Il Valle dopo il Valle (intervista a Valerio Aprea)

a cura di Carlo Baghetti

Ritornai a vivere in Italia, dopo una parentesi durata alcuni anni in Francia, a causa di due ragioni: l’occupazione del Teatro Valle e la crisi politica di Silvio Berlusconi. A dire il vero le ragioni erano tre, ma la terza purtroppo è durata troppo poco: la generazione TQ.
Ci volle poco tempo a rientrare nel giro teatrale che lasciai prima di partire. La curiosità mia e l’eccitazione che vedevo in giro era tanta, tantissima. Certo non mancavano voci critiche, di persone che lavoravano al Valle fino a poco tempo prima e che erano state lasciate per strada o di patentati scettici, ma tutto sommato la capitale, ovviamente quella che frequentavo e che ero venuto apposta per conoscere, era entusiasta.
Un giorno però, in un noto teatro cittadino, incontro la direttrice artistica nonché mia amica e la prima cosa che le chiedo è cosa ne pensa del Valle. Tutto crolla. Mi parla senza troppi peli sulla lingua di “concorrenza sleale”, mi spiega l’aspetto più tecnico-economico della macchina teatrale portando avanti argomenti fondati sul cachet, sulle utenze del teatro, commissioni SIAE, sui diritti acquisiti degli spettacoli e tutta una serie di punti a sfavore, non del Valle ma del circuito teatrale che gli ruota intorno (sia pubblico che privato). Improvvisamente vedo davanti a me un altro mondo. La direttrice artistica, questo bisogna dirlo, specificava però a più riprese, come se si sentisse a disagio, che quelli erano aspetti “imprenditoriali” del teatro e che non voleva dire essere contro l’iniziativa da un punto di vista ideologico.
A quel punto vedevo due realtà: quella ideologica e quella imprenditoriale. Una scelta di campo? Per me il gioco era facile, non essendo un imprenditore, ma decisi di raccogliere la testimonianza di vari direttori artistici e tirare un bilancio. Ma vuoi il lancio delle stagioni teatrali (era settembre/ottobre 2011), vuoi l’argomento rischioso sul quale pochi vollero esporsi, il progetto naufragò in poco tempo. Però il Valle restava, era attivo, e io continuavo a incontrare attori che ci erano passati e che avevano idee diverse. Ho raccolto qualche intervista, con l’idea di fare un libro sul fenomeno delle occupazioni dei teatro (non solo a Roma, ma anche Milano, Venezia, Pisa, Napoli, Catania, Palermo, Messina), ma poi i giorni ti trascinano via e del progetto rimane qualche pagina e qualche intervista.
L’intervista a Valerio Aprea, bravissimo poliedrico attore teatrale romano, che però ha recitato molto anche per serie televisive e cinema, è quella che mi sembra più interessante, perché fornisce una lettura ampia del fenomeno-teatro in una grande piazza come Roma (piazza difficilissima per tutti, quanto Milano) legando di volta in volta molti aspetti, da quello storico a quello più commerciale. Il punto di vista dell’attore, a metà strada tra il pubblico e chi sta dietro le quinte (come i vari direttori artistici), mi è sembrato molto interessante per avere una lettura né apologetica dell’esperienza-Valle, né tantomeno denigratoria.

°

– Il 15 aprile 2011 viene occupato il Cinema Palazzo. Come hai salutato questo evento?

Con grande favore. Sono stato contattato direttamente dagli occupanti e mi sono subito messo a disposizione. Ne è nata una prima serata con il collettivo Voci nel Deserto e in seguito due o tre mie partecipazioni all’interno di eventi da loro organizzati.

– Nell’estate 2011 viene occupato il Teatro Valle ed ebbe una grande risonanza mediatica. Come hai vissuto questo evento? Hai partecipato? E negli altri teatri?

E’ stato diverso. Non sono stato coinvolto direttamente dagli occupanti come per il Cinema Palazzo, se non in un momento successivo. Del resto io stesso ho avuto un atteggiamento più articolato nei confronti di quella occupazione.

– Sia il Cinema Palazzo che il Teatro Valle hanno sottratto un luogo storico a istituti privati che miravano a prendere possesso di quei luoghi per creare profitto. Sembra una lotta tra il bene (l’arte) e il male (il capitale): come finirà secondo te questa sfida?

