Mesa

di Alessandro Baldacci

“a me che può servire questo vivere? / a dire a dire a dire / a dire che non serve questo dire / se non per dire che diremo ancora”: si può partire da questi versi per ricordare la figura di Giuliano Mesa, morto a Pozzuoli il 15 agosto scorso al termine di due anni di malattia. Mesa era nato a Salvaterra nel 1957 e per tutta la vita aveva mantenuto un’intransigenza e un rigore che lo avevano portato, “lacerando /alfabeti”, a inaugurare il controcorso di una lingua che combinava disperazione e utopia, trenodia e speranza, sempre in cerca di “verità etiche”. Aveva studiato a fondo la musica del Novecento e la composizione sperimentale, dalla dodecafonia al jazz. Era un autodidatta dalle sterminate letture. Utilizzava ogni scintilla nata nel dialogo con i testi (da Lucrezio a Mandel’štam, da Euripide a Vallejo, da Omero a Platonov) per rendere più acuto il proprio giudizio su un mondo attraversato da “miriadi di offese alla vita”. Esordì alla fine degli anni Settanta, grazie all’attenzione di Adriano Spatola, con una sperimentazione anomala, parodica e drammatica, con un discorso poetico chiamato a “stremarsi per formarsi”. In quei versi si centrifugava la scrittura dell’eccesso di Lautremont e Artaud, si rielaborava l’oltranza linguistica zanzottiana, le proposte di “Tel Quel” e la scrittura-corpo del tragicomico beckettiano. Fra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta aveva proseguito sviluppando una sempre più marcata innovazione formale, scartando sia l’opzione versoliberista che il riuso di metriche tradizionali. La sua ricerca lo portava piuttosto a ragionare sugli “spazi metrici” rosselliani, sul verso epico-narrativo di Pavese e sul flusso energetico di Cacciatore. Nei suoi testi si produceva un accatastarsi ansioso e smarrito di eventi, mentre i segni divenivano ombre, tracce, impronte di un’esperienza sempre più complessa e dolorosa del reale. Dalla seconda metà degli anni Novanta in poi, con le raccolte Quattro quaderni, Tiresia e Nun (rimasta incompiuta) Mesa ha toccato il vertice della propria riflessione poetica, dando corpo ad un dettato testamentale che generava tagli, crepe, voragini interne, strappando all’asfissia “l’aria della fine” da cui nascevano i suoi versi. Estraneo alle poetiche della neoavanguardia come alle prospettive del neoorfismo, Mesa criticava in entrambe la tendenza a produrre un pensiero tutto interno al dialogo fra letteratura e cultura. Ribadiva polemicamente che la poesia “non parla di parole ma di qualcosa che alle parole preesiste, il referente-mondo, il referente-vita”. Nei suoi versi e nei suoi saggi denunciava perentorio: “ciò che per noi dovrebbe essere prioritario, nei pensieri e nei discorsi, per chi ne è vittima è l’unica realtà possibile”, e ancora: “Si vive, chi vive in agio, nella rimozione costante del tragico, delle tragedie: al plurale, una per ogni vita che soffre”. Per Mesa la letteratura non era un fine, ma nemmeno un mezzo, bensì una “necessità che risponde alla necessità, interrogandola”. Intendeva e praticava la poesia come “strenua speranza”, forma di conoscenza tramite cui dare espressione alla “ferita assoluta dell’umano”. Portava la radicale incertezza del linguaggio alla base della propria tensione etica. Scriveva per affrontare le domande fondamentali del nostro tempo: la fame, la guerra, la povertà, il potere. Intenso e continuo era il suo dialogo con la riflessione di Weil e Wittgenstein, di Arendt e Jonas, di Adorno e Anders. Di Beckett condivideva il dire esausto ma inesauribile, avvinghiato alle “rovine dell’umanità”, di Celan la contestazione dell’arte che conduce la poesia lungo “vie creaturali” per farsi respiro e gesto corale. Da Kafka e Šalamov aveva appreso che ogni opera d’arte è  