Due o tre cose che sto imparando con e su TQ

[Segnalo, già che ci sono, anche questo versante dell’offensiva mediatica di TQ]

Giuseppe Zucco

Breve storia tascabile della mia avventura in TQ.

Ho seguito TQ dal primo vagito, dal primo stringato articolo apparso sulle pagine di un quotidiano nazionale. Per mesi ho setacciato giornali periodici siti blog per tenermi aggiornato e saperne ancora. Finalmente leggo i primi manifesti licenziati sul web – e la notte stessa, senza neanche aspettare che la lettura si cristallizzi nell’elenco dei punti deboli del discorso, o nella forma di una conoscenza condivisibile, il tipo di folgorazione che ti costringe a intensissimi rapporti telefonici nonostante l’ora, annoto l’indirizzo disponibile, e scrivo la mia lettera di adesione.

Due giorni dopo sono primus inter pares nel gruppo e/o movimento TQ. La difficoltà adesso è seguire il fiotto di mail che si deposita ogni giorno nella mia casella postale. Risalire giornalmente le mail fitte di impegni proposte critiche scritte in orari imprevedibili da gente che perlopiù non so che faccia abbia è tanto disperante quanto salutare: scalare quelle mail, il numero crescente delle adesioni, dà conto di quanto sia buona forte giusta l’idea che ci lega tutti insieme.

A monte della breve storia tascabile: le motivazioni.

Cosa mi ha spinto fino a qui? La consapevolezza del disastro, la consapevolezza del disastro umano storico simbolico materiale in cui mi tocca vivere oggi, la consapevolezza del disastro umano storico simbolico materiale in cui mi tocca vivere oggi in aperta affollatissima solitudine, rassegnandomi nei momenti di lucidità a essere pedina del disastro o a non essere. Dopo avere letto i manifesti, la sensazione è strana: sembra tutto talmente ovvio. Non ce l’abbiamo sempre avuto sotto gli occhi il disastro? Non è l’allegria da fine dei tempi che respiriamo dalla prima adolescenza? Non è la stessa fitta intercostale che taglia il respiro impedendoci di prendere sonno? E se è così, se il disastro ci avesse perversamente fatto dono di questa estrema consapevolezza, cosa fa di tutte queste ovvietà un territorio aperto in cui tornare a vivere e sognare? Mi tornano alla mente le righe ricopiate qualche tempo fa su un quaderno, un passo neanche troppo lungo di Dispacci, il libro-reportage scritto da Michael Herr sulla guerra del Vietnam:

“[…] ci volle la guerra per insegnarmelo, che eri responsabile di tutto ciò che vedevi come di tutto ciò che facevi. Il problema era che non sapevi sempre cosa vedevi, se non dopo, forse anni dopo, che buona parte di quel che vedevi non arrivava mai alla coscienza, si limitava a restare immagazzinato nei tuoi occhi. Tempo e informazione, rock and roll, la vita stessa, non sono le informazioni ad essere bloccate, tu lo sei.

Ecco: se la letteratura non è altro che la continua risonanza di idee e sentimenti e sogni e incubi in luoghi ed epoche diverse, capisco allora che tutto sarebbe rimasto un’abbacinante parata di ovvietà se non ci fosse stata un’assunzione di responsabilità nei confronti del mondo circostante – dal generale, la società intera, al particolare, il lavoro culturale o gli spazi pubblici o la scuola o qualsiasi altra cosa che ci tocca da vicino. Anche se, ed è bene precisarlo subito, l’assunzione di responsabilità individuale e collettiva che si deposita giornalmente nella mia casella postale e che presto si avvererà nelle forme meno prevedibili, non è una scelta. In tutto e per tutto, non siamo per nulla di fronte al bivio etico di una scelta definitiva:

Credo invece che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E liberi. Alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Fumo una sigaretta, sono responsabile. Chiudo gli occhi, sono responsabile. Dimentico di essere responsabile, ma lo sono. No, è quello che ti dicevo prima. Voler evadere è un’illusione.

Jean-Luc Godard, scrivendo girando montando Questa è la mia vita, nel 1962, aveva ben chiara una cosa che solo in mezzo all’assoluto disastro si può comprendere: l’assunzione di responsabilità nei confronti del mondo circostante, più che con la possibilità di una scelta, ha un legame di sangue con la necessità.

A valle della breve storia tascabile: le reazioni.

