Un passaggio di testimone: l’editor
Qualche settimana fa, una studentessa di Pavia, Marta Perduca 1 mi ha scritto per un’intervista da utilizzare per la sua tesi. Ho pensato così di condividerla con i lettori di Nazione Indiana e Alfa Beta2 con la speranza che ne possa scaturire un dibattito (tra i lettori di NI ci sono molti editor) in grado di offrire altri spunti a studenti impegnati su questo fronte. effeffe
D: La figura dell’editor nell’attuale mondo dell’editoria. Chi è? Come lo si può descrivere?
R: Come direttore editoriale, seppure di una piccola ma interessante realtà, e consulente editoriale, soprattutto per la Francia, pur non lavorando come editor in senso classico, certamente ne condivido alcune abilità tra cui, quella fondamentale del fiuto per le opere e più generalmente per un autore. In Nazione Indiana mi capita abbastanza spesso di confrontarmi poi con gli autori che pubblico alla maniera di un editor, ovvero suggerendo cambiamenti, approfondimenti e soprattutto dei tagli, trattandosi di un formato, quello dei Post che non deve superare le 5000 battute. La figura dell’editor, è secondo me imprescindibile nel processo di fabbricazione di un’opera, considerando l’editing però più come una maieutica. Non credo infatti all’editor come un demiurgo, ovvero al di là dell’opera, e che dall’aldilà crei veramente qualcosa dal nulla. Il solo che crea è l’autore, questo è poco ma sicuro. Faccio questa precisazione perché viviamo in un’epoca di grande confusione sotto al cielo e può capitare che un editor, magari pure blasonato, Sergio Claudio Perroni per esempio, si monti la testa e scriva nel risvolto di copertina del proprio romanzo di esordio: “editor di alcuni fra i romanzi di maggior successo degli ultimi anni, Caos calmo, Le uova del drago”. La cosa è molto più inquietante di quanto non appaia a prima vista, infatti Carla Benedetti su “Il primo amore” ne ha scritto una riflessione assai importante, perché è come se si fosse passati dal “Madame Bovary c’est moi,” di Flaubert, al “Flaubert c’est moi”, riferito da un eventuale editor tutto contemporaneo del romanziere francese. Si assiste a un’appropriazione indebita, a una violazione di domicilio, a un esproprio dell’opera che tradisce il patto di ferro che deve esserci tra un autore e un editor. Nel momento in cui l’autore decide di far entrare nel proprio atelier un editor, e lo fa perché ha fiducia nelle sue abilità ma anche nella sua persona, non può un bel giorno rientrare a casa e trovare le serrature cambiate. Eppure è un atteggiamento diffuso nell’ambiente- odio questa parola- e capita non raramente che ti si presenti qualcuno dicendo, lui\lei è l’editor di questa opera, magari di successo, facendo scivolare tra le righe, con un sorriso beffardo, che ne è il vero autore, il ghost writer. Per fortuna nella maggioranza dei casi non è così anche se il triste e nuovo fenomeno a cui stiamo assistendo, degli autori non più riconoscibili un tempo in un solo progetto editoriale, per esempio Pavese e Calvino in Einaudi, Eco in Bompiani e via dicendo, comporta il cambio di editor ogni volta, e non so fino a che punto sia una buona cosa.
