Ingo Schulze / Arance e angeli
Il presente articolo è apparso sul «manifesto» del 24.06.2011 con il titolo Geografie mentali di Ingo Schulze.
«Come si è perduto ogni fascino della finzione!, pensai allora pieno di malinconia. E come si è perduto ogni piacere nel gioco del senso… o così sembra». L’adito ai ‘bozzetti italiani’ di Arance e angeli, nuova prova letteraria di Ingo Schulze nella nitida traduzione di Stefano Zangrando, è questa epigrafe tolta a un lungo racconto di Wolfgang Hilbig, maestro in ombra della prosa tedesca del Novecento. Posta com’è a sigillo di una serie di studî in cui la finzione invece accampa tutti i suoi diritti – tanto più forti quanto la narrazione di Schulze è programmaticamente debole –, essa è la replica, sotto altri cieli letterari, a un inconsolabile lamento per il naufragio dei sogni e delle scommesse della fantasia. Hilbig, infatti, risponde da lontano alla nostalgia che il «giovane cacciatore» della Montagna runica di Ludwig Tieck provava, dopo aver desiderato ardentemente di mutare vita, una volta ritornato a casa: «Come si è perduta la mia vita in un sogno! – esclamò tra sé. – Quanti anni sono trascorsi, da quando discesi per questo cammino».
Entro questo circolo di voci, dunque, difesa dallo scudo della letteratura, si compie l’idea di un libro di viaggio ancipite: nella sua apparente sfiducia verso la finzione, ossia nella consapevolezza del suo fallimento, Schulze, che non va a caccia di attestati di realtà o diplomi naturalistici, rivendica per la letteratura una supremazia conoscitiva sul reportage, sul documento, persino sulla storiografia. Tenta perciò una sua via per girare al largo dagli stereotipi classicisti e archeologici, ancorché l’io narrativo viaggi attraverso l’Italia portando sottobraccio, insieme a Tucidide, anche J.G. Seume, che fu tra i modelli della prosa odeporica e illuminista tedesca, insieme al classicismo rivoluzionario di Georg Forster, più analitico e critico, oltre naturalmente al Goethe passeggiatore: tutti continuano ancora, per un autore di lingua tedesca, ad allungare la loro ombra sul presente.
Nelle nove narrazioni del volume, intervallate da un folto gruppo di fotografie di Matthias Hoch, Schulze stampa sulla campitura neutra della modernità i suoi personaggi dolenti e tristi, pensionati, mendicanti, uomini in esilio, ciascuno non solo portatore di parola, ma latore di una storia, come nel caso del Signor Candy Man o Augusto, il giudice. Per mezzo di essi si effettua un arco talmente ampio intorno ai cliché, è così opaca la superficie dei racconti, che questi ‘bozzetti’ non paiono provenire dall’Italia, ma da una regione a tutti più nota, dalla celluloide universale su cui s’imprimono i segnacoli, a volte delicati e protettivi, del mercato, dove rampa lo stemma araldico di una squadra di calcio o risplende di luce propria il mobilificio progressista. A generare una breve meraviglia saranno allora le piccole smagliature sonore, le differenze fonetiche nella pronuncia della catena del supermercato, quell’oggettualità misteriosa e irrevocabile dei messaggi economici. «Che cosa rende in definitiva la réclame tanto superiore alla critica?» si domandava Benjamin, «Non ciò che dice la rossa scritta mobile del giornale luminoso: la pozza infuocata che, sull’asfalto, la rispecchia». In questo può succedere che la prosa di Schulze subisca la forza gravitazionale del luogo comune: consapevolmente, ma senza opporvisi, come nelle pagine su Napoli, si scende per la china dello psicologismo, dove i partenopei si mostrano più cordiali, più maturi degli abitanti di altre metropoli, non hanno «forza né tempo per le illusioni».
Tuttavia quel che a Schulze preme realmente è la geografia dell’immaginario, l’occasione narrativa, meglio se distesa nel tratto romanzesco, come nel lungo inserto di Augusto, il novellista che racconta un miraggio di felicità e di peripezie erotiche: è tutto letteratura al quadrato. Sottilissime venature creano un interscambio continuo tra la realtà e l’opera, come quando leggiamo che una certa casa, gialla e abbracciata dall’edera, non esiste se non nel racconto pensato da Augusto, appartiene solo ai dominî della fantasia (mentre la ritroviamo poco più là, in una fotografia di Hoch, gialla e abbracciata dall’edera); oppure, ancora, nella fisionomia dell’amico Ralf, che nel racconto eponimo del volume si rimpinza di arance, proprio come Seume nel suo Spaziergang nach Syrakus im Jahre 1802, che spesso si salva dalla fame grazie alle arance siciliane.
Gli studî di Arance e angeli costituiscono il precipitato narrativo del soggiorno di Schulze a Villa Massimo, scenario drammaticamente ‘rococò’ e opulento dove ogni anno, a Roma, rinverdisce il sogno del Grand Tour settecentesco. Fra i molti ospiti che si sono avvicendati nel tempo, ve n’è uno a cui, durante la permanenza, è riuscito il proprio capolavoro: questi è Rolf Dieter Brinkmann (1940-1975). Portatosi dietro, per difesa e oltraggio, Fiume senza rive di H.H. Jahnn, non c’è forse scrittore più di lui che abbia maggiormente odiato Roma. «Et in Arcadia ego!» sottolineava Brinkmann alla Stazione Termini, in quella che gli sembrò l’antiporta dell’Inferno, pensando al motto che Göthe (sic) premise al Viaggio in Italia. Spirito sarcastico e avverso alle convenzioni, disperato e lucido, registrò in molte pagine di Rom, Blicke la fascinazione e la ripugnanza verso il kitsch museale. Al contrario, malgrado tutto, le parti migliori di Schulze sono quelle il cui il mondo classico ritorna come il perimetro certo e sicuro dell’umano, il cerchio in cui iscrivere il proprio destino: «Che miracolo, pensai, che anch’io possa appoggiarmi a queste colonne, giacché nel nostro mondo le pietre durano a malapena qualche secolo. Nell’istante in cui le mie dita seguivano le scanalature, mi parve che non vi fosse nulla di più umano di quello spazio – come se l’annuncio di quel miracolo dovesse bastare a porre fine a tutti i crimini e a ogni distruzione».
Il racconto eponimo del volume è stato pubblicato da Nazione Indiana nel 2010, nella collana delle Murene: qui.
Ingo Schulze, Arance e angeli / bozzetti italiani, traduzione di Stefano Zangrando, con fotografie di Matthias Hoch, Feltrinelli 2011.