DUE PIEGHE E UN RITORNO
di Davide Nota
«Il Barocco non connota un’essenza, ma una funzione operativa, un tratto. Il Barocco produce di continuo pieghe. […] Il suo tratto distintivo è dato dalla piega che si prolunga all’infinito.» (Gilles Deleuze, La piega).
L’alternarsi di un metro classico composto di settenari, endecasillabi ed alessandrini può consentirci lo svolgimento potenzialmente infinito della piega.
La riconquista metrica, o di ciascuna variante di linearità ritmica, è la funzione espressiva di uno sguardo obliquo, che attraversa con naturalezza le dimensioni e i piani sovrapposti di un’esperienza storica e personale di passaggio (la fine della fisica moderna, la crisi dell’economia capitalistica, lo smottamento produttivo verso oriente, le premesse ad una New economy o a una guerra mondiale) che da traumatica e rimossa, rigettata come corpo estraneo, deve tornarci limpida e sentimentale.
Il tratto classico è lo sguardo dell’esperienza umana, in cui i generi letterari e gli ambiti della conoscenza (le filosofie decostruzioniste, il neo-positivismo, la fisica quantistica, la semiotica della comunicazione, le scienze politiche, la storia, le esperienze umane e del vero personale, il sogno e l’archetipo, il senso religioso o del sacro) non sono più percepiti come aree separate e non comunicanti ma come regioni di una stessa avventura.
Gli oggetti del dissidio, separati e in conflitto, si incontrano in un unico sentiero. Ma questo “unico” non è il pantano consolatorio del “disordinismo” (definizione di Mario Perniola, in Contro la comunicazione), l’indistinto e pseudo-esoterico lago della pacificazione degli opposti nel Bello che si ha in molta letteratura neoorfico-performativa degli ultimi anni, dove la voce si dilata bulimicamente per amare e riconoscere ogni cosa allo stesso modo, e cioè per non amare né riconoscere niente.
La lingua poetica sarebbe altrimenti un paradigma del linguaggio della comunicazione di massa e in particolare una funzione della sua religiosità “New age” volta ad un’estensione orizzontale di un neutralismo nei confronti della vita e dei suoi conflitti, cioè a quella amputazione dell’umano e censura della dimensione storica che è stata l’estetica attigua alla dottrina della “Fine della Storia” degli anni ’90 ma che a dieci anni dall’11 settembre, una volta esplosa la grande bolla speculativa di Fukuyama (The End of History, 1992), non ha più senso né mandato.
Nel movimento della piega non si dà armonia ma una “continuità della discontinuità”, in cui ogni verso chiama al successivo e in cui ogni fine chiama al quanto non è dato e che manca.
All’interno di questa “piegatura” l’opposizione può esplodere nella sua durezza naturale. Il lavoro di cut-up, indispensabile, serve a trarre dalla melassa della decorazione moderatrice, dalla placenta del caos che ci circonda e ci inonda come una sordina cognitiva, gli oggetti crudi da esporre ad un confronto immediatamente diretto.
Per questo, anche, la geometria del dittico, o del trittico o, nella strofa, la divisione in quartine, terzine e distici, e in generale ogni reiterazione ritmica e formale, sono funzioni di questo confronto finalizzato al conflitto, che può avvenire solo all’interno di un ordine come logica di relazione.
Ora la necessità non è quella di parlare di un contenuto rispetto ad un altro. Il metodo estetico può essere riferito a qualunque oggetto, perché è esso in sé che ci interessa e coinvolge in un mutamento.
Certamente la “piegatura” implica la presa visione di una moltitudine di materiali visivi e linguistici forniti sia dalla realtà (da ogni sfumatura di essa) che dall’artificio culturale tramandato.
Essa cioè non è più inibita dal bipolarismo estetico del Novecento che limita l’espressione a biforcarsi nelle categorie di poetico ed impoetico, lirico e narrativo, personale ed impersonale o diretto e mediato. Senza preferenze di sorta la piega si svolge obliquamente, cogliendo da ciascuna di queste diversità ciò che può servirle a proiettare altrove (in una differenza) il proprio orizzonte e scopo.
Il ritorno (Dittico)
I.
Non sono molte le estati della vita.
Si risorge
col sapore dell’acqua assopita
nel guscio verde e ardente della borraccia.
Ditela
la traccia da seguire, senza ritegno dite
il disegno che si nutra di invenzioni puerili
come il gabbiano stanco che tracolla sulla riva
cercando una vista nuova, una prospettiva mobile
che il crollo naturale renda idoneo al passaggio,
all’ampliamento cognitivo.
Perché le estati che ci restano
non sono molte, ditelo
che lo sguardo si impesta di putredine,
che si incrosta il coraggio nell’evocazione di un miraggio
defunto e tu che resti
nella casa guardami
allo specchio o nello schermo acceso e dimmi
se eravamo nati proprio a questo
sfiorire. Gridalo
che il sole brucia sulle vesti come un Dio ci chiama
madre dell’amore gridalo
in silenzio ad occhi chiusi a strette mani o nell’oblio ricordati
di tutto ciò che dovevamo dirci
e non ci siamo neanche sussurrati
perché non eri tu ma un prodigio maggiore
ad annunciarsi e l’hai tradito.
*
Dietro la curva i cani, il doloroso
amico devoto al perdono.
Non più bisogno c’è di luce ed ordine.
La carne si dissolve nello stagno.
La caffettiera è esplosa. Un mazzo di chiavi
si era perso nei secoli, nei corridoi.
Salvano il fiume i rovi, gonfi di more.
I bivi sono entrambi percorsi.
Io tra non molto cesserò, dovrò restare
in questo albergo spettrale
pieno di ganci e cavi elettrici e visioni
scoscese.
Nessuno mi conosce o sa chi sono e donde
vengo e quale fu
la mia missione nell’infanzia tardiva
di abeti verdi e mantidi religiose.
Ho voglia di viaggiare, ho voglia di restare immobile.
Ho voglia di cambiare, ho voglia di
restare me.
Era un segreto, un passo falso. Era un cancello, un cortile.
Era le chiavi, erano perse. Era una donna, era sul nespolo.
Era un cassetto, era nell’ombra. Era un giardino sconnesso.
I gerani sono rossi. Tu ora sanguini dal naso.
