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La conquista della Luna

Aleksej Meshkov (Mosca, 1966). Da diversi anni in Italia, è musicista. È autore del thriller politico Il cane Iodok, romanzo che sarà pubblicato in Francia nel 2011.

di Aleksej Meshkov

Egregio Flotow,

ho letto con vivo interesse il suo editoriale di mercoledì sulle colonne de “l’Univers”.
“In società come la nostra”, lei scrive, “così fragili e prive di certezze, la paura può porre le basi di un nuovo fondamentalismo e aggregare le masse allo scopo di difendere la comune fortezza.”
Si tratta di argomenti gravi, che mi piacerebbe discutere con lei durante il prossimo incontro organizzato dai colleghi di Marmor. In questa lettera intanto vorrei rispondere a un quesito formulato nel suo editoriale:
“Cosa sta accadendo nei pianeti minori e nei satelliti pressoché sconosciuti delle nostre galassie?”
Lei sa che la mia regione è spesso trascurata dai grandi quotidiani e che nelle colonne de “l’Univers” è citata solo annualmente. Ebbene, nonostante si tratti di un piccolissimo satellite, esso merita una certa attenzione. Se ha letto il mio racconto, “L’impresario delle scimmie”, a proposito della tremenda regressione che ha cancellato la civiltà di Nawaar, sarà al corrente dei pericoli che ci minacciano. Il destino dei nostri vicini potrebbe toccare presto anche a noi.
Caro collega, il nostro, nonostante le numerose industrie che minacciano fiumi e foreste, resta un cielo attraversato da nuvole bianchissime, da pesci e da alberi volanti fra i più belli dell’intera galassia. Per questo, forse, nonostante la fatale recessione, c’è chi riesce a far finta di nulla continuando a raccontare favolette.
Esagererei se parlassi di mutazione scimmiesca. La regressione del nostro satellite, tuttavia, è innegabile. Sono ormai tre anni che un uomo-pappagallo siede sullo scranno più alto del nostro parlamento e che un esercito di rane saltatrici lo circonda venerandolo e applaudendo ogni sua apparizione.
Chi non l’ha visto con i propri occhi, non può immaginare ciò che è accaduto a Gulbadan con l’arrivo del focoso Papageno. Nessuno crederebbe allo straordinario dinamismo impresso dal suo carillon alla vita della nostra capitale.
I colombi del Pantheon hanno cominciato a girare su se stessi simili a trottole impazzite e l’elefantino del Bernini, che di giorno sembra aver finalmente cessato di volgere le terga ai Domenicani, tutte le sere, spentosi il suono del melodioso quaternio, torna alla posizione di partenza. Le giostre girano al contrario e corre voce che in città stiano per tornare gli Etruschi.
Per ora siamo alla farsa, ma in questi anni la democrazia con i suoi tabù si è dimostrata pura ideologia. La sovranità popolare è stata calpestata e, da tempo, la trasmissione nell’etere di melodie per l’ammaestramento delle masse è sufficiente a garantire il potere di qualsiasi demagogo.
Ecco infatti che, per ridare fiducia agli abitanti del pianeta e tranquillizzarli della disponibilità di tutto, gli uomini-pappagallo stanno costruendo culle gigantesche piene di pubblicità. Nei prossimi giorni, a Piazza Navona e a Trinità dei Monti, i nostri cittadini potranno dondolarsi serenamente, seguendo il moto delle acque e delle onde televisive.
La cosa più triste, egregio collega, è che non c’è uomo politico in grado d’interrompere il funesto fenomeno. Se il piccolo uccellatore continua a suonare il suo carillon, i suoi avversari, incapaci di elaborare una moderna visione della società e di coinvolgere il popolo di Gubaldan nella sua rinascita, non fanno che gareggiare fra loro per la costruzione dell’obelisco più alto. Ritengono infatti che sarà la punta piramidale dei loro monumenti ad attrarre sulla Terra il Toro Cosmico, nel cui sangue riprenderanno vita e splendore i parlamentari della loro specie
Circola voce che nessuna razza, fra quelle ostili all’uomo-pappagallo, sarebbe riuscita sino ad oggi a proporre un nuovo condottiero. Si attende pertanto il sacrificio del gigantesco bovino per riportare in vita un eroe del passato.
Il favorito, considerata l’altezza degli obelischi eretti, sembrerebbe l’etrusco Tarquinio Prisco, seguito da Numa Pompilio, Servio Tullio e da altri quattro valorosi pronti a guidare con il loro avanguardismo la rinascita del Paese.
Comprenderà allora la mia preoccupazione per il triste corso della storia e il fatale destino della nostra civiltà. Un reale cambiamento ci è negato e, nello stordimento generale, non ci sarà nessuno ad ascoltare il richiamo della civetta il giorno in cui il Marco Aurelio tornerà a splendere d’oro annunciando la fine del pianeta.
La situazione peggiora giorno dopo giorno. I demagoghi pullulano. La marmaglia politica spadroneggia, mentre il divino Papageno non cessa di agitare il carillon, persuadendo il nostro popolo dell’opulenza della nazione.
L’altra notte, gli abitanti del Celio hanno visto la gigantesca sagoma, ricoperta dalle incantevoli piume, appollaiarsi sul bordo dell’Anfiteatro Flavio, dove, ispirata dal colosso di Nerone, ha deposto, con ciclopico sforzo, mille uova mastodontiche dall’accecante biancore.
Ponti di cartapesta, valichi di celluloide e altre diavolerie, contenute all’interno, meraviglieranno milioni di cittadini al momento della rottura dei gusci.
Tutto ciò le sembrerà frutto d’invenzione, ma, mi creda, non è che la fine di un glorioso paese affidato al governo di un assurdo condottiero, venerato per il suo piumaggio e prossimo all’apoteosi.
L’ora fatale è vicina. Completata la riconquista del vello, sta per realizzarsi l’ultimativa impresa dell’incontenibile cavaliere.
Accompagnato da un coro estatico di vergini postribolari e femmine un po’ passate ma ancora in carne, costui sarà il primo pappagallo a conquistare la Luna.
Quando, attratta dal suo carillon, la mammelluta Artemide approderà, come una gondola innevata, fra gli scogli priapeschi dell’Isola Tiberina, un manipolo di fanatiche sostenitrici si arrampicherà sul suo corpo, incollandovi l’effigie del meraviglioso uccellatore.
Sarà così che, al culmine di un indissolubile accoppiamento, sospinta da una gigantesca catapulta, una Luna maschile, con una lunga coda di pappagallo, si alzerà di nuovo nel cielo, da dove il Maestro ammirerà le sue greggi, colmo di splendore e paterna benevolenza.

Tutto questo in attesa di incontrarla presto e di aggiornarla sui futuri avvenimenti.
Suo affezionatissimo Leonard di Gulbadan

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.