Ovviamente, questa percezione non è un’esclusiva TQ. Si potrebbe perfino obiettare che ogni tempo abbia il suo disastro, e che ogni disastro generi in qualche modo i suoi anticorpi, e che i suoi anticorpi si muovano compatti allungando il proprio senso di colpa sulla storia, chiedendosi dov’erano prima, perché ci abbiano messo tutto questo tempo per intervenire, perché mai tutto debba avvenire sempre come una reazione contro qualcosa e/o qualcuno. Ma che sia il disastro o il senso di colpa o uno spirito del tempo o qualcosa che abbia a che fare con la riproduzione delle cellule – un fenomeno, insomma, nella sua costituzione e nei suoi esiti, totalmente mondano e assolutamente intimo e personale – questa necessità sembra essere avvertita da tutti. Ma in maniera diseguale. Da quando TQ si è esposta con i suoi primi manifesti sulla scena nazionale dei media, più che un dibattito culturale si è acceso il fuoco della polemica. A conti fatti, nel mare aperto del disastro, con qualche eccezione, moltissimi invece di puntare il dito verso Moby Dick, cercando di capire come e dove la balena corteggi le correnti, puntano il mirino della loro attenzione sul Pequod, stimando non tanto la gittata delle lance e degli arpioni, quanto la stazza della baleniera, e la numerosità dell’equipaggio, i tatuaggi e le cicatrici dei componenti dell’equipaggio, i rapporti genealogici tra i diversi componenti, senza tralasciare la tradizione di montare la mascherina del capitano Achab sul naso della prima vedetta a tiro. Addirittura le cose cominciano a rotolare peggio se si considerano le ultime epifanie giornalistiche. La necessità di un cambiamento di rotta è sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno la nomina apertamente, magari per timore di svegliare il mostro: al fuoco della polemica si preferisce la stilettata, il graffio, il buffetto, la strizzatina d’occhio. Di tutte le figure linguistiche, l’allusione, a tratti velenosa, ricorre come un ritornello. E sarà il disastro o il senso di colpa o uno spirito del tempo o qualcosa che abbia a che fare con la riproduzione delle cellule – proteggersi e ripararsi dagli urti della realtà, prima cosa – ma tutto sarebbe più ecologico se il mostro lo si nominasse nuovamente, e lo si continuasse a nominare: e tutti, TQ o meno, lo si guardasse dritto negli occhi.

A latere della breve storia tascabile: una consolazione.

[…] ma è pur certo, se può servirle da consolazione, che se prima di ogni nostro atto ci mettessimo a prevederne tutte le conseguenze, a considerarle seriamente, anzitutto quelle immediate, poi le probabili, poi le possibili, poi le immaginabili, non arriveremmo neanche a muoverci dal punto in cui ci avrebbe fatto fermare il primo pensiero. I buoni e i cattivi risultati delle nostre parole e delle nostre azioni si vanno distribuendo, presumibilmente in modo alquanto uniforme ed equilibrato, in tutti i giorni del futuro, compresi quelli, infiniti, in cui non saremo più qui per poterlo confermare, per congratularci o chiedere perdono.” (Cecità, José Saramago, 1995).

27 COMMENTS

  1. “capisco allora che tutto sarebbe rimasto un’abbacinante parata di ovvietà se non ci fosse stata un’assunzione di responsabilità nei confronti del mondo circostante”.
    Non capisco questa necessità di fare terra bruciata con i discorsi e le esperienze pregresse, al punto da catalogarle come “ovvietà”; tendenza che emerge anche in alcuni passaggi del primo manifesto, e in particolare nella sua chiusura: “Siamo ormai pienamente convinti, infatti, che non sia più sufficiente dedicarsi ciascuno per sé, con distaccata purezza, all’arte e alla letteratura: oggi più che mai è necessario praticare un’alternativa umana e comune al lungo sonno della ragione.”
    Non lo capisco perché stimo il lavoro di alcuni tra i firmatari, e non mi pare che abbiano campato scrivendo ovvietà, o beandosi nella purezza dell’arte. Perciò continuo a non capire, perché non voglio pensare che si tratti semplicemente di qualche svista: è dunque questo l’effetto di una concezione della politica che vuole espellere dal proprio orizzonte l’estetica, poiché “TQ si è raccolta, dunque, non attorno a istanze estetiche, bensì politiche e sociali”?

  2. A PROPOSITO DEI TQ (MOBY DICK SIETE VOI)

    “L’uomo è un problema che non ha una soluzione umana”, scriveva Nicolas Gomez De Avila.
    Sarà per questo che tutti i tentativi di assorbirlo nella sua zolla di nascita (i determinismi dell’ambiente, della condizione economica, della genetica) finiscono per distruggerne la costituzione morale, la sua volontà di forma e di destino.
    La trascendenza dal presente e la fede nell’immortalità hanno guidato per millenni l’avventura umana, consegnandoci opere destinate a durare, che oggi non siamo più capaci nemmeno di concepire, e non parlo solo delle piramidi o delle cattedrali.
    L’illuminismo borghese, che avrebbe potuto essere uno di quei salutari momenti critici, capaci di spazzar via concrezioni idolatriche e restituire allo spirito la sua creatività, si è trasformato in una coazione a ripetere, che fa della negazione il suo unico atto ossessivo e autodivorante.
    Il carattere presunto “progressista” consiste ormai unicamente nell’elaborazione di una mitolatria del soggetto, composta di narcisismo e vittimismo in ugual misura, il cui carattere demistificatorio è in realtà puramente risentito e denigratorio, vivendo parassitariamente di ciò che afferma di combattere. Un esempio: la chiesina atea dello UAAR, che fa del cristianesimo il responsabile dei mali del mondo e incita ossessivamente allo “sbattezzo”, come gesto liberante e propiziatorio, senza accorgersi di ripudiare il rito per scadere nel ridicolo dello scongiuro.
    Nessuna autocritica di fronte al clima sempre più evidentemente depressivo che circonda le giovani generazioni, alla pochezza delle manifestazioni artistiche e politiche in genere, ridotte allo statuto vittimario di lobbies inferocite, che chiedono maggiore riconoscimento e procedono nella disintegrazione del corpo sociale. Manca il coraggio di ammettere che la democrazia così intesa è solo un altro nome per ciò che normalmente s’intende come nichilismo, e che Nietzsche definiva come l’epoca dell’”ultimo uomo”