Vanno però distinte le due situazioni. Il Cinema Palazzo era già stato ristrutturato per diventare una sala giochi/casinò. Il Valle aveva solo chiuso la sua ultima stagione con la prospettiva di non riaprire, o il rischio di finire in mano a privati. Dietro alla storia che ne volessero fare un bistrot sinceramente non so se ci fosse il rischio di una nuova sede Eataly, oppure l’eventualità che in un questo nuovo scenario gestionale privato, si optasse per un assetto sul modello del Quirino, dove effettivamente si è creata un’area ristorante/libreria nel vecchio foyer. Nel primo caso quindi, la contrapposizione tra un ‘male’ in quanto ricerca di profitto prepotente, prevaricatore e anticulturale, e un ‘bene’ inteso come possibilità di arte, cultura e politica sociale, era direi senz’altro schiacciante e lampante. Nel caso del Valle la questione è diversa, e l’eventuale gioco di forza tra arte e capitale assume contorni semmai più sottili e complessi allo stesso tempo.

– Dopo l’occupazione del Valle altri teatri in tutta Italia hanno seguito l’esempio. Questa protesta diffusa mette l’accento sui problemi, quali sono le soluzioni?

Intanto va detto che tutta la questione ha proporzioni, temo, più grandi di chiunque di noi. Io posso solo accennare a quelli che a me sembrano problemi ed eventuali soluzioni. Per quanto riguarda i problemi, credo che tutto parta da due grandi dati di fatto. Uno antico, l’altro recente. Il primo è la connaturata ‘allergia teatrale’ del nostro paese. Nell’agenda di un cittadino italiano, la voce ‘teatro’ è agli ultimi posti (ammesso che ci sia), senz’altro preceduta da cene, pizze, cinema, tv, calcio ecc ecc. Pertanto quello teatrale, in Italia, è da considerarsi un mercato risibile. Se a questo aggiungiamo il secondo dato di fatto, più recente dicevamo, e cioè la crisi, ecco che quella voce rischia di sparire davvero definitivamente dalle agende superstiti. La conseguenza è che un cittadino italiano, prima di decidere di voler devolvere deliberatamente del proprio denaro ad uno spettacolo teatrale, deve avere la matematica certezza che quel denaro gli venga reso, e con gli interessi, in termini di divertimento/gratificazione iper-assicurati. E questa garanzia gli è fornita solo da ciò che è noto. O meglio da ciò che è notoriamente garanzia di tale divertimento/gratificazione. Qui nasce lo spartiacque tra il teatro possibile e quello impossibile. Quello cioè fatto con i ‘nomi’ e quello fatto senza. Semplicemente perché i ‘nomi’ avranno la possibilità di veder riconosciuta la propria garanzia di tornaconto gratificatore da un numero vastissimo di persone estranee, gli altri solo da quel numero molto circoscritto di persone che li conoscano direttamente. Una soluzione potrebbe essere il tentativo di riattivazione di uno star-system teatrale autonomo, l’utilizzo cioè di strumenti mediatici volti all’emancipazione della riconoscibilità teatrale da quella televisiva o cinematografica. Ma questo dovrebbe essere collegato, a sua volta, ad una riappropriazione di spazi comunicativi e giornalistici da parte del mondo teatrale. Cosa che invece, negli ultimi anni, sempre più va prendendo la via opposta.

– L’occupazione di un teatro istituisce uno spazio pubblico di parola, di confronto. Quanto mancava questa possibilità in Italia? Si è effettivamente realizzata?

Sia chiaro, l’occupazione del Valle, come del Cinema Palazzo e di tutti gli altri, è comunque un evento molto forte, senz’altro epocale. E sicuramente hanno offerto, più che spazio fisico, direi nuovo spazio mediatico alla parola e al confronto, quanto meno sul teatro e la cultura in genere. E sicuramente vanno a collocarsi nel più ampio scenario dei movimenti dal basso di questi ultimi tre-quattro anni.

– Credi che la nostra società “liquida”, se non “gassosa”, possa sfruttare uno spazio del genere o l’agorà è diventato il web?

Appunto mi riferivo ad un impatto più mediatico che di luogo preciso, proprio perché i grandi movimenti/spostamenti di idee avvengono ormai in rete. Certo qui stiamo parlando di un teatro e delle sue sorti, per cui inevitabilmente poi la questione dovrà risolversi nel luogo fisico. E dunque il problema centrale sarà trovare il giusto equilibrio tra mediaticità e località, tra il digitale della comunicazione e l’analogico del teatro.

– Il teatro si fonda sulla potenza della parola, quanto negli ultimi anni il teatro è stato depotenziato come strumento politico? Quali mezzi sono stati utilizzati per depotenziarlo?