Un bravo editor deve cogliere in un’opera, quasi istintivamente le due cose che fanno di un libro qualcosa che si può definire letteratura ovvero, necessità della storia che viene raccontata ma soprattutto il fatto che a raccontarla sia proprio quell’autore, in quello stile e non in un altro. Scriveva il filosofo Gilles Deleuze che la letteratura dovrebbe consistere, nella capacità dello scrittore di far delirare la lingua, trasformarla in una sorta di lingua straniera, e di conseguenza mi viene da pensare che un buon editor debba rapportarsi a un’opera, qualsiasi opera, come scritta da uno straniero che si cimenti con una letteratura a lui straniera, e che debba, intervenendo, riuscirne a conservare l’accento originario e straniero dell’autore. Se fossi al suo posto, per una tesi come la sua andrei ad intervistare, per esempio, autori come Ornela Vorpsi, Igiaba Scega, Azra Nuhefendic per capire come si sia lavorato in concreto nel caso di autori di libri in italiano ma non madrelingua. Se poi dovessimo fare un passo indietro nel tempo, come non pensare a Ionesco, Beckett, Nabokov, o più recentemente Milan Kundera… Diventa per questo interessante vedere come per esempio si lavori in Italia con le letterature straniere. Nel caso delle lingue latine mi è capitato di sentire delle assurdità come ad esempio il fatto che per essere un buon traduttore sia più importante l’abilità nella lingua di arrivo che non in quella di partenza, in cui a pagare il prezzo più alto è l’opera, l’autore cornuto e mazziato, e infatti si dicono, quelle traduzioni, le belle e infedeli. Ecco, io penso che invece si possa rimanere belli nonostante, anzi grazie alla fedeltà. Per quanto riguarda poi l’aspetto politico della faccenda ovvero se un editor abbia un vero potere editoriale, decisionale sulle opere che saranno pubblicate, mah, direi che spesso e volentieri è confrontato con una frustrazione di base, cresciuta a suon di rifiuti da parte dei direttori di collana che gli agitano davanti al naso il peggiore dei verdetti che si possano dare a un’opera, ovvero, bella, certamente ma che ha poco mercato. Ecco, questa secondo me è la cosa più idiota che possa accadere ai nostri giorni. Idiota, perchè se fosse vero tutte le opere pubblicate dovrebbero essere dei piccoli successi e invece no. Allora piuttosto che pubblicare un’opera di mediocre valore letterario, rivelatasi poi di scarso successo commerciale, non era meglio pubblicare un libro dall’alto valore letterario?
Comunque, per tornare alla figura dell’editor, direi che la fortuna per un autore sia quella di incontrare un vero editor e in Italia ce ne sono. Se dovessi citarne una, direi Helena Janeczek.
D: È possibile pensare ad una proiezione futura di questa professione?
R: Beh si, tutto dipende da come si narrativizza l’esperienza, un tempo si diceva “elaborare” i fatti della vita. Stiamo assistendo a un processo in evoluzione, per quanto non necessariamente nuovo, dove più l’esperienza si narrativizza e più l’editor, o una figura equivalente, diventa necessario, per aiutare a guardare meglio le cose, a vedere giusto. Tutti hanno una storia importante da dire, secondo me, ma non tutti il talento per poterla veramente raccontare.
D: Pensando al suo lavoro di editor e al modo di operare che ha adottato o cui tende, riesce ad individuare un modello cui si è ispirato?
R: Ritengo che oggi non si possa parlare di modelli proprio per come si struttura l’editoria. Non è possibile prendere come riferimenti un Calvino o un Pavese, che rimangono i grandi nella storia di questa professione e nessuno lo discute, però oggi non si lavora come negli anni in cui operavano questi personaggi, non ci sono linee editoriali definite che consentono di lavorare su un’idea di letteratura. A parte alcuni casi, penso all’Adelphi di Calasso, ci si muove in un ambiente molto confuso e con le idee non molto chiare. Alcuni anni fa ho fatto un incontro, un incontro che inizialmente avevo considerato del tutto casuale, con una persona come tante. Ero al mare, ospite da mia sorella a Gaeta, e ho conosciuto una signora con la quale al mattino si conversava di letteratura, per un paio di settimane. Qualche tempo dopo la ritrovo in Francia, dove vivevo, nella vetrina di una libreria. Quella signora era Goliarda Sapienza.
Nelle nostre chiacchierate aveva fatto più di una volta accenno alle difficoltà incontrate nel mondo letterario italiano. Per capirlo basti andare a a vedere la storia del suo capolavoro, l’Arte della Gioia, che non vide mai la luce con lei ancora in vita. Rifiutato da tutte le case editrici, da editori perfino amici, per oltre trentanni, fu pubblicato due volte postumo. Una prima, con una piccola tiratura, con Stampa Alternativa (1998), e una seconda con Einaudi (2008). E sai quale fu la sua fortuna? essere pubblicata in Francia (trad. française L’Art de la joie, Viviane Hamy, Paris) nel 2005. Un successo editoriale che spinse i nostri a pubblicarla tre anni dopo in Italia. Da scrittrice straniera, tanto per tornare al Deleuze citato all’inizio. L’affaire Goliarda Sapienza ha una doppia morale. La prima è che in Italia siamo davvero messi male. la seconda è che nonostante tutto la nostra è una terra dove possono ancora accadere miracoli.
D: La figura dell’editor ha assunto grande rilievo soprattutto per aver permesso ad alcuni autori di ottenere un enorme risultato. Mettendo da parte esempi di editing ben riuscito, è possibile individuare situazioni in cui si è assistito ad un cattivo editing?
