compendio minimo della sproporzione
compendio minimo della sproporzione:
tre esempi di enormità
I
call me ishmael
“gather’d in shoals immense, like floating islands”
che le balene volino non è certo un mistero. che somiglino ai dirigibili, nemmeno. il ventre imbottito di elio, le atmosfere, l’alluminio: in una balena tutto, davvero tutto fa pensare a un dirigibile. perciò le balene galleggiano sulle nostre teste – ma come gabbiani, portate dal vento, senza muovere un muscolo. planano dalla ionosfera fino al nostro cielo, così basso, e vengono per noi. e noi a vederle piangiamo a dirotto, perché ci sembrano la pace.
ma ciò che più ci intenerisce è la loro sbalorditiva somiglianza ai morti. e non mi riferisco solo alla coda, o alla pinne, ma a questa mania di spiaggiarsi, di finire il fiato. così, oggi, nessuno saprebbe distinguere il canto di una megattera da quello di un morto.
non è un caso, infatti, che gli antenati delle balene fossero mammiferi, e che venissero sulla terra per partorire. alcuni cuccioli scavarono tunnel fino al centro della terra, e col tempo divennero placche tettoniche. altri restarono sulle rive, ed ora sono scogli. noi stessi siamo i discendenti dei primi cetacei, sfuggiti al riflusso delle acque, alle cieche mosse delle testuggini avviate al mare. non siamo enormi, è vero, ma siamo stanchi, e la stanchezza è un esito dell’enormità.
le balene sono, si capisce, animali acquatici. le spugne cicliche che emergono con uno scoppio, un risucchio verticale. una parabola, un monito: “noi abbiamo portato l’acqua sulla terra; e cosa possiamo sperare se non che evapori?”. il Vangelo secondo Moby Dick.
Per noi uomini una balena può essere avalon o atlantide, indifferentemente. in ogni caso un’isola, un continente primordiale e immacolato, la placenta sciolta della pangea. un capodoglio che si morde la coda. un eterno ritorno impacciato, l’esatta forma del cosmo.
quel che importa davvero delle balene, comunque, non è il nome. (questo vale, invece, per i gatti). quel che importa è che su di loro grava il silenzio immane del sangue. sono creature agoniche, stremate da una tenerezza terminale. tutti gli uomini muoiono in un solo modo: di morte. le balene, invece, muoiono di peso. per questo precipiteremo tutti – o, se preferite, coleremo a picco: per il loro peso, in bilico tra gli oceani e i nostri tetti. una curiosa “fedeltà alla terra”, un tributo alla gravità, la grancassa sfondata degli inizi. L’addome liquido di Dagon, dagli abissi. tutto è vanità e un rincorrere il vento, certo, ma l’ago della bilancia trema ancora. e sui piatti non troviamo un soffio nel dio, ma un peso di balena, il tracollo delle acque. le sacche del diluvio pronte a esplodere, l’eredità dei nostri padri che precipita il perdono e ci scorta con la sua mole smisurata, ci tende la sua pinna caudale. il Leviatano addomesticato.
infine: è plausibile che le balene si radunino sulla luna con una certa frequenza, assieme a tutti gli altri oggetti. dall’oceano pacifico al mare della tranquillità, in un tonfo di sonno. e così spieghiamo le maree: quando le balene nuotano sulla luna le acque si ritirano, per poi alzarsi al loro ritorno.
per questo motivo le balene sono davvero palloni aerostatici, mongolfiere lunari, palpebre allagate di stanchezza. e si fanno carico del nostro sonno. poiché il sonno di una balena è sempre spaiato, sacrificato ai polmoni, al respiro volontario. una veglia inesausta, lo stillicidio dei sommersi. giacchè nel sonno non c’è peso. come nel mare, come sulla luna.
questo è quanto ho visto delle balene, almeno per oggi. ed è vero, anche, che nessuno ha mai visto una balena, una balena intera, perché nessuno ha occhi abbastanza grandi. Già sant’agostino, d’altronde, ha spiegato quanto sia vano tentare di mettere una balena in una buca. e noi, nelle nostre credenze, non abbiamo che cucchiaini. buoni per il thè, per lo zucchero e i dosaggi.
a noi, dunque, non resta che una consolazione: fino a quando esisteranno animali immensi, esisterà un’ombra capace di accoglierci, un riparo.
anche se ora non sembra. anche se ora, nonostante le balene e i dinosauri e gli elefanti, siamo solo brutti, e moriamo di sete.
anche se domani – lo sappiamo bene – è il peggior domani di oggi.