testimonianza: per questo imponeva alla lingua dell’invenzione il rigore del documento, contrapponendo la sua ricerca di “parole vere” al nichilismo dell’irrealtà e della menzogna imperante. In oltre trent’anni di scrittura poetica Mesa ha realizzato un’unica partitura musicale, una “nera nenia” che prolifera per fughe e improvvisi, per temi e variazioni, e rappresenta un nonostante imposto nel corpo stesso dell’estrema negazione. Come Amelia Rosselli era in definitiva una presenza estranea all’interno dello spazio culturale e letterario italiano. Lui ne era dolorosamente cosciente: malgrado ciò aveva cercato incontri, scambi e aperture con un mondo che quando l’ha accostato o incrociato è sempre stato sotto la rassicurante garanzia (conscia o inconscia) del suo essere radicalmente altro. Mesa coglieva il consolidarsi nel nostro presente di un aberrante patto sociale che stringe gli individui attorno ad una collettiva rimozione del male storico (“è tutto un distogliere lo sguardo, / per non guardare, ognuno, / i nostri occhi ciechi”). Per questo lo sguardo dentro e oltre il buio di Tiresia e la parola che si prende cura del sottosuolo di Antigone erano le bussole del suo pensiero. Possedeva la capacità di sentire il brulicare dei sommersi, la fame che consuma milioni di vite, di destini: li percepiva come un lancinante unico battito, nella varietà di ogni singola sorte. Cogliendoli tutti, uno a uno, egli dava corpo a quell’“altro” (con la minuscola) che era il costante referente della sua scrittura. Del Novecento conservava tutti i segni, le ferite, i traumi, le grida (a partire dalla lezione espressionista), ma li portava oltre.  Il dramma della nominazione, cioè la rottura fra parole e cose, era nei suoi versi il “muro della terra” che si ostinava a scavare, a incidere, a forare, cercando un salto in avanti, o sul posto, in cui continuare a finire, a dire, a testimoniare. Anarchico e libertario proprio perché cosciente dei totalitarismi novecenteschi (di tutti), così come dei radicali squilibri prodotti dal capitalismo mondiale, Mesa aborriva sistemi e ideologie preconfezionate: continuava a legare l’angoscia al pensiero, e intendeva la parola come spazio di responsabilità, argine al negativo e dimora del possibile. In un tempo in cui accanto alla percezione del reale anche “il linguaggio ci viene (…) inesorabilmente sottratto”, Mesa non rinunciava mai ad attribuire responsabilità alle parole. Sospesa fra il “suono della fine” e l’incessante respiro del “poi”, fra le prospettive del tragico e il “plasma della speranza” (per riprendere un passo gaddiano), la sua pagina è composta da una fitta trama di paronomasie, di anagrammi, di sonorità petrose, di pulsazioni cardiache, di tremori e sussulti del corpo, dove la punteggiatura ha funzione emotiva e ritmica, determinante per la partitura musicale del verso. Gli imperativi nei suoi testi rifiutano la propria funzione assertiva, per farsi invocazione, allarme, supplica, incipit di un ethos da condividere. La sua poesia segue un moto circolare in cui “tutto è già finito” e continua a battere, a pulsare, a fare attrito. Muovendosi fra lutto e utopia, con un linguaggio scheggiato ed essenziale, Mesa ricercava esperienze di verità a partire dalla “non dimenticanza”, con un verso sospeso fra monito e memoria. Contrastava il vuoto producendo resistenza, facendo ostruzione, con una alchimia di segni, silenzi, suoni e respiri che costituivano la grammatica e la materia dei suoi testi. Avulso dalle miserie del nostro presente letterario il fare inesauribile di Mesa rappresenta in definitiva l’agone/agonia di un pensiero che alla radicale coscienza della finitudine umana (“non c’è che questo andarsene / da dire”) accosta sempre la necessità di ribadire “parola fine, mai”.