R: Senza dubbio il caso di Raymond Carver. Penso ai suoi “Principianti” pubblicati nella versione originale da Einaudi. La prima edizione, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, pubblicata nel 1981. (pubblicata in Italia da Minimum Fax) fu curata dall’editor Gordon Lish che peggio di un Casalese aveva tagliato più del cinquanta per cento del testo, stravolgendo impianto e composizione al punto di intervenire perfino trasformando in alcuni racconti il finale.
Una violenza subita dal povero Carver che però gli permise di essere sdoganato dalla Cultura Ufficiale. Senza quella violenza, che ne decretò il successo, dubito che Einaudi ne avrebbe pubblicato la straordinaria versione originale.
- Iscritta al Corso di Laurea Specialistica in Editoria e Comunicazione Multimediale – Università degli Studi di Pavia, discuterà a breve la sua tesi dal titolo: “Editor. Dinamica, storia, prospettive di una professione culturale”. Per la pubblicazione dell’Intervista abbiamo chiesto l’autorizzazione al Preside di Facoltà a cui va il nostro ringraziamento per avercela accordata.🡅
Comments are closed.
“Scriveva il filosofo Gilles Deleuze che la letteratura dovrebbe consistere nella capacità dello scrittore di far delirare la lingua, trasformarla in una sorta di lingua straniera”. Mi riporta alla mente un’eco lontana della teoria della formatività di Pareyson, dove il procedimento dell’arte, e quindi anche della creazione della lingua letteraria, è definito come un ‘formare’, specificando che «formare significa ‘fare’, ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare». Inventare il modo di fare arte è come far delirare la lingua, trovarsi per le mani qualcosa di ‘straniero’ per l’autore e, tanto più, per il lettore. Se poi il lettore è un editor, a lui l’abilità di avvicinare al meglio quel nuovo modo di formare, quella lingua straniera, del tutto originale.
Io sono ospite della mia lingua,/ un invitato che stenta ad esprimersi,/ io la forzo come una parlata straniera (Ripellino, Sinfonietta).
“L’insostituibilità d’una frase, di un’espressione, non significa tuttavia perfezione assoluta. Significa soltanto che noi non potevamo fare di più, di meglio; che non potevamo scrivere diversamente e ci siamo espressi con lealtà, starei per dire accusati. Quello è lo stile. Impossibilità, nei momenti migliori, nelle disposizioni più felici, di andare oltre quel segno che, mentre ci appare immodificabile, scopre, d’altro canto, il limnite delle nostre facoltà espressive. Un limite che par di toccare con la testa, come se si fosse arrivati al soffitto. E’ così che, se Dio vuole, si finisce ad essere imbottigliati nel proprio stile, chi ne abbia uno”. (Cardarelli, Solitario in Arcadia).
+Bella questa intervista. Sì, credo anch’io che, nell’attuale sistema letterario, l’editor sia fondamentale. L’autore non è in grado di “vedere”, di superare certe rimozioni e reticenze occulte o ridondanze che si riversano nell’opera.
Il caso che citi di Goliarda Sapienza è veramente emblematico. Ricordo che acquistai L’arte della gioia nei 5.000 L di Stampa Alternativa. Lo trovai incredibilmente bello, ricordo nitidamente lo stupore di quella scoperta. E non la smettevo di sbalordirmi del fatto che non fosse uno di quei libri pubblicati dai grandi editori tipo “La Storia”, di cui aveva la profondità, la durezza, l’epica.
Giacomo condivido le tue riflessioni a corollario e vado anche oltre. Se si accetta l’idea che comunque ogni linguaggio traduce in qualche modo la realtà che esiste al di là, o al di qua della lingua, e dei linguaggi, il migliore degli editing possibili dovrebbe in qualche modo essere in condizione di editare la stessa realtà. Da qui il sogno di molti che un’opera, un libro per esempio, possa modificare, trasformare il reale.
