In cosa mi reincarnerò?
di Lorenzo Esposito
Non capita spesso di voler raccontare un film. Non capita spesso che un film voglia raccontarsi. Non solo di trasfigurarsi attorno a figure che lo sottopongano a revisione o che pure, giocando il suo stesso gioco, lo tradiscano rilanciandolo. Ma proprio di dirlo così com’è, riannodando ciò che in esso è già perfettamente legato e congiunto: parola e immagine.
Non capita spesso che un film, fingendo curve cerchi distanze salite ritorni smarrimenti, imbrogli i suoi lacci in un fiocco così lavorato, da goderne insieme l’intrico e il lavoro fatto per unirne i capi, come se a ogni immagine corrispondesse la sua parola e viceversa, come se si profetizzassero a vicenda, al tempo stesso facendo di questa siderale biunivoca intuizione, il romanzesco assoluto, cioè il mistero colto mentre al tempo stesso si diffonde e si vela.
Qualcosa in cui il movimento corrisponda la storia alla Storia, l’umano al disumano, la piega al flusso, il nazionale all’universale, l’individuale al collettivo, la rappresentazione alla realtà, la possessione all’erotismo, il presente al passato e al futuro, la carne al sonoro, il pensiero alla tecnica, il filmare allo scrivere, l’anima alla materia, l’opera all’incompiuto, il vivere al morire.
Come se Joyce incontrasse Rossellini. Una disseminazione tutta soggettiva ricondotta all’impersonalità. L’amalgamarsi del mondo attorno e a partire da tutte le sue ferite. L’intermittenza del pensiero e la sua geologia profonda. Difficile dire se sia questo il potere del cinema, poiché i suoi più sublimi interpreti sono quelli che lavorano strenuamente a depotenziarlo, cioè a mostrare l’impotenza dell’essere, ossia ancora la sua intensità e persistenza in ciò che sfugge e non è stabile, ricordo di una memoria perduta di cui le immagini sono insieme i vuoti e le illuminazioni. E comunque tutto questo è – in bianco e nero – Siglo ng pagluluwal (Century of Birthing) di Lav Diaz, oggi forse il più grande cineasta vivente (de Oliveira a parte, ma stiamo parlando di esseri umani).
Un gruppo di giovani ragazze si bagna nel fiume. Sono in cerchio e cantano. Cantano una canzone che canteranno per tutto il film, per tutte le sei ore del film, al chiuso di una chiesa e all’aperto della campagna, alle volte accompagnadosi con una chitarra e provando e riprovando il coro, non interrompendosi neppure per i colpi di tosse, per la stanchezza, per un acquazzone. Cantano guidate dalla loro guida spirituale, che le battezza e promette l’ascesa alla Casa del Padre.
Una giovane suora, Sister Angela (l’attrice Angela Aquino) decide di lasciare il convento. Ha tanto camminato sulle ginocchia. È andata per anni in carcere ad aiutare i detenuti. Ma ora ha chiesto al suo parroco di poter conoscere se stessa. Per prima cosa incontra uno dei detenuti da poco liberato, lo incontra e gli dice: “Scopami”.
Un regista sta montando il suo film. Lo monta da tre anni. Lo monta e lo rimonta, cercando la verità. Il suo film è su una suora che decide di lasciare il convento e che incontra uno dei detenuti che aiutava e gli dice: “Scopami”. I festival chiamano il regista per sapere quando finirà il film, ma lui non può saperlo. I soldi stanno finendo e il regista si confida con una sua vecchia amica responsabile di un call center, Ana. Le parla del film e le dice: “Quando sarà pronto sarai la prima a vederlo”. Sul computer del regista scorrono blocchi di montaggio: si vedono degli uomini in maschera aggirarsi per un paesino; si vedono delle scene di tortura; si vede una suora che cammina inginocchiata.
Un giovane regista incontra per caso le ragazze della setta e le segue. Ha con sé una cinepresa e una macchina fotografica. Il giovane regista decide di intervistare il capo della setta e di filmarlo. Gli chiede cos’è la Casa del Padre. Gli chiede cos’è la vita. Gli chiede cos’è Dio. I due discutono e non sono d’accordo su nessuna delle risposte a queste domande.