    In questi giorni è tutto un via vai di articoli giornalistici, manifesti programmatici, associazioni generazionali di gente di cultura e operatori dell’editoria, che si propongono di moralizzare l’ambiente e dirottare energie pubbliche e private dal becero consumo all’arte “impegnata” e di qualità. Sono i TQ, un gruppo di intellettuali Trenta-Quarantenni, tra cui si possono riconoscere alcuni scrittori, editors e blogger che godono di già ampi spazi nel Web e altrove, in quanto appartengono all’unica area ideologica cui si riconosce (anche da parte dei maggiori media) una vera e propria posizione culturale. Avranno ancor più visibilità, completata la procedura del reclutamento, ma non è questo il problema e non è neanche una novità.
    Sono trent’anni buoni che assistiamo alla nascita di queste parrocchie che spacciano il proprio perimetro ideologico per i sogni di un’intera generazione.
    In realtà si tratta di autopromozione. Di sè e dei propri sodali. Di un “politicamente corretto” nel fare scrittura, editoria, cultura e spettacolo. Sperando nel consenso e nello sfruttamento della militanza gratuita di un pubblico potenzialmente ampio, quello dei lettori “de sinistra”.
    E’ dalla fine del movimento che poteva ancora credersi rivoluzionario (cioè dal ’78 o giù di lì) che le conventicole intellettuali della galassia pseudo-radicale si comportano così. Il ragionamento è più o meno sempre quello: noi siamo i buoni, abbiamo provato a cambiare il mondo, se non è riuscito non è colpa nostra. Adesso potremo pure averne un po’ di rendita, in termini di credibilità e visibilità nell’inferno capitalistico, in quella nicchia dove si fabbrica l’unico prodotto per cui il concetto di merce vale e non vale, cioè quello culturale, o no?
    Così gli ex direttori di Lotta Continua sono diventati anchorman, Attila uno scrittore di successo, i fuorusciti dai centri sociali presidiano le case editrici e i blog alla moda. Ma prima lo facevano da singoli, la novità è che in gruppo e meglio, chiedendo addirittura di rappresentare un’intera generazione anzi due. Sotto un marchio che non essendo quello di una Chiesa o di un Partito può somigliare solo a quello di una loggia massonica.
    Il cortocircuito sta proprio nella relazione tra “soggetto” e “oggetto” del discorso. Chiedere maggiore attenzione, risorse e spazi pubblici per ciò che ha uno spessore artistico più evidente del mero prodotto d’industria culturale, implica un criterio e un interesse pubblico. Se a stabilire il medesimo sono redattori di case editrici, riviste o blog e scrittori che già attualmente si collocano in un perimetro di vedute e di relazioni ben definito, a volte ai limiti del settarismo (per esempio avete mai provato a spiegare ad Andrea Inglese, firmatario dei manifesti, che un cattolico può essere qualcosa di diverso da un cameriere di Ratzinger?), la “pubblicità” del discorso tracima nell’alveo della preferenza ideologica. Infatti l’aspetto generazionale del TQ è cosa abbastanza risibile, rispetto alla sua identificazione culturale, che è la solita, cioè quella che già attualmente spadroneggia negli spazi web e editoriali “di qualità”: la qualità sono loro, lo sappiamo da tempo.
    Si tratta di operazione “egemonica” nel senso gramsciano, molto più che di un contributo all’estetica e all’etica della trasparenza, su cui sono sicuro che il “reclutamento” manifesterà criteri di selezione anche ben diversi da quello generazionale (basta leggere l’intervista del transfuga Antonelli ad Affaritaliani per intuirlo, quando dice che il TQ a proposito dell’attività culturale e pubblicistica “individua una non meglio definita ma tuttavia unica morale e soprattutto – cosa più grave per la mia sensibilità – autoelegge un gruppo di persone a garante e vigilante di quest’etica”).
    Mi spiegate cosa c’è di diverso da quello che io vedo quotidianamente da trent’anni a questa parte, da Alfabeta a Nazione Indiana?