– – – – – –
II
lettera sull’estinzione dei dinosauri
il led del videoregistratore, questa notte,
mi è sembrato un fantasma. ora dinosauri a fascicoli
e miniature della X fretensis – mai dipinte,
nonostante i buoni propositi – sono un invito transitorio
per le anime dei salvati. ed è un miracolo
che le coperte fino al mento separino
i vivi e i morti – dove altrimenti le mani i piedi
nudi crescerebbero in numero – poi non basterebbe
la stanza.
tutti abbiamo un materasso, e temiamo
si perda – tra colossi di scaglie e amianto
– nell’epopea scalza
delle orme – temiamo
soprattutto il freddo – come tutte le cose
nella clemenza del rifugio.
vi dirò del sonno
che è una resina mesozoica
e la resa dei mobili, squamata – poi altro – un canale
della trachea, o una varietà
dell’estinzione.
probabilmente, la fine di un’era geologica
– la processione di bestie enormi e tristi
e lente – i nostri unici amici – retrivi
e senza più un artiglio.
dei dinosauri ricordiamo i volti di gorgone,
le corazze intatte – le mandrie curve
nel passaggio della fine. da allora
sono racchiusi, tutti, in gemme d’ambra
– e capita tornino, soli tra i giganti
per far vacillare gli assi, e la terra.
(un dinosauro è sempre il rovescio
di una testuggine, il terrore straordinario
che accresce i mansueti)
le loro code di iguana
frustavano l’aria – ma così immense –
perchè la morte potesse, un giorno
trovarli ovunque.
così il mercurio nel suo grado – le placche
blindate – e il giorno avanza
tra le pietre e la sabbia
e la sillaba manichea, anche – negli spazi liberi
dove i nomi cedono per un pasto
e un passo di rettile sfonda
il torace delle ore.
– – – – – –
III
norme viventi
la sepoltura dei morti è un modo di contare l’ombra
che risale alla piena dei passi, dimezzare la parola
contro il varco o come
distribuire il dolore in parti eguali e tutti
rendere grazie al suo unico
principio di conversazione – mentre qualcosa
resiste alla vita come
a un’inondazione, una scorreria di cellule
tutto procede senza interruzioni
finché l’evento non chiede asilo al regno
degli invertebrati e in osservanza
alle leggi più abissali assume
una densità altra, sconfessa quella severità
dello scheletro per resistere al fischio
della pressione che confeziona la silhouette
in vista dello scoppio
e l’interezza dei pesci e degli dei mirabilmente
assistono la concorrenza
di niente in vari
e pratici formati (l’idea è che le cose, nella discesa
sostituiscano al peso
un dispositivo
di sicura efficacia)
e l’evento di cui prima
semplicemente non può esistere e plana
uno strato più in basso, perviene al tappeto
del discorso, si deposita
nel vuoto
*
è dunque prassi che la stazza dei morti
sia incrementata per ragioni
di compatibilità strutturale, in adeguazione
alla morte e alle recenti norme (la prima non conosce scomparti
ma scomparsi e potete facilmente riconoscerla, enorme
e si presenta sempre tutta, dunque ciascuna morte
si configura come una strage, una frana integrale)
perciò un cadavere non conosce pace da che
inizia ad ingrandìrsi
fino a quando non spicca il volo e certamente occorre indagare
riguardo questa sproporzione
tra estensione e vita, ed è difficile in tutto questo
rinunciare a un distretto
immacolato, fare a meno del vuoto