Questa mattina è bianchissima
come uno sguardo tradito.
Le soldatesse sono in fuga.
Forse cercano qualcuno.
II.
È un sole che non dice niente, un sole tossico
che sfiora solamente l’ora di mezzogiorno.
Una ghiandola lo espelle come il sudore addosso
tra la schiena e le ascelle, se c’hai freddo e fa caldo.
È un sole di ringhiera, di stazione costiera.
È un sole di sbigozzo e culo sporco.
È il sole dell’infame, delle lame nel cruscotto.
È il sole tutto apposto ci si becca in giro.
Nel parcheggio il polacco apre il cofano dell’auto.
Ci stanno le bottiglie in una busta di plastica.
Ne porta due al tavolo di pietra nel giardino
dove ci sta l’amico che guarda il culo di una.
[2 luglio – 24 dicembre 2011]
Notevole, veramente notevole.
Parlo della parte teorico-critica, e mi complimento con te, davvero bravo.
La parte poetica invece (ma è solo una mia opinione a caldo) non è all’altezza della spiegazione critico-teorica precedente.
Ma la poesia, lo ammetto, non sempre basta leggerla una sola volta, quindi mi concentrerò meglio.
geo
Cara Geo,
grazie del commento. La parte per così dire “teorica” è nata a seguire la composizione poetica, che è un lavoro invece di sei mesi (esattamente dal 2 luglio al 24 dicembre) a cui tengo particolarmente. Ma di questo, non posso certo convincerti!
A ognuno il suo sguardo!
Però, ecco, questo: si tratta di una riflessione a posteriori su quanto accaduto a livello estetico nell’opera, che è sempre un laboratorio di metamorfosi. Non il contrario, cioè il testo non vuole essere una traduzione operativa di nessuna teoria.
Ciao, grazie ancora,
Davide
Chissà quanto c’è di vero in queste proiezioni fisiognomiche sulle variegate nuvole della Storia e della Cultura. In ogni caso causano uno strano piacere, la sensazione almeno di carpire qualche chiave, quando sono operate con un simile estro. Suggestive le poesie.
Un intervento molto importante. Consiglio a tutti di leggere anche la Critica della separazione formulata circa tre anni fa dallo stesso autore. Considero infatti il breve manifesto estetico qui pubblicato come la prosecuzione di quel discorso.
Raimondo
non ha importanza che sia stata scritta prima o dopo, quello che volevo dire (che non è una critica, anzi è un convinto riconoscimento di un tuo talento critico originale e poco importa se ti sei esercitato su una tua produzione che non può essere scissa dalla tua teoria estetica) è che sei superiore (il che non vuol dire che tu non scriva anche buone poesie anche se non hanno toccato le mie corde) nella critica più che nella poesia, che poi tu arrivi a fare simile critica dopo mesi di lavoro sulla poesia e sul suo nuovo significato estetico, non stento a crederlo, non si arriva a scrivere simile critica-teorica di punto in bianco ;-).
Ad ogni modo, comunque sia: bravo e non è che io lo riconosca spesso.
bella la poesia
Il pezzo è interessantissimo.
Sia l’attacco critico (i cui temi mi sono congeniali), sia la poesia (che mostra alcuni tratti formali anche miei), mi sono congeniali, con una punta di amarezza, per la debolezza della chiusa.
(Chiedo scusa infine per la piccineria ortografica, ma il “c’hai” del quarto verso dell’ultima sezione, scritto com’è senza il grafema palatalizzante della “i” non se ne scende troppo, un neapolitane loquar).
P. s. la ripetizione di “congeniali” è brutta, ma voluta. Un commento non ha obblighi estetici.
Ho letto anche la “critica della separazione”. Molto buono. Che questa separazione derivi davvero da una strutturazione neo-fordiana incorporata inavvertitamente quale involontario ideologico? Oh, sarebbe proprio bello: un po’ di maggiore vigilanza critica ed il cerchio maledetto si potrà spezzare, il resto della cultura è là, in attesa di riabbracciare il suo dominatore naturale, ovvero il Poeta. Si capisce infatti (dallo stato miserando del mondo) come i matematici con i loro frattali, gli storici con i loro reperti, gli economisti con i loro tabelloni elettronici, i filosofi con le loro pedanterie eccetera eccetera, non sappiano davvero afferrare il “senso” autentico di ciò che miopemente manipolano, ovvero quello “olistico”, dello sguardo obliquo, della fluida metafora che illumina il tutto.
Si tratta indubbiamente di una concezione molto funzionale agli interessi del campo e per ogni poeta sarebbe naturale sottoscriverla. Alternativamente, il rifugiarsi nella soggettività e nella distilleria stilistica potrebbe essere considerato una ritirata, per quanto dignitosa (cioè dettata da un rispettabile senso di decenza) nei confronti di un sapere moltiplicato che ormai sopravanza le capacità di sintesi individuale. Vi sarà forse capitato sul lavoro, che qualcuno vi accosti chiedendovi in pratica (rubo il concetto ad una vignetta di Dilbert) di insegnargli a comandarvi, ovvero di “riconfigurare” la vostra conoscenza in maniera tale da fornire delle comode manopole ad un “manager” che non ha alcuna intenzione di “incorporarla” – se non a un livello estremamente astratto: di pura “etichetta” sulle scatole predefinite del proprio prezioso ed esclusivo meccanismo di valutazioni. Ho l’impressione che i poeti tentino una mossa analoga, accostandosi senza molta umiltà alle nozioni specialistiche (d’altra parte se fossero umili non sarebbero poeti). Ma staremo a vedere. Il rischio è che avvenga proprio il contrario: cioè che gli specialisti si accorgano che non è poi così difficile acquisire quel po’ di sensibilità e scaltrezza stilistica che permetta un raccolto secondario – sul piano simbolico e sentimentale – delle conoscenze duramente acquisite sul campo operativo. In fondo la classe dei poeti potrebbe anche far la fine di quella degli scribi, ovvero dissolversi quale dotazione ovvia di ogni persona istruita, ma questa è un’esagerazione, tanto per provocare un po’.