    Ora vorrei dire a questa nutrita pattuglia (tra cui ci sono anche diversi scrittori per cui ho personale stima): voi siete la malattia di cui credete di essere la cura.
    Lamentate l’esiguità dei lettori italiani che cercano “la qualità” a fronte delle orde di consumatori di Moccia, thriller svedesi e Melissa P e chiedete spazi e denaro pubblico per un’editoria protetta, che preservi l’impegno anticapitalistico e lo sperimentalismo nell’arte non sacrificata all’onnipotenza del mercato.
    Ma non vi passa mai per la testa che avete i lettori che vi meritate? Ancor più chiaramente, che la presunta complessità e la ricercatezza di cui vi ammantate nasconde un tale vuoto d’anima, una rappresentazione nichilistica e umiliante dell’essere umano, una incapacità di offrire all’uomo visioni di futuro, che non può che respingere chi ancora non ha contratto lo stesso morbo? Perchè i miei nonni con la terza elementare leggevano Manzoni e Tommaso Grossi e un perito elettronico di oggi chiude Moresco (o uno qualsiasi degli autori per cui strillate al capolavoro) a pagina 17?
    La storia ridotta al cannibalismo degli antagonismi economici, l’amore alla negoziazione sessuale, l’opera alla superfetazione di un corpo e di una lingua senza soggetto, questo è quello che offrono le vostre rappresentazioni artistiche, e vi stupite che chi tiene più alla vita che all’estetica della decadenza preferisca letteratura di basso consumo con tanto di lieto fine?
    Basta considerarne le conseguenze sulla psicologia dell’attuale generazione per accorgersi di quella che Henri J.M. Nouwen chiama “la paralisi dell’uomo nucleare”, il quale “ha perduto il senso della propria creatività, che sarebbe poi il senso dell’immortalità. L’uomo, quando non sa più guardare oltre la propria morte, mettendosi in rapporto con ciò che giace oltre lo spazio e il tempo della propria esistenza, perde il desiderio di creare e l’eccitazione di essere uomo”.
    E’ questo, cari miei, il problema fondamentale, e non istituire riserve protette per lo scrittore o l’editoria post-moderna.
    Per fare quel che dite di voler fare, cioè rinnovare le patrie lettere e dare una nuova moralità al circuito culturale dovreste cominciare da voi stessi, rinnegando una visione del mondo che è umiliazione dell’uomo e suicidandovi come militonti e settari per rinascere come persone.
    Non lo farete, e al posto del berlusconismo in declino ci offrirete l’ennesima versione di un politically correct sterilizzato da ogni autentica pulsione vitale: la cosmetica del cadavere, prima di consegnare al sepolcro il caro estinto, cioè quella che fu un tempo la scommessa europea, nata dal felice incontro di Atene, Roma e Gerusalemme e oggi moribonda tra i diktat della finanza internazionale e il globalismo dell’accidia.

  3. Il fenomeno TQ è interessantissimo, ad averci tempo. E’ la dimostrazione, tutt’altro che sforzata ad uscire e palesarsi, che giornali critica militanza e corporativismo culturale possono edificare un Monstrum letterario senza nemmeno il bisogno di mettere sul piatto una ben che misera, posticcia, snaturata operuccia, manco di carattere straccio e bucolico (senza voler entrare nel merito dell’antica fisarmonica dei generi classici).
    Questo solo a livello preliminare.
    Svuotando poi il sacchettino, ben modesto, delle istanze TQ c’è da torcersi la pelle per capire se siamo svegli o se si dorme alla grossa: motti di modifica della società, di scalfittura del sociale, di acquisto di responsabilità collettive, affrancamento, risoluzioni e via tacendo (cheèmeglio come diceva qualcuno dei puffi)…
    Per me, state cercando di fare entrare il cavallo di Troia dove sappiamo tutti, che scemi sì, siamo scemi, ma non Tanto Quanto…

  4. @ Giuseppe Zucco
    Leggendoti, m’è venuto spontaneo sintetizzare il tuo discorso così:

    Prima di TQ il deserto.
    Arriva TQ e il mondo si salva.
    Super TQ: senza di me il mostro vince.

    E se cominciassimo a praticare un po’ di sana “ecologia” nei discorsi?

    @ Valter Binaghi
    “L’uomo” […] non ha soluzione umana”?
    “Trascendenza dal presente”?
    “Fede nell’immortalità”?
    […] “scommessa europea, nata dal felice incontro di Atene, Roma e Gerusalemme”?

    Stai – permettimi – ideologizzando il discorso. Anzi, rischi di apparire più ideologico dei TQ, soltanto portatore di un’ideologia diversa.

    Mi tengo stretto i TQ.