Eppure, si sa che la trappola della “perfezione assoluta” induce al silenzio, alla fine dell’opera come nell’imprescindibile, da questo punto di vista, Lettera di Lord Chandos di von Hofmannsthal, in cui lo scrittore protagonista vede ogni suo anelito alla perfezione descrittiva e narrativa del reale, naufragare di fronte all’assoluto concreto, l’inafferabile senso ultimo delle cose. Purtroppo, viviamo in un’epoca editoriale in cui si “editerebbe” assai volentieri “la sedia” del maestro van Gogh con una BERNHARD made in Ikea con il pretesto che il lettore (lo spettatore) desideri un molleggio riposante e un comfort ottimale. Ma siamo proprio sicuri che il lettore voglia per forza starsene seduto? effeffe
Negli anni la figura dell’editor è mutata in maniera sostanziale. Rimanendo ancorati all’Italia, Pavese e Calvino sono certamente i capostipiti di questo ruolo, ma è anche vero che il loro riferimento era il popolo (e non a caso uso questa parola) dei lettori. La loro opera aveva sì un aspetto socraticamente maieutico. Oggi l’editoria, o quantomeno un certo tipo di editoria, punta al pubblico (e non a caso uso questa parola) dei lettori. Di conseguenza anche la figura dell’editor si è estremamente sfaccettata; c’è chi “cucina” gli articoli editi del giornalista di grido per sfornare l’annuale saggetto di attualità, c’è chi “l’importante è che le prime cinquanta pagine siano super” tanto “quel” libro non lo si leggerà fino alla fine, c’è chi non si permette di spostare una virgola agli Intoccabili anche laddove ci sono oggettive carenze, perché gli Intoccabili sono bizzosi e alla fin fine vendono comunque.
A ogni modo l’editor, il vero editor, è una figura imprescindibile. È colui che guardando il drago da lontano è capace di carpirne meglio i punti deboli, al contrario dell’autore inevitabilmente stretto nelle fauci del mostro. In fin dei conti il libro non è mai opera di una persona sola, sebbene ci sia un unico nome in copertina. L’editor in editoria, il vero editor, è un po’ come il produttore artistico in campo musicale; siamo certi che la storia degli U2 sarebbe stata la stessa se non avessero incontrato Brian Eno?
Negli anni la figura dell’editor è mutata in maniera sostanziale. Rimanendo ancorati all’Italia, Pavese e Calvino sono certamente i capostipiti di questo ruolo, ma è anche vero che il loro riferimento era il popolo (e non a caso uso questa parola) dei lettori. La loro opera aveva sì un aspetto socraticamente maieutico. Oggi l’editoria, o quantomeno un certo tipo di editoria, punta al pubblico (e non a caso uso questa parola) dei lettori. Di conseguenza anche la figura dell’editor si è estremamente sfaccettata; c’è chi “cucina” gli articoli editi del giornalista di grido per sfornare l’annuale saggetto di attualità, c’è chi “l’importante è che le prime cinquanta pagine siano super” tanto “quel” libro non lo si leggerà fino alla fine, c’è chi non si permette di spostare una virgola agli Intoccabili anche laddove ci sono oggettive carenze, perché gli Intoccabili sono bizzosi e alla fin fine vendono comunque.
A ogni modo l’editor, il vero editor, è una figura imprescindibile. È colui che guardando il drago da lontano è capace di carpirne meglio i punti deboli, al contrario dell’autore inevitabilmente stretto nelle fauci del mostro. In fin dei conti il libro non è mai opera di una persona sola, sebbene ci sia un unico nome in copertina. L’editor in editoria, il vero editor, è un po’ come il produttore artistico in campo musicale; siamo certi che la storia degli U2 sarebbe stata la stessa se non avessero incontrato Brian Eno?
http://librisenzacarta.it/2011/01/07/buoni-maestri/
Non so cosa sia successo, ma il mio commento è scomparso ed è rimasto al suo posto il sito web!!!
Prima di ogni altra cosa una battuta: una vangoghiana sedia editata con una berhard (ma tale che in filigrana filtri, al di là di quella svedese, quella dell’olandese) sarebbe forse un bell’esempio di post-modernariato! Oltre la battuta, credo che un problema di oggi (e di sempre) sia in effetti quello del lettore: il lettore va educato perché egli è (tutti noi siamo) una tetragona pedina sulla scacchiera della biblioteca di Babele (nel senso che si concarnano in noi un abito di lettura, dei tic, delle voglie e delle mode, delle abitudini che, nei momenti di minor sorveglianza, ci fanno adagiare sul già noto o, in altri casi, ci portano ben al di là di ciò che era alla fonte, cioè l’intentio auctoris o l’intentio ‘editoris’). Questa pedina va mossa dallo scrittore e dall’editor. Mi viene in mente ciò che scriveva Eco nelle Postille a ‘Il nome della rosa’, nel paragrafo ‘Costruire il lettore’, là dove sceverava tra gli scrittori che vogliono produrre un lettore nuovo e quelli che si contentano di un auditorio cristallizzato in uno standard…. Ma forse la questione è oziosa, poiché da sempre ci sono lettori ben pigri, che amano la bernhard, e lettori spartani, che la cambiano con un grumo di chiodi. La colpa non è del lettore… Bisognerebbe auspicare di avere autori e editor sani, che abbiano la voglia e la santa pazienza di costruire il lettore, di educarlo, maieuticamente, a trovare la via del perfezionamento personale.