Ciao a tutti,
è vero quel che scrive Raimondo Iemma, che questo brano possa essere considerato – per chi ha seguito un po’ il discorso della Gru tracciato soprattutto nel biennio 2008/2009 – come una traduzione operativa ed anche un aggiornamento degli appunti provvisori della “Critica della separazione”.
La “Critica” resta comunque un testo del 2008, giovanile per quanto riguarda la formazione del sottoscritto ma anche e soprattutto per il contesto in cui ci si trovava a scrivere, che era precedente all’esplosione della “Bolla” ideologica del Trentennio e a quella forse ingenua ma a suo modo memorabile prima proposta di “ritorno”, con Calpestare l’oblio (2009-2011).
Sono passati pochi anni ma era davvero tutto molto diverso, soprattutto per quanto riguarda la definizione di “responsabilità”.
Parlare di metodo transdisciplinare ora può sembrare ovvio ma ai tempi accusammo alcune incomprensioni da parte di persone, amici poeti, che oggi invece lo praticano con convinzione e sul web anche come manifesto di intenti.
Dunque non ci sbagliammo molto.
Però questa postilla sulla “piegatura”, se è tale, è anche un aggiornamento su alcuni punti, in particolare sull’annoso equivoco del “contenuto”, che dà adito all’equivoco attiguo del civilismo (non si tratta di questo ed è importante eliminare un pretesto di confusione) e poi sulla differenza – importante – tra “pacificazione” dei dissidi e “obliquità” dello sguardo.
Aggiungo che mi fa particolarmente piacere che l’intervento sia di Raimondo, che considero, per maturità della riflessione teorica e presenza del risultato estetico, uno dei migliori nuovi autori di poesia (lirica non lirica, già siamo nell’obliquità) in Italia. La sua comprensione e condivisione dell’argomento lo conferma e rilancia.
@ Georgia e Carmelo: grazie!
@ Danieleventre: grazie anche a te (se posso dare del tu), ma non ho capito una cosa, proponi di mutare il “c’hai” in “ci hai” per rendere l’espressione più marcata?
Il fatto è che io “c’hai” lo dico abitualmente, “ci hai” no, non sto mimando una parlata non mia, sto (in quel frammento linguistico, intendo dire) scrivendo come parlo.
@Elioc: grazie per le parole e l’attenzione, e grazie anche per la riflessione che ho letto e a cui non mi sembra di dover aggiungere nulla.
Se i poeti finiranno come gli scribi perché tutti sono nelle condizioni di essere poeti, ben venga, tanto dal depuratore della memoria storica non si scappa. 100 o 100mila libri là devono passare e ne usciranno 10.
«Primum vivere, deinde philosophare»; poi «la febbre di scrivere» e «la febbre di sentire»; fino a raggiungere il nodo dell’onda. Così, Nota, nelle pieghe del Tempo [dedicato alla Vita e alla Studio come sviluppo binomiale] evita qualsiasi staticità da “Poetancien Régime”, esprimendo l’unica fermezza che infutura e si presenta, volontà fondante: «restare me».
E ancora: nell’alto-basso che altalena tutto, l’urgenza della voce, del dire [per difetto «che non dice niente» o per eccesso «Gridalo»] è Musica che sorge dalle figure, retoriche e di suono, per *scatenare* tutta la potenza procreativa della Parola, dalla pupilla alla polpa, dai polsi ai polmoni.
Ringraziando Davide per aver steso e Buffoni per aver diffuso,
saluto tutti, augurandovi e augurandoci
il Multiverso che.
http://www.youtube.com/watch?v=IGrlekZzogU
caro Davide, intuisco quanto scrivi, malgrado il rumore di fondo del testo. un rumore di tipo sintattico-grammaticale. Cercare una chiarezza che attenui la metafora forte di Deleuze favorirebbe la comprensione di questo “manifesto” alla poesia della differenza.
sul testo: lo trovo incisivo, ma portato a togliere la piega piuttosto che a tenerla sulla lama del senso (Deleuze: il senso è “frontiera, il filo di lama o l’articolazione della differenza” anche grammaticale, “poiché dispone di una impenetrabilità che gli è propria” – in “logica del senso”, p..33)
Caro Stefano,
ho pensato un po’ a quello che hai scritto, eppure l’immagine della “piega” mi pare ancora la più chiara per identificare, anche visivamente, il senso di quello che voglio dire, che è: il metodo della reiterazione metrica come “continuità della discontinuità”, cioè una relazione armonica tra conflitti.
Foresta erba selvosa,
l’infanzia silenziosa.
Nel rogo piattaforma,
l’effigie della norma.
C’era una volta un padre,
l’icona che non s’apre.
Serenità seriale,
la strage funzionale.
Intendendo dire che il massimo potenziale espressivo di una “piega” risiede nella linearità metrica, nel “ritorno” formale, e non – come si è pensato, o come io ho pensato – nel magma, nel disordine. L’apertura di senso nella chiusura formale.
Questa è l’ipotesi provvisoria del brano teorico.
Poi: quando dici che il testo poetico “toglie” la piega, che vuoi dire?
Ciao, grazie.
*
@Chiara: Ciao! Ecco, per l’appunto: l’Eretista *è* l’obliquità.
Un abbraccio.
il tuo discorso sulle pieghe mi ricorda un bel libro “la mente al punto” di Raffaele Simone. Il discorso poetico abbonda per definizione di pieghe, altrimenti tale non sarebbe.
Mi paicerebbe sapere quali sono i tuoi riferimenti della poesia contemporanea, non solo italiana ovviamente.
