Nuovi autismi 2 – La mia morte

di Giacomo Sartori

La mia morte è una cosa molto seria. Non ho detto estremamente seria, ho detto molto. Non mi va di essere preso per un mitomane. Siamo la bellezza di sette miliardi, staremmo freschi se ognuno inscenasse una tragedia greca per la propria morte. Resta pur sempre il fatto che da piccolo per addormentarmi mi immaginavo di essere appena deceduto: tutti erano molto tristi. Anch’io ero affranto, a sapermi morto: piangevo a calde lacrime. C’erano varianti riguardanti le circostanze del trapasso, per quel che mi ricordo sempre eroico, ma il succo del discorso era quello. Era bello essere così disperato nel letto caldo e confortevole: mi è rimasto il gusto per gli addormentamenti struggenti. L’esistenza potrebbe essere vista come una prova generale del decesso, è stato detto e ridetto. Uno si esercita e si riesercita, e poi un giorno passa all’azione. Spesso lasciando di sasso financo le persone più prossime. O addirittura se stesso. Una notte mi sono svegliato e non potevo respirare, i miei polmoni erano gomma bruciata. Metà del cuscino di piume sotto la mia testa era stato mangiato dal fuoco, come un ciocco di quercia si consuma lentamente in un caminetto. Solo che le braci gagliarde erano a cinque centimetri dal mio orecchio. Il fumo amaro che saturava la stanza e che mi aveva impastato i polmoni era quello delle piume d’oca bruciate. Ma per qualche motivo insondabile non sono morto: mi hanno rianimato e disustionato. E nemmeno sono morto quando mi sono allontanato un istante dall’asciugamano su una spiaggia dell’Algarve, sazio dell’ombra salsa della falesia. Qualche secondo dopo il mio giulivo asciugamano era seppellito sotto una coltre di enigmatici pietrami. La falesia era crollata proprio in quel momento, proprio in quel punto. Il mio sorriso è stato come ci si può immaginare un sorriso filosofico. Ma subito mi sono preoccupato per le chiavi della macchina, decedute nella catastrofe. Questi però sono per così dire gli avvertimenti, che conosciamo tutti. Il vero punto è prepararsi o meno alla morte, come farlo. La persona che stimo di più di tutte si prepara da anni. Si esercita al mattino presto e la sera, ma per me che la conosco bene è chiaro che si allena sempre. Lo si vede in fondo ai suoi occhi da husky e nel modo ineffabile e quasi immateriale di posare i piedi quando cammina. È evidente che la sua morte sarà una morte esemplare, con tutta quella preparazione. Anche morendo mi darà dei punti, come per tutto il resto. Io sono uno che arriva sempre all’ultimo istante, e che improvvisa. Per lo più male. Soprattutto la prima volta: sono sicuro che la terza volta, ma soprattutto la quarta, morirei molto meglio. Il mio migliore amico, che tutto all’opposto riusciva qualsiasi cosa al primo tentativo, e che considerava la sua esistenza un’opera d’arte, ha fatto anche del suo decesso un’insuperabile performance. Uno lo vedeva morire e si diceva: questo sì che sa tirare le cuoia! Lui che non aveva fatto che dissacrare, riusciva a essere edificante. Ha avuto un unico momento di tentennamento, quando la morfina non scalfiva più il dolore delle ossa sbriciolate conficcate nella carne, e noi non ci decidevano a eutanasiarlo. Si è messo a imprecare e a insultarci: sembrava di essere regrediti a un decesso normale. Ma aveva perfettamente ragione, eravamo noi in torto: una volta rispettato il patto, ha ripreso subito il ruolo di morente esemplare. Il vero problema è il ciclo del carbonio. Noi dobbiamo morire per chiudere il sacrosanto ciclo. Insomma, per permettere ai vermi di chiuderlo. Contrariamente a quello che si pensa comunemente i vermi non fanno solo un ricamo di buchi, in primo luogo ruttano e scorreggiano. Noi diventiamo peti e rutti di vermi, e l’anidride carbonica di cui eravamo costituiti ritorna nell’aria, pronta per essere divorata da rigogliose piante di insalata che a loro volta verranno pappate da uomini nati dopo di noi. A meno di non optare per la gassificazione accelerata in un crematorio, nel qual caso i vermi poveracci muoiono di fame. Un giorno ho scherzato sull’età di mio padre. Lui mi ha guardato fisso negli occhi, e con le mandibole tese mi ha detto: bisogna vedere se tu ci arrivi. Lì per lì mi è sembrato che il suo fascismo mai sopito avesse una recrudescenza. Ma probabilmente aveva ragione, la facevo facile. Lui è morto in maniera epica, battendosi strenuamente con un’ostinazione cruenta ma anche fragile di umano. Senza alcun rispetto per l’avversario, che io invece riverisco, e un po’ anche corteggio, e anzi un risentimento livoroso. Certo l’idea di non vivere più mette a disagio, abituati come siamo a pensarci vivi. Poi però in men che non si dica ci si abitua a tutto, lo sperimentiamo ogni giorno. Non vedo il senso di tutta questa morbosità del dopo: noi non abbiamo mai saputo quello che avremmo incontrato una volta svoltato l’angolo di un isolato, e proprio lì stava il bello. La cosa incresciosa in realtà è che muoiano gli altri. Se uno fosse davvero servizievole aspetterebbe a morire per ultimo – proprio come davanti a una porta una persona dabbene fa passare per primi gli astanti – in modo da non fare soffrire atrocemente amici e parenti. Come dire, un minimo di altruismo. Oppure bisognerebbe coordinarsi per morire tutti assieme, intendo nello stesso istante, in maniera da non fare favoritismi, e da non fomentare dolori inutili. Forse proprio per questo disordine mia madre non ha mai sopportato i defunti. Li ha sempre sradicati seduta stante dai suoi discorsi, come si licenzia un dipendente colto con le mani nel sacco, come si disereda un discendente che ci ha delusi. Diventavano aria, sbracciamenti nel vuoto durante le sue perorazioni senza sostanza. Il vantaggio del suicidio è la possibilità di mettere a punto nei minimi dettagli la coreografia, il che a molti morti, soprattutto quelli con afflati estetici o etici, o anche solo molto nevrotici, dà parecchia soddisfazione. La cosa mi ha sempre attirato, dico la verità. Nelle morti ordinarie bisogna affidarsi al caso, il che può essere spiacevole: non si sa dove si andrà a parare, in compagnia di chi. Soprattutto adesso che si preparano epocali riscaldamenti e cataclismi. Da un po’ noia, non avere alcuna garanzia. Dopo tanto penare uno desidererebbe una morte tranquilla e confortevole, in un certo senso dovrebbe essere un diritto sindacale. Ma se potessi io opterei pur sempre per una delle morti struggenti della mia infanzia, e piangerei calde lacrime su me stesso, su quello che non sono stato.

[immagine: Chardin, “Panier de prunes avec un verre d’eau”, 1759]

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