Il detenuto scopa Sister Angela in un bagno. La prende in piedi da dietro. La schiena di lei è perfetta e sinuosa. I suoi capelli sono bagnati. Alla fine Sister Angela gli bacia le ferite e i tatuaggi. Il detenuto ha deciso di cambiare vita.
Angela Aquino prova e riprova i dialoghi di una soap opera in cui le è stato offerto di recitare. In realtà le Filippine bruciano fra miseria e fondamentalismo. Il regista va a trovarla perchè ha deciso che il film non è finito e cerca di convincerla a tornare sul set. L’attrice tenta di convincerlo a chiudere il film e poi gli dice: “Nel tuo film ho fatto cose di cui mi vergogno. Chiamami quando sei pronto”.
Il regista ha l’idea del film molti anni prima quando, vagando per la campagna filippina, si imbatte in una setta fondamentalista. Discute a lungo con il guru, scoprendone il passato rocambolesco e ambiguo. Un giorno, rimasto solo con una delle ragazze, la stupra. Alla fine le dice: “L’ho fatto per te, ora sei libera”. Infatti una delle condizioni per far parte della setta è che le ragazze siano vergini.
La poetessa della pioggia va a trovare il regista. Lui è nella sua sala di montaggio, lei è fuori, sotto la pioggia, e comincia a recitare un lungo poema che inizia con la frase: “In cosa mi reincarnerò?”. Il regista le sfiora le dita oltre le sbarre. Quando lei va via le chiede in prestito dei soldi.
Sister Angela si ricorda di quando era bambina e nella grande valle aspettava l’arrivo dei contadini che scendevano con i carri dai monti e da laggiù giungevano lentamente con i frutti, il cibo e le merci. Il regista dice: “Stiamo girando i flash-back”.
Il regista rilascia un’intervista sul cinema in cui afferma: “Grazie al cinema ricorderemo il mondo. Cinema significa esistere”. Poi incontra Ana e le dice che il suo film all’inizio si intitolava La donna del vento, ma che ora è cambiato in Storie corporee. Ana preferisce La donna del vento.
La giovane ragazza stuprata è costretta ad abbandonare la setta. Il guru, per la perdita di purezza del suo gruppo, si suicida. Lei, rimasta sola, va su su su sulla collina verso un luogo di culto. Il sole l’acceca. I monti la sovrastano. Poi vaga solitaria per il paese. Si inoltra nella città e nella campagna. Si perde sotto la Luna. È incinta. È impazzita.
Il regista filma sua madre da sola nel suo studio (la madre è la madre di Lav Diaz). Accanto alle pellicole e al computer c’è una chitarra. La Madre guarda in macchina. Una voce off si rivolge al figlio: “Figlio mio… Figlio mio…)
Sister Angela cammina inginocchiata lungo le navate di una chiesa. Ha un lungo confronto con un prete al quale spiega di voler abbandonare i voti per conoscere meglio il proprio corpo e la propria anima. Il prete le cita un caso simile al suo, in cui una ex-suora aveva deciso di prostituirsi per capire meglio la condizione delle donne che intendeva aiutare e che poi era morta di Aids.
Il detenuto è incatenato e un uomo lo tortura.
Sister Angela è nuda in un bagno e si penetra la vagina con un coltello. C’è sangue ovunque. Ma forse questa donna è Ana e non Sister Angela: è materia aperta.
Il regista continua a visionare il montato del film. Un giorno decide di accompagnare Ana dai suoi parenti. Durante il viaggio la ragazza sviene. In ospedale i medici dicono al regista che è viva per miracolo e che si è procurata da sola un aborto.
Il regista continua il viaggio. Si perde. Incontra dei contadini che stanno per riunirsi in assemblea e che gli spiegano il tipo di lotta che conducono mentre le Filippine vanno in pezzi. Il regista riparte senza meta. Si perde. Impazzisce. Per strada incontra una ragazza sbandata. È incinta e grida frasi sconnesse. Restano insieme. Si rotolano nel fango. Sono pazzi. Century of Birthing: il secolo, cioè la morte, cerca salvezza nella nascita.
Velocemente scorrono immagini di fiumi, alberi, montagne.