di lavoratori e studenti che si sono viste in Grecia, Spagna, Gran Bretagna, Francia e Italia sono innanzitutto forme di autodifesa popolare nei confronti dei governi che, proprio in seguito alla crisi finanziaria statunitense, hanno deciso di tagliare la spesa pubblica, rimettendo di nuovo tutto nelle mani degli esperti e considerando, ancora una volta, non pertinenti le reazioni di coloro che saranno più interessati, nel concreto, da questi tagli. Questa autodifesa, per altro, diviene nelle piazze vera e propria autodifesa fisica nei confronti di uno Stato che tollera sempre meno le forme spontanee e non rituali di contestazione, che regolamenta in modo sempre più rigido il diritto di sciopero, che mostra i muscoli ad ogni occasione, con lo scopo di spaventare le nuove generazioni di disubbidienti. Non ci si può scandalizzare, allora, della violenza che scoppia periodicamente in queste occasioni. Essa è innanzitutto frutto di uno spazio di espressione compresso all’estremo, materialmente e simbolicamente, per quella parte di popolo considerata minore. Ciò che si può auspicare, in una tale situazione, è che la rabbia si trasformi in strumento consapevole e politico per una lotta di lunga durata, acquisendo le forme riconoscibili della disubbidienza civile.


*

(1)  Giovanni Andriolo, Iraq: la guerra sui numeri delle vittime (05/11/2010)

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=35598

7 COMMENTS

  1. Grazie Marco per il link a “State of the Union”. Non conoscevo Linh Dinh, grande lavoro!!!

  2. grazie a te per l’articolo, Andrea. Una messa a fuoco delle questioni necessarissima.

    Linh Dinh è un autore vietnamita che è passato, come rifugiato politico, attraverso tante (brutte) esperienze. Ha avuto un periodo di soggiorno anche in Italia (dove ha imparato la nostra lingua). Ha una sensibilità assolutamente/frontalmente ‘politica’ anche nei testi che scrive o promuove. E questo suo blog è decisamente impressionante… E per certi aspetti quasi indispensabile, per capire sempre meglio in che disastro si è cacciato l’occidente (e chi sta facendo le spese della ricchezza smisurata di pochissimi)…

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.