gentile Davide Nota,
spero che mi consenta alcune semplici considerazioni perplesse su questa faccenda sua della piega. Mi spiego (cioè giá nell’atto di iniziare mi vedo obbligato a liberarmi della piega; come se la piega fosse l’ostacolo che deve essere negato per poter permettere la comunicazione) la piega ha in me forti connotazioni emotive perché quando io ero piccolo le nostre madri solevano partecipare a un rituale matriarcale collettivo che si chiamava farsi la “messainpiega”, in cui si ponevano grandi tiare scintillanti sul capo. Questa “messa” dava alla piega un carattere sacro. Cosí che quando mi si parla di pieghe sempre mi figuro riti bachofiani. A parte questo mi pare che la piega venga sempre necessariamente dopo uno stato in cui non vi sia piega, non si puó chiamarlo uno stato dispiegato perché per spiegare o dispiegare prima si deve avere piega, Lo chiamerei uno stato di estensione, ma l’estensione è opaca a se stessa e per conosecersi nei suoi limiti, per afferrarsi deve negarsi come estensione e ripegarsi o piegarsi su se stessa, in questo suo piegarsi si riconosce come altro da sé (anche perché scopre che ha due facce). Si nega in quanto estensione fino alla compressione. Cercando di afferrasi in forma di piega l’estensione finisce per negarsi (ha mai piegato un lenzuolo a due piazze con sua moglie?) e deve pazientemente percorrerere a ritroso tutto il percorso della piegatura cioè deve spiegarsi o dispiegarsi. L’essere dispiegato è l’essere in sé e per sé del testo e anche di quello poetico. Per questo dissento con l’entusiasmo di georgia e di altri incliti commentatori. Il suo culto della piega mi sa tanto di un ripiegarsi molto piú fuori della storia di quanto lei vuol apparentare. Vedo nel suo testo molto “piú fine della storia” che in dieci volumi di Fukuyama. Il suo, a differenza di quello di Fukuyama è un fine della storia caliginoso, non dialettico, non è sintesi ma regressione. Lei mi sembra un po’ l’uomo della lanterna di Zarathustra che invece della morte di dio annucia l’avvento della piega. La storia, o il testo, ben piegato, è bell’e pronto per essere sepolto, con la lavanda, nel cassone della dote che nessuno sposo avrá in dote da nessuna sposa. La sua è una piega sterile caro Davide Nota.
Le auguro di vedere un giorno il mondo e la poesia nella possibilitá del loro dispiegarsi e quindi nella possibilitá di svelare e velare piuttosto che in quella di piegarsi in oscura piega, nella pieghe si occultano polvere e acari, le pieghe sono piaghe mi creda, ció che è disteso è luminoso come il bucato di una pubblicitá di DASH della mia infanzia. Si stiri, si spieghi, si dispieghi, la prego.
Io ebbi tempo fa un scambio di commenti con lei sul concetto di egemonia in Gramsci e Bondi Sandro, se non ricordo male. Allora mi parve un intellettuale organico fermo nel culto delle ceneri di Gramsci, forte è stata la mia sopresa al ritrovarlo come un rizoma su mille altipiani.
Non me ne voglia.
genseki
Una postilla per Stefano.
Cercando di parlare in maniera più chiara: l’idea della piega viene nel testo anche esposta attraverso l’immagine del sentiero unico che attraversa diverse regioni.
Questo sguardo poetico non attraversa queste “diversità” dicendo: “acqua e fuoco, vita e morte, dirupo e paese, siete la stessa origine e vi amo (o vi odio / o non provo nulla) ugualmente perché io non sono più umano e tutto è tutto o è niente” (l’orfismo in tutte le sue declinazioni postumane o neo-romantiche), ma conoscendole da uomo storico, e quindi con i miei shock culturali e tentativi di interpretazione e sentimenti.
Questo intendo dire per riconoscere la conflittualità tra queste regioni e non pacificarle melodicamente.
Metterle in relazione in una “forma” chiusa, come un uomo cerca di pensare o di ricordare qualcosa che ha visto.
Ricordo una lettera di J. S. Bach in cui parlava dell’antitesi tra armonia e melodia. Ecco, un’armonia non melodica.
Da questa lettera di Bach alla teoria delle stringhe, oggi può essere tentato un metodo che esprima la forma mentis (nostra, di tutti gli uomini) della “traversata” degli strati come nell’installazione celebre di Bill Viola (Veling, 1995).
Siccome questa traversata è piena di conflitti e anche di aree intraducibili, una reazione “di fuga” consiste nel neutralizzare la percezione umana, pensarsi sciolti nel mare, che per me non significa niente o è una testimonianza minore di poesia dell’esilio.
Un’altra risposta di fuga è quella di confinarsi in un’area (estetica, culturale) e fare finta che non si sia tutto sovrapposto, fare finta di non sapere che esiste “il resto” (ma lo si sa definitivamente quindi è una reazione).
Ma: il resto non nega l’individuazione dei singoli oggetti, o veli. Cioè: che al di là del marxismo esista la Nuova fisica, non rende il marxismo obsoleto (che anzi si dimostra – oggi – l’unica interpretazione che ha superato la prova del secolo), né sfiora il dato di fatto che la pasta asciutta con il sugo e la salsiccia è – per me che la mangio – squisita o il fatto onirico che un amico morto mi è apparso in sogno e al risveglio ho pianto o sono andato a pregare non so bene cosa.
Pensa ad un trittico in cui un uomo viene dipinto “al mare, di giorno, disteso ad occhi chiusi”, “in un club privè, di notte, attivo in una performance sessuale” e “a lavoro, nel suo studio di architettura mentre lavora ad un progetto” o “mentre posa un fiore su una tomba o abbraccia il cane affettuosamente”.
Non si tratta più di dimostrare quale delle tre immagini sia più vera dell’altra, sono tutte profondamente vere (in tutti gli ambiti l’uomo è l’uomo) eppure sono tutte e tre incomplete (e quindi false).
Io posso amarlo, conoscerlo, affiancando queste diversità, cioè in poesia creando una relazione formale.
Ora ho parlato di un uomo ma posso riferirmi a me stesso, come nella prova de “Il ritorno”, o di qualunque cosa, perché questa relazione armonica ma non melodica è il metodo in cui io vivo nel mondo e guardo il mondo e penso me stesso e gli altri.
Scusami, sono appunti scritti in libertà.
*
@ Carmelo:
Risponderti è impossibile.
La mia prima formazione proviene dalla rosa aperta di Officina e soprattutto dal dibattito severo intercorso tra Pasolini e Fortini, a cui però si intersecano anche due laboratori completamente diversi come quello effervescente di Luigi Di Ruscio (che linguisticamente è stato per me illuminante) e quel vulcano insonne che è Roberto Roversi, soprattutto con riferimento al poema “L’Italia sepolta sotto la neve”, che è un lavoro di trent’anni, in cui il metodo dello “sguardo”, del montaggio, è folgorante e mi ha dato molti stimoli fondamentali.