    NeGa

  5. “Pubblicare meno, pubblicare meglio” è lo slogan di Marco Cassini (titolare di Minimum Fax e aderente al movimento TQ). E ciò stride con la pubblicazione di manifesti e carteggi TQ che, a oggi, non saranno meno di settemila.
    Ne ho letti tanti e ho chiacchierato dal vivo con numerosi aderenti al TQ, perché rimango convinto del fatto che se uno le cose non tenta di conoscerle è difficile che possa farsene un’idea. Positiva o negativa che sia.
    Ora, alla collezione di conoscenze, aggiungo anche il video con Abbate e Di Gesù.
    Apprendo, tra l’altro, che l’impegno dei TQ è rivolto ad abbattere il precariato nell’editoria e le vergognose elemosine con le quali vengono pagati i traduttori.
    Bene, leggendo i nomi degli aderenti ai TQ, si tratta per lo più di persone perfettamente inserite e stipendiate nel mondo della editoria. E’ una squadra dove magari non c’è alcun Lionel Messi, ma che complessivamente ha un livello medio tipo Quagliarella, va’. Che è centravanti della juventus e nel giro della nazionale, mica una scarpa.
    E quindi, questi Quagliarella dell’editoria sarebbero pronti a scendere in campo, a versare sudore e sangue per la sorte del terzino del Crevalcore o del centrocampista del Collepepe. Bene, ciò è addirittura commovente e fa ben sperare nel futuro di questo Paese dove persino la demagogia appare più costruttiva dei discorsi di Stan Bersani e Oliver Berlusconi.
    Apprendo, poi, di una non meglio identificata presa di distanze dal Gruppo 63. Non capisco bene in cosa si sostanzi questa presa di distanze. Ma forse dipende anche dal fatto che quando ho tentato di parlare con alcuni TQ del Gruppo 63 ho avuto l’impressione che lo ritenessero un gruppo beat rivale dell’Equipe 84.
    Per ora, comunque, in manifesti, editti, videomessaggi, sms e grida vedo emarginato o assente del tutto il lettore. Il lettore, avete presente? Quell’ineffabile figuro al quale, datati TQ come Cervantes, Dumas e Wilde si rivolgevano direttamente nelle loro prefazioni o nei loro prologhi.
    Gente superata, probabilmente. Come Stevenson, Dickens o Steinbeck.
    Per ora quoto Abbate che, a conclusione del video, afferma: darei il Nobel a Moccia, perché è uno che non rompe il cazzo.

  6. L’articolo di Giuseppe Zucco è notevole. La parte che mi interessa di più è il tempo dell’impegno: il momento dove la scelta diventa chiara. Una limpidità che fa ritrovare felicità e speranza. Uscire della rassegnazione.
    Sono curiosa di vedere lo sviluppo del progetto, come osservatrice, posto commodo per me, come lettrice. Se puo immaginare TQ come un pianeta.
    Ci sono anelli, siamo li, intorno alla pianeta, facciamo parte del movimento, anche se siamo alla margine. Ho ammirazione per chi vuole cambiare le cose.

  7. @Ng
    Fatti un giro su Wikipedia e vedrai che parole come “trascendenza”, “fede” o “cultura europea” non sono patrimonio di una chesina o di una setta ma sono patrimonio universale del pensiero degno di questo nome. D’altro canto, il clericalismo (che mi fa abbastanza senso), non è patrimonio di organizzazioni religiose, come TQ e il settarismo di sinistra dimostrano agevolmente da decenni. Se vuoi liquidare quel che ho scritto come ideologico, padrone di farlo. Ma l’istanza in nome della quale io contesto questa nuova versione di “familismo psuedoprogressista” è semplicemente quello di un’umanesimo integrale, di una restituzione della letteratura ai lettori piuttosto che alle esigenze di chiericio frustrati, disposti a mettere in discussione tutto (dalla politica alla sensibilità dei lettori medesimi) tranne se stessi, il proprio particolarismo sterile.

  8. @gregori
    Senza farla lunga, sarebbe interessante chiedere a Minimum Fax (visto che tra i TQ c’è la redazione in gran completo)
    1) Quanto paga un traduttore
    2) Quanto di anticipo a un autore esordiente (gli unici soldi che l’autore vedrà mai, nel 90% dei casi)
    3) Quanto uno stagista
    ecc.

    Così vediamo se il medico ha curato sé stesso prima di spacciare vaccini.

  9. @ Valter Binaghi
    Io non contesto il fatto che siano patrimonio dell’umanità, ma che possano diventare criteri di valutazione delle opere o “guida” della creazione; in questo senso ho scritto che stavi ideologizzando il discorso: perché anteponi quelle “qualità” al discorso stesso. Nient’altro.