bisogna vedere se l’editor è al servizio dello scrittore (almeno, dell’opera dello scrittore) o a quello del corrivo lettore (del cattivo editore)
in parecchie realtà editoriali ci sono livelli diversi di editing, per cui la figura dell’editor non è del tutto limpida. chi è l’editor? in italia spesso con questo nome si intende il direttore di collana – che come dice bene effeffe spesso è frustrato dai no del direttore editoriale – il quale di solito fa un vero lavoro manageriale per cui lavora poco e niente i testi. l’editor sarebbe il redattore, colui che si siede a fianco dell’autore e lo aiuta a tirare fuori la voce che l’autore ha dentro. questo nel mondo delle favole, infatti l’analisi di forlani mi sembra perfetta e lucida. c’è tutta una serie di richieste dall’alto che rendono questo mestiere confuso e spesso pessimo: la commercializzazione dell’opera (che in italia non riesce quasi mai), l’omologazione degli stili (a volte basta prendere una collana di narrativa straniera di alcune famose case editrici per avere l’impressione che tutti i romanzi di qualsivoglia autore di qualsiasi lingua di provenienza siano scritti da un solo unico autore), i tic narrativi dell’editor (per esempio, che so, non ama il verbo “scovare” e lo cancellerà da qualsiasi testo gli capiti sotto mano) e infine una sempre maggiore ignoranza letteraria fra i nuovi editor e direttori di collana.
ecco, io ritengo questa intervista assai interessante poiché apre uno scorcio e uno squarcio in un tessuto pessimo che fa dell’editoria italiana una delle peggiori. e non è solo colpa degli autori, appunto, anzi.
Tutto di grande interesse. Specie la riflessione sulla “violazione di domicilio”. Questo tipo di editor mi ha riportato alla mente l’idea di Bonito Oliva sulla pittura, che è il critico e non l’autore a creare l’opera…
lo stesso Bloy – a proposito di critici – diceva che si tratta di persone che cercano domicilio in un letto altrui. e l’editor, come dice benissimo francesco, può tendere verso la stessa modalità.
l’uomo vuole essere artefice: della vita, delle singole vicende. la paternità in questo caso gli consegna forza e manifestazione di sé.
artefici. artefici. per esistere.
d’altronde, sono pochi gli attori che vogliono essere un’ottima spalla. eppure, la spalla, è fondamentale e fa grande il protagonista.
su temi affini segnalo anche questo dialogo tra Helena Janeczek e Giulia Ichino
http://iperchedellaletteratura.blogspot.com/2011/03/autore-e-editor-dello-scrivere.html
grazie fedor, poi da te che ne ha subiti di tagli !!! effeffe
ergo il traduttore non limitandosi a interpretare è un editor.Quindi nei casi,mai conclamati,in cui le nuove traduzioni dei classici sono mera riscrittura di un lavoro altrui compiuta spesso da persone che nemmeno sono in grado di leggere il testo su cui stanno operando nella lingua originale resta vaga la speranza nell’autore di non trovarsi in un contesto eterodiretto(prendendosi sul serio si potrebbe anche parlare di fotosintesi letteraria)
Quel che accade è che soprattutto in passato il traduttore sottoponeva il testo a un vero e proprio editing devastante. Sulla cosa ho proposto in traduzione un saggio di Philippe Sollers sulle avventure “editoriali” di Casanova. https://www.nazioneindiana.com/2010/01/04/corpo-lettera-integrale-casanova/ in cui Sollers dimostra testi alla mano come nella traduzione del 1826, “en bon français” a cura di Jean Laforgue vi fossero state delle attenuazioni, velature, aggiunte inopportune. Su questo fronte poi, caro diamonds si apre un fronte che ha un lato comico e insieme tragico. Visto che le “traduzioni” pare che invecchino più delle opere , sono soggette ad una mise à jour costante nel tentativo di attualizzarle, soprattutto linguisticamente ogni volta. In fin dei conti di questo si tratta, spingendo di più sull’acceleratore quando si “riscrivono i classici (si pensi al Baricco dell’Iliade)
Sono sicuro che tra non molto si ritradurranno in italiano contemporaneo anche i libretti di Opera, subito dopo averne contaminato (secondo me felicemente) le scenografie e la regia. Ma allora saranno risate davvero…effeffe