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Che taluni scrivano non è certo un mistero. Che lo facciano iniziando la frase senza la maiuscola è …? Un vezzo? Pigrizia? Lotta contro la regola? Perversione? Soltanto a partire da questo piccolo particolare si può arrivare al fondo – al fondo filosofico, etico, estetico, persino calcistico – di un testo. Ora, c’è una funzione di Word, in realtà presente in tutti i word processor, che rende in automatico la maiuscola in inizio di frase; l’autore, evidentemente, l’ha resa innocua. Davvero, mi chiedo: perché? Con i miei allievi pochi dubbi: un bel cinque! Ma qui siamo in un blog letterario, dunque si presume che la scelta sia pensata, non casuale, e direi fondamentale – visto la reiterazione – per la poetica dell’autore. Solo che in alcuni punti – dopo alcuni punti – la maiuscola appare, all’inizio di un capoverso o dentro una frase, appare. Perché questa differenza di trattamento? Un caso? Un controllo sbagliato del componimento? Tutto è vanità – scrive il Nostro autore. E le maiuscole? Un gesto di negazione puro e semplice che vuole metterci di fronte all’indicibile? Un tentativo di scavalcare la banalità della lingua? A cosa equivale quella maiuscola mancata? La scrittura, insomma, è per essenza allegorica. A cosa conduce quella presa di distanza? Quale segreto vuole spingerci a cercare? La scrittura è anche una cerimonia. Saltarne le maiuscole significa forse laicizzare la cerimonia? Un prete che si presenta all’altare in mutande? Un chierichetto che gioca alla play-station durante l’offertorio? Si può anche dire: la scrittura è un’esecuzione orchestrale; la maiuscola mancata è un’inizio in sordina. Il direttore d’orchestra, l’autore nel nostro caso, trattiene il principiarsi del suono, come a voler impedire alla folla in ascolto l’adorazione. Ma il mutismo iniziale ha il suo rovescio: spinge l’ascoltatore a domandarsi: perché? Se scopre, se l’ascoltatore scopre la mancanza di un perché? Se non c’è un perché, ci si chiede: perché? Perché iniziare una frase senza la canonica maiuscola? Ma in canonica, si dirà, si svolge il nascosto, l’incontro fugace tra l’officiante e la perpetua, nella sveltina adeguata al tempo. E allora, anche la maiuscola mancata è un singolare compromesso tra volontà di trasgredire e confusione; essa fa della sua esistenza la sua stessa assenza … Cosa la rende autorevole? La presentazione: il blog, chi la posta, il curriculum dell’autore, il contesto di ricezione. Ah, è vero, oltre la maiuscola che non c’è, nel suo oltre, c’è dell’altro: un testo. Sì, sì; ma un testo è una strategia. Mi incuriosiva l’attacco, il programma così sfacciatamente tracciato nel principio. Che poi le balene volino o somiglino ai morti, francamente, non so che farmene: né saprei che farmene di una frase del tipo: “il silenzio immane del sangue” (e di quella: “tutti gli uomini muoiono in un sol modo: di morte”?, che farsene?). Ora smetto, devo andare a scuola; ho lezione. Lezione di oggi: se iniziate una frase senza maiuscola … vi dò un bel cinque! A meno che … A meno che non troviate una motivazione divertente, talmente divertente da farmi morire dal ridere; e, se l’autore mi permette, tra il morir da ridere e il morire investiti da un tir c’è una bella differenza …
Stan. L.
dev’essere stato proprio un brutto quarto d’ora.
In effetti, signor Stan, anche a me era zompato all’occhiello solo quella riduzione del maiuscolo. Mi chiedo sempre cosa voglia stare a mascherare. Ma m’interessa più quando è un refuso reiterato, max tre volte.
Nel caso del nostro autore, per altro autore di un testo di nuvole a pecorella, è chiaramente frutto d’un processo maieutico in cui l’Io sgrava, smagandolo, qualche sassolino da scarpa. Insomma “qua Io scrive poesia, Tu diventi tu”. Lo spazio è poco.
