I momenti prepotenti
I momenti prepotenti / Marco Mazzucchelli
Ecco, sono sveglio.
È mattina. Nel letto di fianco sta un corpo sotto le coperte, una testa di capelli bianchi. Fuori il sole, l’albero muove le sue fronde, d’improvviso verde. Fino a ieri notte nevicava, mi sento ancora il freddo dentro le nocche delle mani, sotto le guance. Schiaccio il pulsante che ho al collo e arriva un’infermiera, bassa, mora. Mi saluta, mi chiama per nome. Mi toglie la coperta di lana e sono rannicchiato in una pozza di sudore. Dice infastidita “Ma chi continua a dartela questa?” e mi aiuta a mettermi seduto sulla spugna pregna del materasso. Davanti a me le pareti rosa carne. È la prima volta che la vedo.
Sto davanti alla televisione.
Sono in una stanza con altre teste bianche, tutti zombie in carrozzella, parcheggiati. Le schiene schiacciate contro gli schienali e gli schienali contro le pareti rosa carne del corpo centrale dell’edificio. Le pareti esterne dell’edificio come schiene curve sotto la neve. Mi concentro sulle pubblicità, perchè non mi sfuggono, riesco a completarle; all’improvviso realizzo che non faccio mai a tempo a tentare di muovere le gambe, che non mi abituerò mai all’odore che emaniamo. In corridoio un andirivieni di infermiere e persone in visita; entrando si sbottonano i giacconi e si slacciano le sciarpe. I loro volti non riesco mai a completarli. Guardo i fiocchi di neve cadere dalle loro maniche, accasciarsi sul linoleum e scomparire. Ne contemplo la vita.
Rannicchiato sul
Pavimento del bagno
Fuori nevica
Eccomi. Sono seduto davanti a due donne.
Una è sulla cinquantina, forse di più, l’altra è una ragazza. Hanno sopracciglia meste e occhi stanchi di indagare. Non so se devo spezzare il silenzio, e così completare questo momento. Dalla porta entra un uomo. Si ferma a parlare con un’infermiera, con un cappello panama nella conca della mano destra guarda verso di me. Sostengo il suo sguardo, non ho mai abbastanza tempo per provare disagio. Saluta l’infermiera e mi viene incontro incerto. Si abbassa, si inarca, come un animale porta il suo muso vicino al mio. Mi dice “Ciao, sono Italo”, fa una pausa. “Eravamo in classe insieme”. Gli sorrido per cortesia, per smussare gli angoli di questo momento prepotente, ma guardandolo negli occhi scuoto la testa. Mi sorride sconsolato e mi stringe forte il braccio, cercando di dare più senso al mondo in cui sono costretto a vivere. Lui non lo sa che la sua presa da uomo, al pari dei miei pensieri di uomo, è inconsistente e in un attimo verrà spazzata via dall’inverno. Mi chiudo la vestaglia sul cuore freddo e gli chiedo se non siano tutti vestiti un po’ troppo leggeri.
Sono stato svegliato.
O forse non riuscivo a dormire. Il pavimento di linoleum riflette fino a qui le luci notturne della sala centrale. La testa bianca affianco a me russa, gorgheggia. È sfuocata, immobile, sprofondata; una macchia informe nel buio blu. Le finestre del corpo nord dell’edificio sono file di denti spalancati sul mondo di fuori. Sono stato tutta la sera con mia figlia a giocare con la neve e lo slittino. Ho le mani e i piedi congelati, mi fanno male. Cerco di completare questo ricordo attraverso il dolore, fino a che un torpore soporifero mi allaga la schiena giù dalla nuca.
Senza volto
Mia bambina profumata
Curva di neve
Eccomi, sono davanti a una finestra.
La carrozzina immobile, le parti in metallo gelide. Una coperta di lana nasconde le mie gambe. Il corridoio è deserto, fuori il cielo è grigio e la neve degli ultimi due giorni è scomparsa in un attimo. Tra le mani ho un quaderno con infilata tra le pagine una BIC blu. Sul quaderno ci sono scritti haiku. La mano è la stessa, sconnessa; solo i primi due sono scritti diversamente. Una calligrafia femminile, giocosa, di una ragazza. Torno all’ultima pagina, impugno la biro e
Sono davanti a una finestra.
Il sentore di un torpore dietro la nuca. Fuori il cielo è grigio. La neve degli ultimi due giorni è scomparsa in un attimo. Tra le mani ho un quaderno, dentro è infilata una BIC blu. Lo richiudo e spingo la carrozzina verso la sala delle visite. Il metallo delle ruote è ghiacciato. Il corridoio è deserto
Ecco, sono davanti a una finestra.
Fuori il cielo è grigio, piove. La pioggia deve aver lavato via tutta la nevicata degli ultimi due giorni. Tra le mani ho un quaderno con infilata tra le pagine una BIC blu senza tappino, non completa. La impugno e nevica dietro alla mia corteccia cerebrale. Rialzo lo sguardo per trovare le parole. È un pomeriggio buio, nel vetro registro l’immagine appena accennata di un cranio bianco. Mi sposto, fuggo la visione di me per non dover aspettare di scordarla.
Sei tutta denti
Ridi sullo slittino
Aspettando me
Ho le gambe sotto il tavolo.