    NeGa

  10. @Ng
    Guarda che parlare di qualità letteraria è inevitabile (e infatti anche i TQ lo fanno) perchè altrimenti l’unico interesse in gioco sarebbe, come suggerisce Gregori, quello di una corporazione di professionisti, cioè una lobby. Io invece voglio restare sul piano dei contenuti, e denunciare che quello che risulta fallimentarte perchè elitario e illeggibile oltre che deprimente è proprio la poetica che lo scrittore ideologizzato a sinistra ha espresso negli ultimi decenni, contribuendo moltissimo a dirottare il gusto di un pubblico più largo sui prodotti di un’editoria massificata e scadente.
    Abbiamo la sottocultura di destra peggiore d’europa perchè abbiamo l’intelligentsja di sinistra peggiore d’europa, da decenni: egemonica, smosciante e piagnona.

  11. quando ho tentato di parlare con alcuni TQ del Gruppo 63 ho avuto l’impressione che lo ritenessero un gruppo beat rivale dell’Equipe 84

    Fantastico! Un intero manifesto condensato in poco più di venti parole!

    Mi ricorda le risposte che mi ha dato un* coinvolt* in Alfabeta 2, quando **/* ho chiesto: “Lo sai che c’è stato un Alfabeta 1?” – “Ma davvero?” – “Hai mai sentito parlare di Gianni Sassi?” – “E chi è?”

    Grazie Gregori, mi hai risparmiato la lettura di qualche migliaio di pagine inutili.

  12. oh, forte questo binaghi. le dice giuste.

    “vogliamo sputare nel piatto in cui mangiamo” dice cortellessa su la stampa. l’immagine dà un po’ il voltastomaco, per quanto idiomatica. non capisco se dobbiamo intenderlo come un atto di coraggio. un po’ schifo lo fa. mmmh… ma non potevano pensarci prima di aver mangiato tutto? e poi: perché devono proprio sputare in pubblico, e tutt’insieme? certo però è bello pensare che anche persone che lavorano per mondadori mettano la firma per “contrastare i deserti e le derive che il consumismo e il capitalismo hanno prodotto nel campo della cultura”. dev’esser loro andato qualcosa di traverso.

    lorenzo carlucci

  13. p.s.

    comunque mitico cortellessa. per diventare tq toccherà correre dal parrucchiere e chiedere “un «taglio» generazionale, residuo della primitiva impostazione «antipolitica», dai più avvertito come respingente” (a.c. su la stampa, 4 agosto 2011).

  14. @ fm:
    non so (davvero non so) se il tuo commento fosse ironico. replico, comunque, a ciò che leggo. e replico affermando che non sottovaluto affatto il TQ. Sono anche convinto (o almeno lo spero) che solo una minima parte degli aderenti ignori cosa abbia rappresentato il Gruppo 63. Quello che (al momento) non visualizzo, sono l’obbiettivo e le strategie. Insomma, i TQ mi ricordano il topolino che seguiva il branco di elefanti scatenato a buttar giù alberi e case. E quando uno ha chiesto al topolino: ma che state a fa’? lui ha risposto: non lo so. ma stamo a fa un casino!

    @ binaghi:
    e magari con qualcuno che lavora con Minimum Fax ci ho parlato. Ma il punto, secondo me, non è tanto di vedere come razzola chi predica. Qui si parla di movimento. Ao’, sarò nostalgico, ma è una parola che evoca prassi oltre che pippe. Visto che poi, anche con la prassi, non è detto che si ottenga qualcosa, figuriamoci se si rimane alle pippe.

  15. @Enrico Gregori
    Trovo ci sia almeno un tantum di pudore endogeno a non affiancare TQ al Gruppo 63, anche se qualcuno l’ha fatto. Non nutro simpatia e ammirazione per molti del vetusto 63 ma mi accappono a costringerli sotto la stessa casacca. manco volendo metter su un’amichevole amarcord Italia del passato-Italia del presente. tanto più che io di Quagliarella non ne vedo proprio, manco una scarpa… e di Messi nemmeno i lacci, in Italia come nel gruppo TQ: tra l’altro, se un Messi ci fosse stato, non avrebbe avuto bisogno di questa giostrina per far vedere come si palleggia o scarta una difesa avversaria…

  16. @ dinamo seligneri:
    prendo atto del tuo punto di vista che, peraltro, non è isolato. io mai stato democristiano, però mi insospettiscono gli estremismi. noto, grosso modo, che sul TQ (ma in Italia succede su tutto, persino sull’opportunità di usare la margarina al posto del burro) ci si divide tra assolutamente sì o assolutamente no. insomma, a leggere la valanga di commenti e resoconti, c’è chi li considera degli arrivati, ma con (in)sane velleità di pervenire a una fama universale, a un asso pigliatutto come accade nelle lobby più collaudate.
    C’è chi li ritiene invece in perfetta buona fede e animati da uno spirito umanitario a confronto del quale Salvo D’Acquisto sembra il prototipo dell’egoista.
    Di mestiere faccio il cronista, e sono abituato a vedere di persona la gente e fisicamente le cose (se possibile) prima di farmene un’opinione. E, almeno per quanto riguarda i TQ, ho visto e sentito quello che ho potuto.
    Al momento, per me, si è capito chi sono. Ma non ancora cosa sono.
    D’altro canto, mi risultano anche poco chiare le ragioni per le quali numerosi trenta-quaranta che sono conosciuti editor e/o scrittori, hanno accuratamente evitato di arruolarsi nei TQ. Quando ho domandato “perché no?”, mi è stato risposto “ma ‘sti cazzi!”.
    Il che è sintetico, ma un pochino criptico. Specialmente da parte di chi con le parole lavora.