E’ come lo schiantarsi della spada di Damocle sulla testa, prima o poi, di qualcuno di noi. Prima della poesia a metro libero, s’era meno liberi di accoppiare le parole e giustamente si credeva che prima o poi, come negli scacchi, le combinazioni sarebbero finite. Liberare la poesia dalla mascherina del metro e della conta sillabica, ha dato per qualche tempo aria ai poveri poeti colti dall’asma. Oggi, non si sa, dopo un secolo e passa, quali finestre più aprire per far uscire l’aria viziata e farne entrare ancora di buona. Non è che la spada s’è schiantata su questo signor poeta qui scrivente?
Quando scende, la lama, tutte le teste mozza… i poeti si sono ridotti tutti a Mozzi.
Ciao, sono l’autore ma in maiuscolo, riponete spade di Damocle e sciabole: le minuscole sono più carine. Peraltro il loro impiego ad oltranza è una pratica piuttosto consolidata in giro per la rete. Sempre perché sono carine, graziose. Ciao2.
avrei voluto scrivere qualcosa del genere sui pippistrelli.Ma poi ho pensato che sempre che esistano sul serio non sono mai riuscito a vederne neanche uno,solo frammenti ingannevoli.Forse aveva ragione il vecchi tom alla caduta del settimo velo,”forse ci inventiamo tutto”(o magari dovremmo cominciare a concentrarci sul serio in un punto)
http://211.172.230.200/%C0%BD%BE%C7/John%20Lennon%20Discography%20Plus/Lennon%20Legend/John%20Lennon%20-%20Lennon%20Legend%20-%2015%20-%20Watching%20The%20Wheels.mp3
io che amo il Moby Dick di Melville come poche cose al mondo, appena ho letto “Chiamatemi Ismaele….” (letto rigorosamente nella traduzione di Pavese) ci sono caduta con tutte le scarpe e mi sono fiondata nella lettura!
e vabbè, famoli giocà, hermanno non se ne avrà a male. :-)
che goduria. anzi: cHe goDuRia.
Mi preme comunque rilevare, a qualche giorno di distanza, che il buon Sten-professore-ahfosseroimieialunni ha scritto un inizio, ma non lo ha scritto così: ha scritto “un’inizio”, con l’apostrofo. Chi volesse apostrofarlo di conseguenza, quindi, è libero di farlo.
il grammar nazi punito.
@Manuel
“… il buon Sten-professore-ahfosseroimieialunni ha scritto un inizio, ma non lo ha scritto così: ha scritto “un’inizio”, con l’apostrofo.”
Dico che se questa battuta l’avesse detta il Benigni di Johnny Stecchino, sarebbe da schiattar di risate, come effettivamente son schiattato a immaginarmelo.
SPero anche lei lo abbia scritto con tali e tanti intenti.
Ho scritto SPero per dissonare con Pero. Una stronzata.
Buon pomeriggio
Dialoghetto letterario
A – Un’inizio è sempre un inizio.
B – Certo; così come una Maiuscola apre sempre un’inizio.
A – Attento: un inizio.
B – Niente da fare, l’apostrofo mi scappa; ho problemi con la prostata. E poi, concedimelo: sono dentro un commento, a differenza della Maiuscola lassù.
A – Già; quella è letteratura.
B – E che letteratura! Vuoi mettere? Pubblicata su NI, dopo avere transitato in Gammmmmmmmmm … Merdre! Mi sono partite le “m”!
A – Ma irridere è nazi?
B – Nazista?
A – Questo non lo so; potrebbe essere anche nazi-onalista, ma pure nazi-onanista, e nazi-ortopedico, nazi-non so … Anche se propendo per la tua interpretazione: nazista.
B – Già, dev’essere così.
A – Ripeto la domanda: irridere è nazi?
B – Non vedo come potrebbe. Mi risulta che i nazi usassero il gas, i treni piombati, le V2, i Tiger, le Luger … No, il Signor Bortolotti ha proprio sbagliato il termine.
A – Arriverà un correttore anche per lui?
B – Non credo. Sono tutti amici.
A – Ma l’amicizia è un bene.
B – E chi lo nega? Solo che abbaglia.
A – La tua è invidia.
B – Certo. Sono il Grande Invidioso.