Mi limito a questi quattro nomi, tra l’altro diversissimi tra loro e da me, di nati tra gli anni ’20 o ’30 perché il discorso è impossibile da affrontare in un commento, quindi meglio essere totalmente provvisori che tentare di fare un discorso coerente ed essere comunque superficiali.
Dovrei anche dire che Jacopo da Lentini agisce in me più profondamente di quanto non faccia la poesia di Derek Walcott.
Ma poi credo che il risultato sia un amalgama in cui gli autori non di riferimento agiscono quanto quelli a cui ci si vuol riferire.
Pensa a quanto nella scrittura di Pasolini agiscano fortemente proprio quegli autori che in sede critica il poeta cerca di rimuovere: prima D’Annunzio, poi Celine e infine le teorie neo-avanguardiste di “opera aperta”. Più sono di non riferimento e più agiscono, anche come forze corrosive.
Caro Genseki,
forse la postilla per Stefano qui sopra può in qualche modo dialogare anche con il suo commento.
Probabilmente però c’è un equivoco perché io non voglio fare la piega a nulla, né ai capelli né al pensiero, ho detto solo di voler attraversare le pieghe reali che sono nel mondo, nella vita e nella carne e metterle in relazione attraverso la forma per interpretare umanisticamente le diversità che non si negano ma coesistono.
Quindi non è né un inno né una messa funebre e nemmeno una teoria, è solo camminare e guardare e pensare e sentire e trovare un metodo per esprimere questo svolgersi stratificato delle cose. Poi chiaramente, ognuno parla per sé. Io almeno sto parlando per me. Se trovo condivisione capisco che magari è un’esigenza espressiva non solo mia, ma non voglio dimostrare niente né tantomeno chiedo che sia condivisa da tutti quella che è solamente un’auto-riflessione sulla mia poesia.
Dav.
Gentile Davide Nota,
la ringrazio davvero per la sua cortese risposta, che tra l’altro, almeno per me, che non sono piú aggiornato su nulla, rende molto piú chiaro e interesasante il suo testo. Certamente resta la possibilitá di un equivoco da parte mia, e non hon ho difficoltá ad assumerne la resposabilitá eventuale. Credo comunque che forse è proprio la parola piega che permette l’equivoca, in quanto in francese definsce un ambito semantico e permette derive scivolamenti del significato che non hanno equivalenti in italiano. Per esempio “pli” non si oppone a “éclairer”, In italiano spiegare e piega possono darsi come opposti.
Comunque a me la sua poesia è piaciuta davvero molto. Le perplessitá sono solo sulla riflessione teorica.
Cordialmente
genseki
@Georgia
e il critico come artista?
Trovo questo scritto decisamente vago e concettualmente molto debole. Mi
stupisce sinceramente che qualcuno vi trovi un interesse teorico. Trovo le
poesie deformate in funzione dell’illustrazione del metodo proposto, e per
questo (rese?) goffe e vacue. Concordo con Guglielmin che rileva (ma
sembra tollerare) il “rumore di tipo sintattico-grammaticale” del testo,
che rende di difficile comprensione diversi passaggi (non vorrei si
trattasse di un impeto mimetico nei confronti della scrittura di Deleuze).
Il breve ed esilissimo testo “teorico” mi sembra procedere così: si
scelgono un termine e un concetto sufficientemente ambigui e
sottodeterminati (la piega, e la sua spiegazione à la Deleuze –
notoriamente non un esempio di chiarezza, per quanto geniale) e vi si
appende una lista di intenti programmatici che sembrano avere nessi logici
debolissimi con il concetto in questione, e in molti casi anche tra loro.
Ora, un manifesto programmatico non è una dissertazione di Filosofia, e mi
sembra addirittura un errore considerare questo testo come un intervento
teorico, sia nel bene che nel male, degno di nota. Si tratta di un
manifesto estetico scritto da un poeta. Ovviamente Nota ci presenta una
serie di conclusioni ingiustificate e di non sequitur. Ma quando si legge
che “La riconquista metrica […] è la funzione espressiva di uno sguardo
obliquo” o che “la “piegatura” implica la presa visione di una moltitudine
di materiali visivi e linguistici”, occorre leggere queste asserzioni come
dichiarazioni d’intenti, come desiderata, non come verità ottenute
dall’analisi dei concetti in questione. Ciò detto, le dichiarazioni
d’intenti e le idee espresse in un manifesto programmatico devono essere
innovative e radicate in una visione organica originale e profonda della
poesia (se non altro). Ora, mi pare che il testo di Nota sia piuttosto
deficiente sotto questo rispetto. I buoni propositi per l’anno nuovo (o
forse dovrei scrivere Anno Nuovo o Nuovo Eone, in ossequio alla
osservazione di genseki sulla retorica di “Fine della Storia” ancora
presente nel testo di Nota) non mi sembrano né adeguatamente fondati in
una visione organica e innovativa né sufficientemente ricondotti al
discorso di Deleuze sulla “piega”. E’ un po’ come se Nota avesse scelto in
cartoleria una cartolina d’auguri con un quadro che egli reputa (e che
forse è pure) “fichissimo” e vi avesse scritto dentro i suoi buoni
propositi per l’anno nuovo. Questi propositi delineano una ideologia non
esattamente originale. Si tratta – sembra – di una sorta di ‘umanesimo del
conflitto’ (era quasi inevitabile l’occorrenza del termine ‘umanesimo’ nei
commenti di Nota qui sopra) la cui chiave per evitare di cadere nel
“disordinismo” e nell’indifferentismo sono (sul piano espressivo) il
ricorso alle forme chiuse e (sul piano diciamo filosofico) la
concettualizzazione dell’idea stessa di “conflitto”. Non mi sembrano mosse
inedite e particolarmente eccitanti. Noto pure che il testo lascia
fastidiosamente indeterminato il tipo di “forme chiuse” cui mire la
Reconquita. Da una parte si cita “il tratto classico” e si enumerano
alcuni metri tradizionali, dall’altra ci si accontenta di “in generale
ogni reiterazione ritmica e formale”, o di “ciascuna variante di linearità
ritmica”. Il che suona un po’ come indifferentismo Anni Novanta, o
piuttosto come ecumenismo Anno Zero.