  17. @Enrico Gregori
    Sicuramente, la mia posizione non è isolata, né nuova, (ipersevera?), ma non è estremista (e nemmanco democristiana -bella comunque la sua freddura-) forse potrei dire che è figlia di una ripulsa per le associazioni sindacali, l’azionariato culturale puzzone di simile fatta ed è molto scettica, soprattutto, sul valore di quelli che la compongono (i CHI SONO, che sappiamo…).
    Lei è un cronista, a me piace il piglio del cronista. E come tale, le dico che questi ancora non hanno fatto n’cazzo (stringando e decriptando). E non l’han fatto né sulla carta, se non per mezzo di motti e sms, quindi di romanzi qua non si vede niente, né tantomeno come fatti di… fatto.
    Vedo solo segnali di fumo, cui le emittenti amiche rispondono con altrettanti nuvoli di fumo (ogni riferimento all’indianismo è casuale).
    Quindi le dico che per me, di fronte a ciò che TQ ha finora prodotto, l’unica posizione “seria” è uno scetticismo d’attesa, anche molto acuto, ma non d’estremismo visto che se facessero qualcosa oltre la propaganda, non avrei problemi a riconoscerglielo. Questo a livello pratico, editoriale, visto che per quanto riguarda tutto il versante d’estetica letteraria non vedo punti di contatto tra la loro idea di narrativa e quella che interessa me.
    un saluto

  18. “coi miti non bisogna aver fretta”,scriveva Calvino.Sulla stessa falsariga qualcuno attribuisce al Pancani di giochi senza frontiere l’affermazione double-face secondo cui “prima di passare alla storia è meglio passare alla cassa”.Un’iniziativa come quella di Tq ha bisogno di tempo mentre aspetto che qualcuno con una sintesi da manuale riesca a descrivermela in meno di 2 minuti senza farmi pensare,a un computer impazzito(come scrissero sulla trama di D.o.a.)al tq dei tempi del gruppo 63,a Tel Quel,la rivista francese fondata da Sollers&Hallier o al concetto che provarono a inculcarmi all’università durante le lezioni di ragioneria che portava lo stesso nome.In ogni caso Buon proseguimento

    http://bogdan.gameszone.ro/music/My%20Old%20Music/Ionis/Dalida%20&%20Alain%20Delon%20-%20Paroles%20Parol.mp3

  19. @ simone ghelli

    quando parlavo di ovvietà, di abbacinante parata di ovvietà, mi riferivo alla premessa che introduce il manifesto TQ/1:

    “Nel nostro Paese quei diritti del lavoro che erano sentiti come naturali sono stati sempre più indeboliti, e hanno cambiato di significato a seconda di chi li nominava. Lungo i nostri confini, intanto, si agitano e premono ogni giorno, con le diverse ribellioni della migrazione e del tumulto, le urgenze di milioni di uomini e donne ai quali si è scelleratamente risposto quasi solo con i CIE, veri lager dissimulati.
    Se questi tempi ci sono dati da vivere, e questi sono i tempi che possiamo leggere, in cui possiamo scrivere, è giocoforza per chi lavori nell’ambito della letteratura e dell’editoria passare, dopo molti anni di indignazione solitaria, ad analisi e azioni comuni da condurre con la nettezza radicale del dovere. Questo significa, innanzitutto, osservare il diffondersi del neoliberismo come un’epidemia dell’Occidente, non solo a causa delle destre ma anche di alcune presunte sinistre e dell’inconcludenza delle altre forze politiche; riconoscere tanto quella pericolosa incarnazione demagogica del pensiero neoliberista che è il berlusconismo, con il suo portato insostenibile di autoritarismo, di sprezzo della legalità e di saccheggio, per bande private, dei beni comuni, quanto quell’ignobile razzismo padano che è il leghismo; constatare il decadimento della partecipazione democratica, il degrado dell’informazione, la distruzione del patrimonio culturale e lo smantellamento del sistema scolastico pubblico, nonché l’espulsione mirata delle donne dal mondo del lavoro e la rappresentazione deformata dei loro corpi nella pubblicità e nei media da parte di una società a cui sembra essere ancora estranea una vera cultura della differenza; ma significa anche, infine, agire, provando a correggere, nei limiti del possibile, il deficit di rappresentanza politica, la definitiva perdita di autonomia decisionale del Parlamento, la confusione e la volgarità del discorso pubblico, l’autodifesa a oltranza di quella che è un’oligarchia politica de facto, incapace di ascoltare le esigenze delle fasce più deboli, le rivendicazioni dei movimenti della società civile e le spinte di una moltitudine di cittadini senza cittadinanza in un Paese ormai multiculturale.”