A – Senti, toglimi una curiosità: ma questi testi, questi che hai osato irridere, ti piacciono?
B – No, mi fanno ridere.
A – Ridere?
B – Li trovo ridicoli. Se mi fossi limitato a scrivere così: “testi ridicoli”, cosa sarebbe successo?
A – Gli amici, tutti in fila, a declamare sull’assurdità di scrivere commenti così … trancianti (?) … non riesco a declinare …
B – Ti ho capito, tranquillo.
A – Insomma, ti saresti tirato dietro gli strali di molti …
B – Probabile.
A – E allora hai scelto l’irrisione. E ti hanno chiamato grammar nazi …
B – Pensa che l’altro giorno mi hanno chiamato ipocrita! Sai cosa sostiene mia moglie? Sostiene che ipocrita viene da ippo, cavallo, e da cripto, nascosto. Quindi si dice che qualcuno è ipocrita quando nasconde un cavallo. Ma un cavallo non si nasconde facilmente.
A – Stai facendo letteratura.
B – Alta letteratura, di quella da consegnare ai poster.
A – “i”, hai dimenticato la “i”.
B – Hai ragione. Un ‘nizio non inizia senza “i”.
A – Andiamo via da qui, prima che chiamino le guardie.
Stan. L.
il grammar nazi piccato.
@ Bortolotti
Piccato? E se fosse? Almeno reagisco con ironia. Insistere sul “nazi” è solo da stronzi.
“Stronzi” è troppo. Capisco la reazione; son’io (con o senza ‘postrofo?), son’io che ho fatto irruzione in casa altrui. Mi scuso e, scusandomi, mi autopunisco con 12 frustate e vado a tenere a bada gl’altri apostrofi. Però, insomma, “nazi” è veramente fuori luogo, buttato lì come senza sapere il suo significato; e poi la mia invenzione su “ipocrita” è Grande Letteratura!
Stan. L.
absit iniuria verbis:
http://www.urbandictionary.com/define.php?term=Grammar%20Nazi
http://thegrammarnazi.tumblr.com/
Mitico! Ho scoperto un termine nuovo! Grazie-Gherardo-grazie!
Due appunti:
1) la mia sottolineatura della maiuscola mancata non era una questione di perfezionismo o di correttezza grammaticale, bensì di altro; e dunque, a rigore, il termine è inappropriato. Meglio sarebbe, a questo punto, riferirlo alla nota sull’apostrofo di Manuel: in quel caso è perfetto.
2) il concetto in sé, quello di grammar nazi, è una stronzata, questa sì: una vera idiozia linguistica.
your welcome.
il gatto del link è identico a quello che circola qui in campagna: ovviamente è il maschio dominante…)); personalmente la parte prosastica specie negli aspetti parodistici non è spiaciuta, quella in versi – confesso – l’ho saltata.
@ Dinamo: Dico che se questa battuta l’avesse detta il Benigni di Johnny Stecchino, niente, farebbe schifo uguale, pari pari.
@ professó: Ma se ti dico che accentare “do” ha senso più o meno quanto accentare “re” inteso come sovrano, “sol” inteso come sole etc. che succede? Non è che mi tiri fuori un altro wall of text? Chiedo, perché in tal caso non te lo faccio notare, mi tappo la bocca.
@ Viola: Ciao Viola, questa cosa l’hai scritta tu:
“All’ultimo respiro, accettando
l’orgoglio del soffio che resiste
insistere senza sgomento
né speranze,
nell’aria il pulviscolo traspare
levare l’attesa
e l’impazienza, scomparsi
cassetti scatole e valigie,
finiti i viaggi e gli orologi
con quelle lancette tutte uguali,
all’ultimo tocco una voce
più luce, chiara limpida
la vita,
chi va a chi resta siate felici.”
