OMOSESSUALITA’ E LETTERATURA
di Saverio Aversa
Nei giorni 17 e 18 marzo scorsi si è tenuto a Firenze negli storici palazzi Medici-Riccardi e Strozzi il convegno presieduto da Nadia Fusini, Valeria Gennero e Gian Pietro Leonardi intitolato “L’arte del desiderio. Omosessualità, letteratura, differenza”, organizzato dall’Istituto di Scienze Umane e dalla Provincia di Firenze. Partendo dalla questione controversa dell’esistenza o meno di una letteratura omosessuale, di cui è difficile stabilire i confini, scrittrici e scrittori italiani e stranieri si sono interrogati sui cambiamenti sociali, letterari e culturali intervenuti nel mondo occidentale dopo la rivolta di Stonewall del 1969: cioè dopo l’evento che segna la nascita del movimento per i diritti civili delle persone non eterosessuali.
Anzitutto si è proceduto a una sorta di excursus storico, volto a individuare i modelli culturali che influenzano oggi gli autori lgbt, per passare poi alle soggettività proposte più recentemente, quelle più duttili, più “fluide”, che appartengono alla narrativa definita da alcuni “post-gay”. Riferendosi alla rilettura critica di alcuni classici, Massimo Fusillo ha così ripercorso la trasformazione della critica e della letteratura gay fino a giungere al camp e alla teoria queer, che in qualche modo impongono di andare oltre i ruoli e le categorie circoscritte, a favore di un polimorfismo indifferenziato che procede per gradi e che si contrappone alle identità stabili.
Mentre Franco Buffoni, attraverso il racconto del suo impegno politico e culturale, ha sottolineato la maggiore utilità della letteratura gay nel nostro Paese, almeno fino a che l’omosessualità non sarà in qualche modo “normata” da leggi che riconoscano a tutti i cittadini diritti finora negati. Quando finalmente le università italiane apriranno ai gender studies, ha detto Buffoni, si avrà l’opportunità di leggere in modo diverso molti autori, da Pascoli a Montale a Pavese.
Ha fatto ammenda, riconoscendo la propria misoginia e quella di tanti omosessuali della sua generazione, Walter Siti, rivendicando il suo essere scrittore come più forte della “vergogna” di essere gay. Come giusto contrappasso al suo leggero disprezzo per la femminilità, lo scrittore ha ammesso di considerare come proprio maestro Elsa Morante.
La statunitense Sarah Schulman ha portato la testimonianza di almeno 30 anni di una comunità che si è sentita esclusa dall’American Dream, che è stata decimata dall’Aids e che ha combattuto tenacemente l’omofobia, prima quella familiare, poi quella delle istituzioni e della società. Proust e Joyce sono stati invece i maestri del britannico Adam Mars-Jones che ha segnalato una specie di percorso interclassista dell’identità gay a partire dagli dei dell’Olimpo, per passare agli aristocratici delle corti europee, quindi alla borghesia e infine all’uomo della strada.
Il termine post-gay è stato adoperato per la prima volta da Paul Burston, che ha evidenziato le relazioni tra cultura pop, cultura lgbt e la sua ricerca adolescenziale di precisi riferimenti nei film e nei libri: la necessità di individuare “persone come me”. L’inglese Maureen Duffy ha accennato ad una breve storia dell’omosessualità femminile nel suo Paese e ha ricordato gli stereotipi più diffusi sul lesbismo.
In letteratura è possibile distinguere tra vita segreta e vita privata? E’ questa la domanda posta da Mario Fortunato che ha anche portato il suo ricordo personale di Pier Vittorio Tondelli. La letteratura lesbica dal Novecento ad oggi ed i suoi rapporti con il femminismo è stato l’argomento della relazione di Valeria Viganò che ha anche ribadito con forza la sua contrarietà agli steccati, al rischio di ghettizzazione che si corre per esempio quando le proprie opere vengono pubblicate da una casa editrice gay. Da donna ha anche denunciato il maschilismo che in qualche modo appartiene anche alla cultura gay.
La crisi delle identità viene ripresa anche da Marco Mancassola, che ha analizzato – attraverso il termine “gay” – l’uomo “eternamente giovane” e obbligatoriamente attraente, promiscuo, edonista e trasgressivo. Il cosiddetto stile di vita gay oggi, inconsapevolmente o meno, appartiene più agli eterosessuali fashion-victim, ai consumatori ideali di prodotti commerciali inizialmente ideati da gay per i gay. Tommaso Giartosio infine ha disegnato la figura dell’intellettuale gay oggi, a partire dalla sua esperienza di scrittore e di “omogenitore”, sposato con il suo uomo con un rito che in Italia non vale nulla. «Qual è la cosa più gay che ho fatto ultimamente? Mi sono occupato di mio figlio, l’ho coccolato, l’ho accarezzato, ho fatto conversazione con lui, l’ho ascoltato.»
La prima cosa che mi viene in mente, dopo aver letto questo post, è che non capisco cosa c’entra l’omosessualità con la misoginia. Si odia ciò che si desidera. Credevo che fosse una faccenda degli eterosessuali… Mi sbagliavo? Un’altra cosa: sarebbe bello avere un’identità fluida, nè etero nè omo, una soggettività “nomade”, come si dice, ma… dove trovare il tempo? Una vita basta? E dove conoscere le persone con cui sperimentare, mettersi in gioco, quando viviamo in provincia e la routine ci stritola?