La schiena di un’infermiera scompare oltre la porta della sala mensa. Sono l’ultimo rimasto nel cupo grigio-azzurro dei pomeriggi di questa stanza. Lo stereo è spento, sui tavoli ci sono solo bottiglie di acqua aperte e tovaglioli afflosciati, unti da carni spossate. Sotto la coperta sento le ginocchia invernali, ho le ossa delle spalle congelate. Davanti a me un piatto di pasta pallida e umida, il sugo che ai bordi s’è coagulato in una crosta. La forchetta nella mano destra e la sensazione di non aver mai avuto fame. D’un tratto da una stanza in fondo al corridoio arrivano delle urla, un rantolo continuo. Lo sconnesso crepitio respiratorio dell’animale che ha paura di morire e gli zoccoli dei dottori che dalla loro saletta corrono sul linoleum.
Eccomi seduto sul water.
La carrozzina è affianco a me nel bagno attrezzato per disabili, con piastrelle bianche e pareti rosa carne. Un’infermiera senza volto mi starà aspettando fuori. Devo chiamarla, ma non c’è fretta. È una cosa che saprò di dover fare anche tra dieci minuti, quando mi sarò scordato di essere quello che sono in questo momento e che poi credo sarò. Tengo lontano lo sguardo dalle mie gambe lattescenti e dai genitali molli, voglio liberarmi del loro ricordo come quando ci si pente di aver fatto o detto qualcosa di tremendo. Un infermiere bussa ed entra. Mi aiuta a rivestirmi senza dire niente, perché sa che le sue parole andrebbero perse per sempre; ma non sa che il silenzio delle cose non dette è più terribile del silenzio delle cose dette e non ricordate. Mentre mi aiuta nella rotazione per mettermi seduto sulla carrozzina, intravedo nello specchio una testa bianca che gira e si abbassa, il profilo di un cranio che non vorrei vedere mai e che invece vedrò ogni volta con l’irruenza e lo spavento della prima volta.
Una sera sorda
Le tue risa da bimba
Denti di neve
Mi stringono il braccio.
Alzo la testa e un signore è curvo su di me. Mi dice “Ciao, sono Italo. Eravamo in classe insieme”. Poi si volta e saluta una donna sui cinquanta e una ragazza che mi sono sedute di fronte. La signora gli dice che oggi fa freddo, che una nevicata come quella di ieri erano vent’anni che non si vedeva. Tutti e tre si girano verso di me e mi fissano. Capisco di essere molto lontano dal poter completare questo momento, i motivi stessi la mia presenza qui. La ragazza sorride, si butta in avanti dalla sedia e mi dice “Sai papà, ho trovato lavoro, adesso posso andare a vivere da sola!”. Mi prende le mani per cercare di rendermi completo. Per un attimo lo sono, ma lo dimenticherò. Dentro di me, l’inverno dei sentimenti.
Sogno sempre te
Ogni cinque minuti
D’inverno ci sei
Alzo la testa.
Una donna sui cinquanta si sta mettendo il cappotto. Le sue scarpe sporche di neve hanno lasciato una pozzanghera ai piedi della sedia. Affianco a lei una ragazza, si sta sistemando la sciarpa
Sono seduto sulla carrozzina.
Appiccicato al muro, mi trascino verso la finestra tirandomi al corrimano. È un inverno spaventoso, non finisce mai. Il gelo mi indurisce le cartilagini, mi divora il cuore freddo e mi sembrano anni che non vedo la luce del sole. So che un tempo tutte le persone avevano una faccia e tutte le vite erano complete. Una donna entra nel mio campo visivo e mi saluta, mi dice che ci vedremo domani. Ha una camicia di lino. C’è anche una ragazza. Si china su di me e mi bacia, non mi ritraggo. Prende il quaderno che ho sulle gambe, me lo mette nella mano destra e la stringe fino a farmi male. Mi bacia ancora, con le lacrime agli occhi. Mi riversa addosso il suo dolore, lo fanno tutti. Il dolore ci completerà.
C’è una resa lessicale, in questo scritto, che è più che esatta: perché qui non si tratta di mettere le parole al posto giusto, ma di trovare dei posti nuovi alle parole.
Il “cosa” si racconta è così idoneo al “come” si racconta che la sua lettura provoca assieme un senso di equilibrio e di vertigine: è come guardare il numero di sonnambulo funambolo che percorre la distanza finestra-finestra di due edifici s’un cavo della luce durante una notte farraginosa di foschia.
Un pezzo da serbarsi in una propria antologia personale, e ah!: se non fosse per quel intermezzo melò padre-figlia troppo edenico per non associarlo a un brutto scherzo giocato a una mente subissata dalla neve nella corteccia del cerebro.
Leggerlo è stato un piccolo privilegio.
Saluti,
Antonio Coda
Antonio grazie
In effetti l’intermezzo melò non sono mai stato sicuro se inserirlo o meno, proprio per quel suo essere “troppo”.
Alla fine ho ceduto, per il facile tornaconto del contestualizzare un minimo la storia, e renderla ruffianamente più struggente.
a presto
A me ricorda un Aldo Nove raffazzonato e pieno di difetti.
sui difetti devo concordare, ma posso chiedere quali?
su aldo nove… non lo leggo da anni (e dovrei rimediare), è un paragone curioso