Discorsi di dominazione trattati con pietas e rigore

[Si è svolto a Genova tra il 18 e il 20 novembre un convegno dal titolo “Io sono molte. L’invenzione delle personagge”. Il 17 sul “manifesto”, assieme a un articolo di Francesca Serra, è apparso anche questo breve contributo.]

Di Andrea Inglese

Nel testo di presentazione del convegno “L’invenzione delle personagge” si legge: “Insomma, sono anni che le personagge – vogliamo chiamarle così, con un gesto di arbitrio creativo della lingua – della letteratura come del teatro e del cinema sono state decostruite, pezzo per pezzo. Osservarle quasi con una lente d’ingrandimento in una sorta di laboratorio della lettura e della scrittura, ha svelato come in uno specchio molti misteri dell’identità femminile, compresa una possibilità di liberazione non sempre evidente (…)”. L’occasione mi pare talmente importante e proficua, che vorrei rivolgere un invito particolare alle animatrici di un tale laboratorio sul “personaggio-donna” o, come qui si dice, sulla “personaggia”. Il tema scelto e il taglio dato a questi incontri permettono anche di toccare un discorso di metodo e soprattutto di ampliare la visuale angusta di cui molta critica letteraria accademica è vittima, quando tratta del rapporto tra letteratura e ideologia, o tra paradigmi narrativi e identità sociali. È proprio la vicenda del personaggio-donna che richiede di compiere questo passo radicale dal punto di vista teorico. Non è necessario attendere l’apporto della letteratura secondaria degli studiosi di narrativa, poesia, teatro o cinema, per cominciare a decifrare l’evoluzione dell’identità femminile, tra immaginario e denuncia, tra autobiografia e trasfigurazione utopica. Questo è già il lavoro che scrittrici e scrittori compiono, dal momento che sono i paradigmi narrativi per primi che hanno la capacità di disarticolare le identità sociali e il loro cemento ideologico. Con un enorme vantaggio, rispetto alle pretese decostruttive del discorso teorico-critico e del discorso politico, chi scrive, elaborando un punto di vista o una voce narrante, non ha la necessità di poggiarsi su un punto archimedeo che si trovi al di fuori del discorso di dominazione a cui è sottoposto il suo personaggio-donna. Ciò che la letteratura propriamente ci insegna è che una vera strategia di liberazione non può passare che attraverso l’assunzione consapevole del discorso che ci domina e che innanzitutto ha costituito, socialmente, la nostra identità come circostanza data, trasmessa inconsciamente come le condotte corporee più irriflesse. (Se qualcosa anche gli uomini hanno imparato dalle personagge è il peso che il discorso di dominazione esercita anche su coloro che si trovano socialmente nel ruolo di dominanti. A noi uomini, sono state le donne, per prime, a farcelo vedere chiaramente quanto sia tirannico essere degli affidabili, rassicuranti, maschi eterosessuali, sorridenti nel proprio ruolo. E questo non certo per indulgenza “materna”, ma per finezza di analisi.)

Quando si leggono romanzi come L’altra Estzer di Magda Szabó, Trois femmes puissantes di Marie NDiaye o L’arte della gioia di Goliarda Sapienza quello che ci sorprende è la consapevolezza e il rigore con cui viene trattato il discorso di dominazione. A differenza di quello che avviene nella vita e nel carattere, dove l’impulso immediato è quello di negare la parte più schiava e passiva di sé, queste scrittrici hanno studiato con distacco estetico la voce che le ha animate o che ha animato le loro coetanee o semplicemente le loro madri. Ma il distacco estetico, a sua volta, non può che presupporre un passaggio per la pietas, per questa compassione di sé, della parte peggiore o più odiata di sé, che consente di ascoltare lo specifico tono, ritmo e timbro della dominazione. La critica non passa qui per quella negazione del nemico interno, che pretende spesso di saltare fuori dalla propria condizione, salvo poi ritrovarsi schiavi di essa nel modo e nel momento più inaspettato. D’altra parte questa critica che fa leva sulla pietas neppure può sfociare in quell’odio per la propria emancipazione, che molte donne esprimono nei confronti di altre donne, rendendosi, nell’intimità domestica, le prime e a volte peggiori carceriere delle loro figlie, parenti o amiche più prossime.

Con questo non si vuole assolutamente svalutare la portata propriamente liberatoria di molti personaggi-donne della letteratura contemporanea. Ma questa liberazione, in figure come Estzer o Modesta, passa per la tortuosa orbita del desiderio maschile, conferendo loro una conoscenza complessa dell’umano, in cui la determinazione della propria identità si realizza sempre in un conflitto intimo con la visuale dell’altro da sé. In ciò emerge il doppio vantaggio che oggi presenta la frequentazione delle personagge: esse dispongono di una superiorità conoscitiva – conoscono il loro e l’altrui mondo – e hanno un’ironica capacità di uscire da sé. E possono formulare frasi come “Tutta la mia vita sono stata una donna”, che è anche il titolo di un libro della poetessa francese Leslie Kaplan. Noi uomini abbiamo molta meno distanza da noi stessi, per renderci conto che tutta la nostra vita siamo stati degli uomini.

*

[Ne approfitto qui per ringraziare Gina, perché mi fece conoscere L’Arte della Gioia di Goliarda Sapienza]

3 COMMENTS

  1. (lettore che vai modesta che trovi. comunque prego. inutile dire che sono in disaccordo con l’impianto del pezzo, estremamente riduttivo – la donna(?), la dominazione maschile (?) – e eteroautocentrato. in realtà modesta è una performer, un soggetto eccentrico, ibrido, queer, è l’altra inappropriata è pop e aristocratica e postcoloniale persino, è il freak di arbus che trascina i legni nel fango e i traumi attraverso tutto il novecento, facendosi via via + leggera. leggera: detto a tutt’oggi con somma gioia e in milioni di copie è il tenente ripley e lisbet salander insieme. ma adesso la smetto di bestemmiare in chiesa. baci e abbracci)

  2. bè, grazie gina, per un attimo ho temuto di non ricevere alcuna critica, pur essendomi avventurato in così rischiosa riflessione.

  3. (paraculo:), cmq dai, non conosco le altre personagge che citi magari per loro il discorso vale (ma non per le personagge di wittig che non citi e pure hai frequentato mi pare)

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.