A me sembra che ormai da anni sia in atto quella che chiamo una pulizia etnica nei confronti di un ethnos inteso come popolo dei fruitori-operatori della cultura. Il teatro, come la cultura in generale, si sa, è mezzo di elevazione delle coscienze. Dalla notte dei tempi chi comanda sa perfettamente che il comandato, meno si evolve e meglio è. Meno si accultura e più è comandabile. Il risultato è che da un lato si va riducendo sempre più il campo di azione di chi fa il teatro, restringendo ad esempio l’area della comunicazione, gli spazi per la critica teatrale, i ‘luoghi’ cioè dove se ne parli, e dall’altro che i veri e propri spazi fisici, i teatri, via via stanno chiudendo, o si trascinano agonizzanti contro la stretta impietosa delle logiche di mercato. Ne conseguirà gioco forza l’assottigliamento tra le fila del pubblico che sentendo parlare sempre meno di teatro, avendo sempre meno spazi dove andarselo a cercare, finirà per sfaldarsi, disunirsi, disperdersi fin quando non proprio per estinguersi totalmente. A Roma in particolare la situazione è ormai gravissima. Si sta verificando un fenomeno molto singolare. Da una parte il proliferare di una miriade di teatri off, che se da un lato rimangono una fonte preziosa di fermento di base, di sottobosco vivace foriero di potenziale linfa per i ‘piani alti’, dall’altra corrono il rischio di andare ad alimentare un rumore di fondo, una dispersione, che confondano e disorientino lo spettatore nel proprio percorso di formazione critica e fruitiva del teatro. Quei ‘piani alti’ poi sono sempre più a pannaggio di una categoria di teatri che sembra non conoscere crisi, e cioè quelli dell’intrattenimento, dell’evasione e della linea più leggera della proposta teatrale, mentre i luoghi storicamente deputati ad un teatro più impegnato, anche solo di contenuti, quando non proprio di ricerca, stanno via via estinguendosi.

– Quanto pesa l’industria culturale sul teatro?

Appunto l’industria dovrebbe essere proprio quella teatrale, come accade all’estero, nel senso che potenzialmente il teatro può benissimo e anzi deve essere considerato come una forma di business al pari di qualsiasi altra, se solo in Italia, oltre all’azione antropologica-culturale sulla popolazione si effettuasse quella di alleggerimento economico-fiscale intorno alla macchina teatrale. In tal modo quello del teatro potrebbe tornare ad essere un mercato sostenibile ed autosufficiente. Ma fin quando alla parola industria invece della definizione di culturale, si affiancherà quella di commerciale, si continuerà tristemente ad inseguire sì la sostenibilità del sistema, ma dalla parte sbagliata.

– Il mondo delle produzioni teatrali a cosa bada?

Come ho appena detto, ad ottenere la sostenibilità dell’impresa teatrale, attraverso però la sicurezza delle logiche del mercato. Naturalmente non vale per tutte le produzioni, e generalizzare è sempre rischioso. Esistono alcune realtà che coraggiosissimamente perseguono linee di intatto rigore etico-artistico. Bisogna vedere poi se il mercato premia i loro sforzi, o se invece al loro rigore rispondano effettive proposte di qualità, validità, talento e via dicendo. In altri casi si cerca di raggiungere quel difficile equilibrio che coniughi una forma di garanzia commerciale con l’assoluta tutela del prodotto artistico. E personalmente, credo che di questi tempi sia una delle possibili e auspicabili vie da seguire.

– Come ha influito la possibilità di avere spazi teatrali “aperti” nella dialettica tra lavoratori dello spettacolo, produzioni e pubblico?

Non saprei

– Secondo te i teatri privati devono temere quelli occupati?

Bè, certamente, una controindicazione a quest’era delle occupazioni teatrali, può essere ravvisata in un rischio di concorrenza sleale, con cui indubbiamente gli spazi occupati dovrebbero fare i conti.
Ricordiamoci bene che lo scopo ultimo di far funzionare un teatro è sempre e solo quello di renderlo economicamente sostenibile tutte le sere, per almeno sette mesi, col tutto esaurito, a prezzo intero, e paga regolare per maestranze, compagnie ecc. Facile, altrimenti, avere la fila fuori per l’esibizione gratuita di star nazionali o internazionali.

– Come sopperiscono i teatri occupati l’inesistenza di leggi che tutelino i lavoratori dello spettacolo?

Non saprei

– Conosci un modello legislativo che permetterebbe una vita più tranquilla a chi fa questo mestiere?

Sinceramente non di preciso. Ripeto solo che probabilmente si dovrebbe pensare ad un alleggerimento fiscale per gli operatori del settore e un generale snellimento amministrativo e burocratico. Per fare alcuni esempi, l’assurdità della partita Iva imposta ad attori, trattati poi nei fatti come dipendenti che, senza essere scritturati, non possono pagarsi da soli l’agibilità.

– Per un attore, autore o compagnia è più facile dialogare con i teatri occupati?

Mah, sì e no, nel senso che poi anche i teatri occupati devono fare le loro scelte e decidere le linee da adottare. Dipende quindi da chi è l’attore, l’autore, o la compagnia.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.