la pelle che abito
di Nicola Ingenito
Sto per recensire l’ultimo film di Almodovar, quindi scordatevi ogni accenno alla trama, vi farei un grande torto. Insomma, si tratta di una pellicola a metà strada fra un melò e un noir: due generi che non meritano d’essere svelati. Ci sono però dentro: un chirurgo con progetti vendicativi che cade vittima del desiderio, una serva, uscita fuori da un feuilleton ottocentesco, madre di due fratelli pazzi e nemici, un corpo femminile bellissimo e flessuoso, un uomo tigre e i fantasmi delle donne amate dal chirurgo, tutte morte suicide, e un ragazzo scomparso.
Da Tutto su mia madre in poi, messo da parte Parla con lei, che è un film perfetto, Almodovar è riuscito a proporre personaggi e storie trasgressive, filtrate da una forte maturità personale e espressiva, che è riuscita a far arrivare le sue storie al grande pubblico così che i suoi film, per quanto non abbiano rinunciato a tematiche forti e spiazzanti, sono diventati sempre più accoglienti e un po’ buonisti.
Sembrava proprio un compromesso che il regista aveva istaurato fra sé e il suo nuovo e vecchio pubblico, sebbene gli irriducibili hanno bofonchiato sin da Tutto su mia madre, avendo malinconia per la carica scandalosa e adrenalinica dei primi film e antipatia per questa maturità che, forse, segna anche la fine di un certo percorso artistico. E, non necessariamente l’inizio di uno nuovo di uguale intensità.
Insomma, anch’io da tempo mi chiedevo, ma perché Almodovar deve piacere anche ai bacchettoni e alle famiglie del genere family day con qualche ideale liberal? Ero quasi infastidito dal fatto che nessuno di noi sarebbe stato più costretto a vedere i suoi film di nascosto, ma assieme ai genitori per apprendere, magari, una preziosa lezione di tolleranza e altre cose di questo genere.
Per La pelle che abito, invece, si sconsiglia la visione familiare, non vi aspettate nessuna consolazione, nessuna riappacificazione. E’ una partita che lo spettatore si gioca da solo di fronte alle ossessioni più cupe del regista: i lati oscuri del desiderio, dell’amore filiale, dell’amore genitoriale, delle pulsioni sessuali sono tutti elencati in una sceneggiatura che incastra la barocca varietà dei temi in una maniera fin troppo armoniosa, senza lasciare spazio a neanche un filo d’aria. Il corpo filmico di Almodovar è claustrofobico. Ritorna la carica trasgressiva e torbida dei primi film, laccata con i potenti mezzi autoriali e produttivi che il regista ad oggi può permettersi: la maturità di Almodovar, in questo caso, è solo privilegio di esperienza e produzione per raccontare le proprie ossessioni, il melò, il corpo, il noir, il cinema.
Infine, l’opera, seppure appassiona il fan di Almodovar, non può appassionare totalmente né lo spettatore, né il critico, o almeno me, né come spettatore, né come critico, perché il cotè di citazioni un po’naif, che vanno da Alice Munro, della quale la Paredes poggia una copia su un vassoio, ai cataloghi di Louise Borgeois sparsi per casa, alle scene, in cui la bellissima protagonista,Elena Anaya, fa yoga con una serie di movimenti, che ricordano le protagoniste di Pina Bausch e l’insistenza su certi particolari d’ambiente sono solo lungaggini e autocompiacimenti, dei quali il film avrebbe potuto fare a meno, magari a favore di un finale, che si propone come spiazzante e, invece, è solo frettoloso. Fosse che Pedro, a conti fatti, abbia preso il peggio del ragazzaccio e il peggio del saggio?
Amo con passione Almodovar. Ma propio questo ultimo film ha provocato in me disagio e disgusto.
Si è ispirato del film spaventoso: “Les yeux sans visage” de Franju, un film che mi ha assillato durante qualche giorno, lasciando in me una grande paura. Ma nel suo film non raggiunge mai la altezza del film francese. Film di qualità artistica con il nero e il bianco.
Mi piace quando Almodovar si dedica all’universo femminile come Volver ( il mio film preferito di lui), alla sensibilità, alla narrazione.
“Nessuna consolazione”: vero. Ma non è la prime volta che Almodovar gioca con il disagio dello spettatore: penso a “attache-moi. la violenza sessuale è un argomento da Almodovar.
Abbiamo visto “ La pelle che abito “ diretto da Pedro Almodovar.