Saluti,
Lorenzo
P.S. Una curiosità. Mi piacerebbe sapere a chi si allude quando si parla della
“molta letteratura neoorfica-performativa degli ultimi anni”. A me sono
venute in mente Calandrone, Cera Rosco, e Massari.
credo di non rivelare un segreto dicendo che questi testi erano stati già inviati ad alcune persone (il soccioscritto compreso)una decina di giorni fa con finalità augurali non sterilmente neutre. ritrovarle qua, corredate dalla mini nota di poetica, mi da il la per rispondere pubblicamente (si fa per dire) alla sollecitazione di davide cui avrei forse risposto comunque perchè i testi mi sembravano (e mi sembrano)interessanti (tra i migliori, aggiungo, che mi sia capitato di leggere, tra i suoi). concordo sulle perplessità espresse da alcuni commentatori al riguardo della noterella pseudo teorica che mi sembra (etimologicamente) com-plicare (e contrarre)il pensiero invece di distenderlo come invece ci si aspetterebbe da una nota esplicativa. le puntualizzazioni espresse da davide nelle risposte ai commenti contribuiscono, a onor del vero, a snebbiare, fortunatamente, almeno un po’,il tutto. che la natura della nota sia puramente (auto)prescrittiva, però, non lo credo: l’intento è anche, in modo neanche poi così dissimulato, polemico; non detti sono solo i nomi ma quando vi si parla di poesia neoorfica-performativa il pensiero non può che andare a quella di mariangela gualtieri (e ad altri casi minori, epigonali della stessa, spesso al femminile)e a nessun altro, credo, almeno sull’italico suolo. l’altro obbiettivo polemico mi sembra quello della “poesia del sintomo” e degli esiti “informali” che sembra portare con sè. a queste 2 possibilità espressive (apparenteemnte antitetiche) che a davide sembrano oggi, forse, dominanti, mi sembra che lui (che tu) voglia proporre in alternativa una terza via, per certi versi vicina a certo neometricismo in voga tra le nostre penultime generazioni più che tra le novissime. ma non è neanche questo forse esattamente. forse più un blando richiamo all’ordine ma non troppo, a una classicità atemporale più che a un classicismo vero e proprio, ad una rivendicazione di formalizzazione (in opposizione al magma, o alla melassa, come la chiami, dell’indistinto).
per quel che riguarda le poesie ci vedo, nessuno ne ha detto, un’intonazione alta (di quell’altezza insostenibile per gli atei come me), quasi da invocazione religiosa, specie nel primo testo. nel secondo l’altitudine è data più dai passati remoti e da forme desuete (“donde”)con intenti rischiosamente non parodistici, controbilanciati da calchi del parlato, sempre più frequenti verso la fine (sbigozzo, ci si becca in giro, ci stanno, ci sta, il culo di una etc). stridono, dantescamente, alto e basso in questi testi tuoi, e il magistero (per te)di gianni d’elia, scricchiola (tanto che non lo citi tra le influenze)nelle quartine che trovo più potenti (e che iniziano con “la caffettiera è esplosa”, “io tra non molto cesserò”, “era un segreto”, “nel parcheggio un polacco” e nella terzina “ho voglia di viaggiare”), versi somiglianti a nessuno in particolare, evocativi e concreti insieme, molto buoni secondo me.
salutz
l.
Caro Lorenzo,
grazie per la lettura e per il tempo dedicato. Ho letto il tuo intervento con pazienza, nonostante trovi il tuo approccio particolarmente pedante e molto poco familiare.
Per quanto riguarda i nomi non si allude quasi mai a percorsi specifici ma a tentazioni diffuse, su cui tra l’altro chi polemizza riflette sempre una parte di se stesso.
Questo testo poetico ad esempio nasceva inizialmente da una tentazione regressiva particolarmente violenta (attraversata anche da alcune fascinazioni superficiali derivate dalla lettura di molta vulgata della nuova fisica, di cui forse ricorderai perché te ne chiesi), contro cui l’autore si è poi ribellato nel cut-up e mediante altri mezzi tecnici.
L’autore ha in seguito appuntato alcune riflessioni personali su questo moto di rifiuto che lo ha particolarmente interessato e sugli strumenti utilizzati, ricavandone il testo di prosa che precede il dittico e che vuole essere una testimonianza privata offerta al confronto.
Sul dittico poetico, che è ciò a cui più visceralmente tengo, rispetto profondamente – anche se ovviamente con un po’ di umano dispiacere – il tuo disinteresse, o quello di altri.
Ne approfitto per augurare un buon nuovo anno a tutti.
Davide
Caro Luigi,
grazie.
Hai ragione: non c’è intenzione parodistica nel “Donde”. La parodia non è cifra che mi appartenga particolarmente.
C’è un conflitto semmai tragicomico tra una tentazione regressiva e un necessario “Ritorno” alla città, per cui anche il titolo che potrebbe inizialmente essere dedicato (e che tra l’altro in origine lo era) alla fuga silvestre e alla ricerca del tempo perduto, inciampa e rovina nuovamente a pedemonte, dovendosi necessariamente proiettare o sorreggere sui contenuti offerti dalla cittadina secca: la ringhiera assolata, il parcheggio, il parchetto, la socialità meccanica, la voce rauca (il “sole che non dice niente”): altro che l’inno iniziale di Gridalo e gridalo! – come ha individuato Chiara Daino.
Che drammatico impulso di “menzognera sincerità”, di immaginario ritorno, prima; e che “sincera menzogna”, poi: nel ritorno reale.
Ma entrambe le menzogne sono in verità sincere ed entrambe le realtà sono falsate.
Le due strade sono percorse ma sono entrambe infrequentabili, perché ognuna nega sé stessa, in un inarrestabile stato di agitazione e incompiutezza, impacificabilità. Le chiuse deboli che venivano lamentate prima in un commento, sono in realtà delle non chiuse, degli ultimi anelli aperti.
(Tra l’altro. Le due soldatesse che fuggono dalla montagna e tornano in città; furono una delle prime testimonianze date a seguito dell’omicidio di Melania Rea, avvenuto nei boschi del Colle San Marco, qui, in provincia di Ascoli Piceno. Non è necessario saperlo né specificarlo per la lettura del testo, lo aggiungo qui solo come contributo inter nos).
Questa contemporaneità: porla in una relazione. Ma è solo un exemplum.