L’articolo è stato pubblicato su Alias sabato 1 ottobre 2011.

8 COMMENTS

  1. Ogni ritratto di Giuliano Mesa mette sotto luce il dono singolare- e forse il destino- il dolore- di un poeta talentuoso, nella sua vita legata alla scrittura. Mi tocca. La scrittura per lui non era una parentesi- un respiro- come un nuotatore cerca l’aria- non era per lui- dalla lettura che faccio dei testi dedicati alla sua vita- un respiro- ma una musica interna, irrequieta del mondo- una musica costante.

  2. Rimango un assertore convinto della somiglianza della scrittura di Mesa con quella di Beckett. Somiglianza di scansione e di temi, che diventa però, alla fine, una bella e proficua diversità.

    Come rileva giustamente Baldacci, Mesa non si stancava di ripetere che la poesia “non parla di parole ma di qualcosa che alle parole preesiste, il referente-mondo, il referente-vita”. Questa sua tensione al referente lo distacca da Beckett, il cui referente è la lingua stessa. Beckett, dicendo, ci mostra l’impossibilità di dire; Mesa, invece, coglie il dire nella sua possibilità di farsi “racconto” del mondo (racconto per sprazzi, non lineare, tutto quello che si vuole, però racconto).

    “Non c’è niente da esprimere”, scrive Beckett; anche se poi aggiunge che “rimane l’obbligo di farlo”, al grande irlandese interessa lo scavo del fallimento del dire. Altra è la direzione di Mesa, pur trattandosi di una direzione imparentata con quella di Beckett; a Mesa, ribaltando lo stesso Beckett, interessava “riuscire” e non “fallire”. Da qui il suo interesse per il “referente”.

    Tra l’altro, proprio la tensione di Mesa al referente lo distacca, e direi nettamente, da molte scritture “sperimentali” di moda oggidì, che pure indicano in Mesa un riferimento (!). L’assertività della scrittura di Mesa, per quanto impastata, per quanto balbettante, mutilata, è ben evidente: traumatizzata, inquieta, senza centro, magari anche contratta e agonizzante, però è presente. Ciò, almeno ai miei occhi, rende Mesa ancora più importante; in fondo, Mesa ci dimostra che le rovine possono essere messe in forma, possono essere dette, per l’appunto. La potenza della sua poesia è nella volontà di non perdere di vista la “figura”.

    Complimenti a Baldacci (e a Pinto) per la proposta.

    Stan. L.

  3. credo che in pochi scritti, tolti quelli di Baldacci, venga fornita un’interpretazione tanto “nel segno” dell’opera e della figura – imprescindibile – di Mesa.

    questa necessità di “conoscere” senza applicare paradigmi critici già dati è rara e preziosa, così come lo è la “lunga fedeltà”, in un panorama critico più spesso votato alla pubblicistica o all’utilizzo strumentale delle opere.

    di questo (e altro, penso a un libro come Controparole), non posso che ringraziare.

    f.t.

  4. Ringrazio anch’io Alessandro Baldacci, anche per la capacità che qui, come altrove, ha avuto, di realizzare una sintesi chiara e signficativa di un percorso complesso e non facile da inquadrare come quello di Mesa.

  5. Grazie a Giuliano e un grande grazie ad Alessandro Baldacci perchè meglio di così in così poco spazio non si può dire!

  6. confesso la mia ignoranza assoluta sull’opera di questo poeta, ma anche la curiosità di leggerlo dopo i numerosi articoli su di lui che ho letto negli ultimi mesi.
    Questo mi ricorda (probabilmente a sproposito) un saggio di Bolano “Letteratura + malattia = malattia ” e mi permetto di citare l’ultimo paragrafo:

    Kafka aveva compreso che i viaggi, il sesso e i libri sono strade che non portano da nessuna parte, e che tuttavia sono strade dove bisogna incamminarsi e perdersi per ritrovarsi di nuovo o per incontrare qualcosa, quello che sia, un libro, un gesto, un oggetto perduto, qualunque cosa, forse un metodo se si ha fortuna: il nuovo, quello che da sempre è stato lì.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.