” Tommaso Giartosio infine ha disegnato la figura dell’intellettuale gay oggi, a partire dalla sua esperienza di scrittore e di “omogenitore”, sposato con il suo uomo con un rito che in Italia non vale nulla. «Qual è la cosa più gay che ho fatto ultimamente? Mi sono occupato di mio figlio, l’ho coccolato, l’ho accarezzato, ho fatto conversazione con lui, l’ho ascoltato.» ”
ehehhehe.. che meraviglia
è vero paolod, purtroppo molti omosessuali e molti eterosessuali ragionano per categorie. per fissazioni mentali. o mi piacciono gli uomini o mi piacciono le donne. è una questione di essere fluidi. poi per quanto riguarda la provincia, c’è sempre internet per conoscere altre realtà e comunque hai ragione, si parla di omosessualità senza tener conto che in certi luoghi d’italia non esiste nemmeno la sessualità. comunque in generale noto troppa ‘intellettualizzazione’ del sesso in generale. :) e comunque ci sarei voluto essere a firenze, visto che il 18 c’ero.
“al camp e alla teoria queer, che in qualche modo impongono di andare oltre i ruoli e le categorie circoscritte, a favore di un polimorfismo indifferenziato che procede per gradi e che si contrappone alle identità stabili.” [Saverio Aversa]
“è una questione di essere fluidi.” [Giancarlo Garrapa]
Mi pare sbagliato parlare di “polimorfismo indifferenziato” rispetto all’identità individuale. L’identità di un individuo non si cambia, o perlomeno è molto difficile cambiarla e forse temporaneo e anche doloroso. Quello che mette in crisi è che le possibilità identitarie vanno oltre il binarismo. Ovvero esistono persone la cui autodescrizione identitaria è polarizzata, e altre che si collocano tra i poli. Questo non significa essere fluidi, come se l’identità, e in particolare quella sessuale, fosse qualcosa che si indossa a piacimento. Parlare di identità “polimorfe” mi sembra che denunci chiaramente l’incapacità di “riconoscere” identità non polarizzate. Quindi concretamente è l’incapacità di capire gli altri.
sì, andrea, il problema è che, nati da un uomo e da una donna, inevitabilmente conserviamo un bi-morfismo mentale che però la cultura polarizza ora in una forma ora in un’altra. ma così non è. per cui capisco benissimo gli altri, nel momento in cui per tutta la vita, sottostanno a una determinata ‘categoria’ che l’educazione familiare e sociale impone e a cui non riescono più a sottrarsi. è una questione di scelta, polarizzarsi o meno, ma l’oscillazione avviene tra i due poli, maschile e femminile, ed ecco, in questo modo è più facile capire gli altri: più difficile per un solo-uomo capire una sola-donna, e viceversa, se il solo-uomo e la sola-donna prescindono dal fatto che appunto, in potenza, siamo siamo l’uno che l’altro e che l’atto possa privilegiare o l’uno o l’altro, non ci sono dubbi. ma, appunto, è solo, credo, fluidificando i ruoli che si possono capire gli altri. da perfetto-etero non capirei mai un perfetto-omosessuale e viceversa. considerando poi che tutto, almeno in italia, tende a un eterno mascolino, il gioco è fatto, la polarizzazione avvenuta e l’incapacità di capire gli altri determinata dall’affermare che non esiste l’esclusivismo gay o etero. insomma, se non si sta entro cornici ben definite, si viene tacciati di incomprensione dell’altro. e forse è così, o come diceva sant’agostino, se non erro quando scriveva: Timeo hominem unius libri cioè Temo l’uomo che ha letto un solo libro.
Andrea dice bene. Il fascino che esercita il discorso del “nomadismo”, da Deleuze in poi, è che dell’utopia. Qualcosa a cui forse tendere. Nel 2011 siamo quanto mai lontani da questo, più lontani che, poniamo, nel 1972, quando uscì l’Anti-Edipo. L’Italia del 2011 è, complessivamente, più indietro, nella ricerca, nella scoperta, di quanto non fosse allora. Siamo stati storicamente e culturalmente “promettenti” fino agli anni ’80. Ora non abbiamo neppure più da raschiare il fondo del barile.
correzione: è quello dell’utopia (riga 2)
per questo bisogna andare avanti senza continui vittimismi, tanto cosa abbiamo da perdere? non credo che tutti siano indietro con la ricerca. diciamo che è più difficile visto l’omologazione. si rischia di essere messi da parte etichettati come pazzi, ma chi se ne frega? la vita è una, e se anche si rischia di restare soli e incompresi oppure realmente stupidi e illusi che stiamo facendo qualcosa di nuovo, di nuovo: chi se ne frega? nessuno. intanto uno prova a fare e a credere in quello che fa. oppure suicidiamoci e non ne parliamo più. nessuno se ne accorgerebbe, allora? ognuno cerchi di essere ‘rivoluzionario’ oppure non si lamenti e sopporti in silenzio! :))