Occorrerebbe dire i bivi che si biforcano contemporaneamente nella nostra vita sociale e storica o carnale e ideologica.
Ma non nel senso di “Ipocrisia” e “Verità” o di Giorno e Notte o di Dialettica e Contraddizione, non nel senso che una delle diversità debba svelare anche moralisticamente la finzione dell’altra, ma nel senso di una stratificazione da comprendere umanamente, e cioè creando relazioni geometriche tra contenuti che si negano, versi e testi.
Questo è quello che davvero mi affascina in questo momento, il passo che ho compreso di voler assumere – con un certo pur ingenuo e infantile o illogico entusiasmo, “come il gabbiano stanco che tracolla sulla riva cercando una vista nuova, una prospettiva mobile che il crollo naturale renda idoneo al passaggio, all’ampliamento cognitivo…”.
Tra l’altro, non so se ti faccia piacere, ma quando parlo di Barocco e di Piega, ho sempre ben presente il per me esemplare (e tra i pochi ultimi libri di poesia importanti) “Freddo da palco”, che ho molto letto ed amo.
Un caro saluto.
Davide
(Non rileggo, mi scuso per eventuali refusi).
P.s. @ Luigi
Dimenticavo, sugli appunti in prosa. Scrivi: “una terza via”, “una classicità atemporale più che […] un classicismo vero e proprio”, “una rivendicazione di formalizzazione (in opposizione al magma, o alla melassa, come la chiami, dell’indistinto).
Sì. Direi anche: una terza via che produca un ordine formale in grado di mettere in evidenza e relazione alcuni elementi (contenutistici, timbrici e linguistici) non ancora convenzionalmente connessi, anzi discontinui, magari anche cozzanti, persino a livello logico.
Né un ordine formale come cifra di una convenzionale interpretazione del mondo (i tabù linguistici o contenutistici relativi a qualunque scuola del passato anche prossimo) ma neppure un disordine formale come cifra di un abbandono della dimensione umana per il delirio.
Per dimensione umana in poesia intendo dire (con Agamben): il pensiero che si svolge assieme alla vista e all’udito.
Trovo nell’ordine formale (non necessariamente chiuso; a me interessa la relazione geometrica tra elementi e non il calco postmoderno) l’espressione di una dimensione umana in grado di attraversare (cioè di conoscere, di interrogare) la discontinuità a volte anche impossibile da decifrare degli eventi linguistici e contenutistici della vita individuale e collettiva.
Davide
sì, davide, l’allusione alle soldatesse l’avevo colta, anche perchè ho conoscenze tra i giovani (maschi)ascolani che mi narrano di battute di caccia delle soldatesse stesse di cui loro (i maschietti ) sono facile preda. così come mi sono sentito chiamare in causa (e ovviamente mi fa piacere)dal discorso sul barocco che per me è innanzitutto un discorso sulla sua spettacolarità manipolatoria con complesso di colpa sociale e personale che ne consegue, comunque. anche il tema (l’anelito) alla formalizzazione mi (ri)chiama in causa e mi è caro ritenendo, come faccio, necessario, almeno per la mia di versificazione, l’aspetto sonoro come forma di conoscenza prelogica e profonda.
grazie anche a te, quindi.
un saluto
l.
@elio c
il paradosso apocalittico sulle funzioni future del poeta è geniale
Trovo coraggiosa la voglia di accompagnare i propri testi poetici da uno discorso di tipo critico-teorico; trovo coraggioso il tentativo di costituire un legame tra forme e storia. Inoltre, condivido con Nota, alcuni presupposti etico-politici. Detto questo trovo troppo vago il discorso sulla piega. D’alra parte, egli punta molto alto nelle permesse, e quindi bisogna essere molto attrezzati poi per mantenerle. Immagino, però, e gli auguro che un tale discorso possa nel tempo chiarirsi meglio e articolarsi.E sarebbe utile, perché mi sembra che degli spunti interessanti ci siano. Ma su metro e ritmo, gli studi esistenti sono già abbastanza sofisticati. Partire su temi simili in totale autarchia è un po’ da kamikaze.
Sui testi, grosso modo, ho le stesse perplessità sollevate da Luigi Socci. L’attenzione per il mondo e l’indulgere a formule poetiche entrano in conflitto, e indeboliscono la coerenza e l’efficacia dei testi. E’ un problema tipico: aderire al reale è molto più arduo che aderire a una lingua considerata come “poetica”. E qui spesso si tradisce troppo presto il reale, per una lingua percepita come portatrice di senso.
Ovviamente, queste impressioni sono esse stesse vaghe. Rispondono all’idea di un quaderno di lettura, a caldo. Ma magari, pur essendo critiche, possono avere qualche utilità per l’autore, che è giovane, e in continua trasformazione.
Caro Andrea,
ti ringrazio. Sì, queste annotazioni critiche avranno certamente un’utilità per l’autore.
In generale l’intera discussione mi è risultata molto interessante, almeno per il sottoscritto un ottimo confronto, vivace e stimolante, molto creativo e pieno di spunti.
Davide
p.s.
A proposito degli “studi esistenti” di cui fai cenno, se hai una bibliografia da allegare sul tema “metro e ritmo”, letture che ritieni indispensabili per affinare o aggiornare il discorso all’oggi (storico, scientifico) e che reputi non siano state compiute, ti inviterei a proporla. Questo potrebbe essere immediatamente utile.
@Luigi – grazie :-)
@Lorenzo, la tua critica a Nota mi fa sentire abbastanza stupido, dopo che mi ci sono voluti più di sette anni per ammorbidirmi le rotelle e godermi finalmente la suggestione di quelle vaghe e fluide metaforizzazioni che costituiscono, mi pare, la materia stessa della poesia. Vorresti invece dire che esistono approcci molto più rigorosi, e che dovrei dolorosamente rimettere in sede le rotelle inflessibili del concettare matematico? Beh, io di realmente “rigorosi” non ne ho mai visti, semmai di rimpannucciati da estenuanti “apparati” che mimano un “effetto di scientificità”, che è diverso.