    purtroppo, è talmente compromessa la situazione italiana oggi, che i fenomeni qui elencati appaiono come “dati strutturali”, o “dati naturali”, o “dati acquisiti una volta per tutte”. caricare su di sè, in forma individuale e collettiva, la responsabilità dell’analisi e del cambiamento di questi fenomeni, significa soprattutto restituire questi fenomeni alla loro condizione di “transitorietà”. oggi sono il nostro paesaggio quotidiano: ma tutti insieme auspichiamo, scommettiamo, lavoriamo perchè così non sia domani.

  20. @ ng

    pensavo di essere stato abbastanza ecologico, ma rilancio in versione ridotta e stringata:

    chi più chi meno, tutti oggi sono consapevoli del disastro: ogni tempo ha il suo disastro, ogni disastro genera in qualche modo i suoi anticorpi, il gruppo/movimento tq è solo l’ultimo arrivato tra gli anticorpi – visibili e meno visibili – che si stanno riproducendo con grande fermento oggi.

  21. @ valter binaghi

    prendo un punto qualsiasi del manifesto tq/2 sull’editoria:

    “Trasparenza. TQ promuove la trasparenza e la pubblicità, da parte degli editori, delle modalità di ottenimento e di gestione dei finanziamenti pubblici (contributi, provvidenze, agevolazioni) e le eventuali forme di reinvestimento non lucrativo. TQ invita inoltre a compiere un’opera di divulgazione dei meccanismi – e delle anomalie – che governano la filiera editoriale.”

    vogliamo parlare di questo, e di qualsiasi altro argomento che sia attinente, o continuiamo a caricare a salve il pistolotto “della trascendenza dal presente e della fede nell’immortalità”?

    potrei sbagliarmi, ma credo che ormai sia un problema di chiusura identitaria: ognuno cerca nei propri commenti di far risaltare unicamente se stesso – la propria biografia, il proprio vissuto, il proprio immaginario, le proprie esperienze, la propria costruzione intellettuale – a scapito di tutto e di chiunque, schiacciando tutti e chiunque con il proprio tacco, senza alcuna possibilità di appello. la critica è una cosa, la demolizione è uno sport estremo che sconsiglio di praticare: la critica rende vivi e partecipi, la demolizione innalza se stessi al rango di vittima assoluta.

  22. @Zucco
    Peccato che la “chiusura identitaria” sia precisamente quello che mi par di vedere in un gruppo che (a parte la sciocchezza della discriminazione generazionale, buona per le classi di età degli aborigeni della Nuova Guinea), nasce ritagliando un preciso perimetro ideologico-politico (il che se non sbaglio ha provocato numerose defezioni) e infatti gli auspici alla “qualità” dei vostri manifesti sono pensiero forte, mentre “la trascendenza dal presente” (che sarebbe l’unico modo per appartenere a una dimensione storica e non cronachistica) è un “pistolotto”.
    Se non avessi l’età che ho e non avessi visto un certo numero di conventicole nascere sotto questi auspici, potrei quasi crederci, anche perchè siete stati bravi a sovrapporre alla pregiudiziale ideologica quella “professionale” degli operatori del settore. Ma allora perchè non proporre un sindacato?

  23. @ valter binaghi

    con tutto il rispetto per i sindacati, qui non si tratta più di sindacare: ma di rifondare e riformulare il territorio che abitiamo ed esperiamo.

Comments are closed.

articoli correlati

Il cuore è un cane senza nome

di Giuseppe Zucco Una volta, lei, entrando in bagno, l’aveva trovato dentro. Non aveva bussato, né si era sincerata in...

waybackmachine#04 Giuseppe Zucco “Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate – Una lezione di Peter...

Ogni domenica, noi redattori di Nazione Indiana ripubblicheremo testi apparsi nel passato, scritti o pubblicati da indiani o ex-indiani,...

Leggere i romanzi

di Giuseppe Zucco Lei allora leggeva a lui un estratto del suo nuovo romanzo Lei allora leggeva il proprio estratto, e...

Il Valle dopo il Valle (intervista a Valerio Aprea)

a cura di Carlo Baghetti Ritornai a vivere in Italia, dopo una parentesi durata alcuni anni in Francia, a causa...

La carta da parati

di Giuseppe Zucco Non è cosa da poco possedere un fagiano, o anche solo riceverne la visita. Sylvia Plath Alle prime luci dell’alba,...

Proprio qui, tra stato di natura e stato di grazia

di Giuseppe Zucco Un'intervista-dialogo con Nicola Lagioia su La Ferocia Al contrario dei tuoi precedenti romanzi, Occidente per principianti (Einaudi, 2004)...
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.