Sentitevi pure liberi di saltarla, ma personalmente consiglio di calpestarla.
calpestare è sempre un atto liberatorio…sii felice…));
Dicono porti fortuna, più che altro. Ci sarà da fidarsi?
alla mediocrità del p(o)etare si aggiunge la mediocrità dell’essere.
un epilogo più che degno.
avanti così……
Avanti, stalker. Non sarei così duro con Viola.
manuel, bastava la tua mediocrità poetica, sul valore aggiunto alla tua mediocrità umana hai fatto tutto da solo.
postare una poesia altrui, fosse anche di qualcuno più “scarso” di te (e ce ne vuole), con i tuoi intenti tristemente puerili, è stata davvero la tua firma.
per fortuna sto partendo, mi risparmio altre ed eventuali (cazzate) da leggere.
Per fortuna stai partendo, ci risparmi altre ed eventuali cazzate (fuor di parentesi) (e fuori di parentesi nella parentesi) da leggere.
Così, tanto per ridere:
“All’inizio, sua madre, Donna Teresa Velaschi, entrò in chiesa […] fu un’inizio triste […].”
Carlo Emilio Gadda, La meccanica
“O forse un’inizio di un onesta mostruosità […]”
Giorgio Manganelli, Hilarotragoedia
“Roba da matti, un’inizio così nessuno poteva immaginarselo.”
Roberto Lerici, Il bagno finale
“Tieni, ti dò questo pezzo di pane […]
Antonio Pizzuto, Sinfonia
“[…] infilandoti nella carne / oggetti ben più grossi di un membro, / te li dò per aprirti e violentarti […]
Pier Paolo Pasolini, Orgia
Ma confido in Manuel e nel suo angelo custode Gherardo. Essi sapranno scovarne altri. Le vie della letteratura sono lastricate di apostrofi in accesso. Comunque, per finire in amicizia, vi dono questi miei versi. Grande poesia? Non lo so, fate voi. Ma svelano il gioco perverso di ciò che appare, qui e altrove, come virtù di poesia …
la coscienza di cose sbagliate
o fatte per il danno altrui, le cose
che assumeresti come esempio di virtù.
L’approvazione degli sciocchi punge
Deciditi: vuoi fare letteratura 50 anni fa o postare un commento oggi?
@Stan
A NI di disorganici a NI ce ne sono pochi.
La domanda al buon intenditor è Perché TU te la prendi tanto?
con stima
ds
Non è mia intenzione intervenire “a difesa integrale” di Manuel, per due motivi: si sa difendere benissimo da solo e, soprattutto, in certi suoi interventi non è affatto chiaro il discrimine tra una difesa legittima e una difesa “in eccesso”, dettata da un gioco di sproporzioni e amplificata da un’interazione (come quella in Rete) del tutto virtuale, che esaspera le conflittualità e i fraintendimenti (vedasi la questione del “grammar nazi”, ad esempio). Senza metter becco su maiuscole e accenti (vale il proverbio del “…non mettere il dito”, anche se non si tratta di una dinamica destinata al binomio marito-moglie) mi sembra però che, se sulla “mediocrità del poetare” di Manuel si può anche discutere (anche se non credo che qualche frecciatina rivolta al suo passaggio su GAMMM, o pur attente disamine sull’uso delle maiuscole possano essere sufficienti, al contrario, anzi) direi di lasciar stare la “mediocrità dell’essere”. Francamente, in un “luogo” come la Rete dove la demagogia dell’interazione e l’ambiguità dei ruoli si sprecano, non mi pare davvero il caso di arrivare a questo punto.
@ Manuel
non voglio fare letteratura; anche se ogni mio commento è letteratura, grande e immensa parodia della letteratura, e libera la maschera che è in me.
@ Dinamo
ricambiando la stima e avvilupato da un delizioso profumo di grasso arrostito, ti dico ciò: non me la prendo, volevo sbollirre la seriosità dell’altra discussione, quella sulla “lista”. I testi qui sopra sono – casualmente, direi – le vittime sacrificali del mio gioco-rito. Poi, nel tempo, è vero, ho maturato avversione agli dei che dominano le distese celesti. Ohimè, ora devo andare: i cosci sono arrostiti ben bene.
Altri versi, a strascico:
lui insieme con i suoi gregari.
E’ una prepotenza, questa: mi hanno scannato
le mie vacche
mannaggia se fai schifo sten, mannaggia mannaggia.