Mai come questa volta i critici italiani sono unanimi nello stroncare un film di Almodovar; una trentina d’anni fa, qualcuno aveva già ironizzato su film ‘ strani ‘ e originali come “ Labirinto di passioni “ ( 1982 ), “ L’indiscreto fascino del peccato “ ( 1983 ), “ Cosa ho fatto per meritare questo ? “ ( 1984 ). Ma Don Pedro poi aveva realizzato un film “ da Oscar “ come “Donne sull’orlo di una crisi di nervi “ ( 1985 ) e tutto era rientrato: era diventato uno dei grandi registi europei. Fino all’Oscar, meritatissimo, con “ Tutto su mia madre “ e successivamente con altri due potenti film come “ Parla con lei “ ( 2001 ) e, “ Gli abbracci spezzati “ ( 2009 ). In una nostra recensione, avevamo scritto “ Il ‘tocco’ alla Almodovar “ scomodando un maestro molto differente come Lubitsch. Il Cinema di Almodovar, un misto ben amalgamato di realismo, surrealismo e grottesco pronto a evolversi in un melodramma a volte a tinte nere. Oggi, evidentemente i critici italiani ancora basiti e estasiati da film come “ Habemus Papam “ o di qualche altro flebile film italiano si sono permessi di definire “ La pelle che abito “ una bufala ( non citiamo nemmeno la fonte ) oppure il bravo Merenghetti ha scritto ” Non fosse di Almodovar ma di un esordiente qualunque, si sarebbe tentati di liquidarlo in due parole…” ( ma questo si potrebbe scrivere anche di qualche film di Wenders o di Allen ) e un ‘nuovo’ critico scrive pomposamente ” Se ogni tanto dormiva il grande Omero, è comprensibile che anche un genio come Pedro Almodovar si conceda un riposo “. La critica estera ha scritto in modo differente, ” Più che un film da amare è un film da consigliare agli amici “ oppure ” Posso solo dire che sono rimasto attaccato alla sedia dall’inizio alla fine “. Sicuramente “ La pelle che abito “ è un film fuori dal comune, ma anche in parte non riuscito, con almeno un passaggio emotivo importante poco congruo se non contraddittorio. Ma è un film visivamente molto maturo, poco convenzionale, da cinefilo monomaniacale e con dei rimandi estetici con i film di Cronenberg, e dei meno conosciuti Franju e Painlevé. E con un colpo di scena centrale che è la forza del film, ma anche una contraddizione psicologica, almeno secondo noi ( si può rendere l’essere più odiato una donna da amare ? ). Almodovar sposta sempre in avanti o da un’altra parte la storia del film, stupendo lo spettatore e a volte anche ‘ scioccandolo ‘. Questa volta la storia non si può raccontare, ma solo accennarla attraverso i protagonisti, si sviluppa tra futuro, presente e passato: c’è un ricco chirurgo plastico ( Robert Ledgard – Antonio Banderas ) dalla lucida follia, c’è un ‘ fratello ‘ ladro ‘ in tutti i sensi, una madre-domestica ( Marisa Paredes ) che accudisce Robert nella sua follia, una moglie morta bruciata in un incidente stradale, una figlia disturbata che si suiciderà e che provocherà la vendetta del padre nei confronti di un giovane Vicente ( Jan Cornet ) che ha fatto regredire la ragazza. E poi Vera, ( Elena Anaya ) la ragazza prigioniera nel castello di Robert e nel corpo di un‘altra. Insomma ritornano tutti i “ temi “del cinema di Almodovar, dal rapporto assoluto nell’amore ( c’è il Banderas che ci ricorda il protagonista di “ Atame “, vent’anni dopo ), c’è il rapporto complice madre-figlio, c’è il feticismo, il discorso sul corpo e le sue trasformazioni, sul corpo nell’Occidente, fino all’ironia sul sesso. Il tutto però è sviluppato narrativamente in modo troppo pieno e a volte contraddittorio.
Banderas risulta invecchiato, molle e senza sfumature recitative, quasi un elemento estraneo all’interno di un cast bravo e convincente su cui risaltano in particolare la bravissima Marisa Paredes e Elena Anaya, attrice emergente spagnola.
Non concordo sulle citazioni. Secondo me Almodóvar in “La pelle che abito” fa sua la lezione di Rosalind Krauss che muove dal concetto di index, di archivio per esplorare i concetti di informe, inconscio ottico e collage. Vera fa esperienza di sé attraverso la visione e l’imitazione delle sculture di Louise Bourgeois, che ha magistralmente rappresentato la percezione della sessualità, della famiglia e della solitudine, attraverso immagini-trasfigurazione degli organi genitali.