Caro Davide,
al volo. Una cosa recentissima, che ha intenti manualistici, ma che permette di fare il punto della situazione: Daniele Barbieri, “il linguaggio della poesia”, Bompiani; “Ritmologia”, a cura di Franco Buffoni, uscito per Marcos y Marcos alcuni anni fa, presenta una rassegna abbastanza ampia di interventi. In Francia, Henri Meschonnic si è occupato in modo sistematico di un’antropologia del ritmo, distinguendolo dal concetto di metro. Ma non so quanto sia stato tradotto in Italia. Alcune riflessioni importanti si possono trovare anche in Alberto Casadei “Poesia e ispirazione”, Sossella. Quanto invece al lavoro di correlazione tra forme metriche e orizzonti storico-ideologici, questo sarebbe un arduo lavoro tutto da riprendere. Altri lettori avranno magari altri riferimenti fondamentali che ora mi sfuggono.
@elio_c: non mi sembra di aver lamentato la mancanza di rigore matematico al testo di nota. ho anche sottolineato che sarebbe un errore leggerlo come un testo teorico (per esempio un testo di filosofia). forse hai interpretato male perché un po’ mi conosci. mi sono lagnato più o meno delle stesse cose di cui si sono lamentati socci, inglese e guglielmin. più in generale ti rispondo così: non credo si debba o si possa pretendere rigore matematico da un testo di estetica (e meno che mai da un testo di poesia). credo però che esistano diversi “gradi” di rigore e di articolazione (concettuale) e che si possa richiederne un certo grado a un testo teorico (anche se parla di poesia). credo si possa porre la questione anche in termini che ti sono congeniali: se l’autore del testo presenta il testo in una certa forma (in questo caso come manifesto teorico) allora deve rispettare (o sublimare, o superare) gli standard (retorici, se vuoi) della forma che ha scelto. sbaglio?
ciao,
lorenzo
Caro Andrea, grazie.
Ho appena ordinato i tre libri che mi hai proposto (Buffoni, Casadei, Barbieri) + Il ritmo come poetica di Henri Meschonnic.
Un caro saluto,
Davide
@Lorenzo: sì, ho forzato un pochino parlando di rigore matematico, per fissare un estremo che conosci molto bene. Spostandosi da tale estremo, quanto precisa può mantenersi l’articolazione? Mi venivano in mente certe estenuanti pedanterie degli apparati filologici di Inglese e l’adorazione di tipi alla Nancy di Guglielmin, le prime in contraddizione con la poesia praticata, le seconde in contraddizione con certe cautele professorali. E’ forse “rigoroso” Nancy? Io non lo sopporto. E’ che spostandosi da quell’estremo ad un certo punto (o anche subito) si comincia a barare, ovvero a lavorare di viscere, e di ipocrisia, lo sento, ma sento anche che questo non si può evitare, ma allora tanto varrebbe confessarlo fin da subito, mi sembra più onesto, piuttosto che pretendere un adeguamento, magari razionale e spassionato, a degli standard che non lo sono affatto ma rappresentano tutt’al più il compromesso di una contesa.
A Davide Nota mi permetto di consigliare -in un approccio filosoficamente analitico piuttosto che continentale alle questioni poetiche- il recente libro fondativo di Nigel Fabb “Meter in poetry”, acquistabile su amazon.co.uk a circa 30 euro con spese di spedizione incluse, e i suoi studi successivi. E’ possibile rintracciare sul web in modo sintetico quel che Fabb sostiene e (compreso un .doc del suo articolo ‘why verse is poetry’) che, per quel che io stesso cerco da queste cose letterarie, mi pare piu’ tracciabile e formalmente argomentabile in pubblico dei vari riferimenti qui sopra e da Nota stesso riportati. Saluti.
@elio_c: con tutto il rispetto per gli autori che citi, io pensavo a modelli più alti, specialmente di filosofi. la tua posizione mi sembra deligittimare qualunque discorso filosofico, non soltanto di estetica e non soltanto relativo alla poesia. in questo senso mi sembra un po’ eccessiva. inoltre, nel caso specifico del giudizio sul testo di nota, non si trattava tanto di rigore vs. mancanza di rigore quanto di una certa debolezza e poca originalità del testo preposto alle poesie. credo converrai che anche i discorsi non rigorosi possono essere più o meno riusciti. per fare un raffronto, e farti un esempio di qualcosa che pur essendo un testo teorico di un poeta sulla poesia mi convince assai più del testo di nota – pur non essendo rigoroso, ti cito una cosa che ho trovato su una bancarella di recente: “saggi sul simbolismo”, di Andrei Belyi, a cura di angela dioletta siclari, ed. zara 1987.
ciao,
lorenzo
Se parli di riuscita allora è diverso e posso seguirti, perché si tratterebbe di un giudizio, diciamo così, “artistico”, che coinvolge i tirocinii del corpo e dunque implica una generosa dose di irrapportabilità di cui preferirei venisse sempre tenuto conto, soprattutto al fine di non scadere in odiose strategie della condiscendenza. Si potrebbe per esempio pensare che il mio trovare “suggestive” le poesie qui proposte debba avere meno peso del tuo trovarle “goffe e vacue” – considerando che tu sei coinvolto come autore e cultore nel campo poetico, mentre io no. Però a livello “filosofico” è risaputo che tutto si può ribaltare e per esempio io potrei (ma solo per ridere) giudicare i complessi presupposti disciplinari (tanto teorici/consapevoli quanto estetici/incorporati) dai quali tu parti, viziati, per esempio dalla rivalità, rispetto al mio limpidissimo disinteresse nella faccenda che mi rende invece “lettore ideale”. Il fatto è che Nota qui delinea un abbozzo, ad una scala di dettaglio che implica necessariamente un notevole livello di nebulosità – ed io stesso ho parlato di proiezione fisiognomica sulle nubi. Le proiezioni svalutanti che tu effettui su tale nebulosa sono ricche ed interessanti, ma in nessun modo “necessarie”: quella stessa metafora, appena dispiegata da qualche ragionamento, rimane aperta ad usi altrettanto leciti dei tuoi, come quelli che hanno condotto me ad apprezzare complessivamente la proposta. E’ quindi una questione di tono: le tue parole, ed anche quelle di altri commentatori, sembrano descrivere non una semplice mancanza di empatia (ovviamente facoltativa) nel riguardi di tale discorso – ma dei veri e propri “errori”, logici o ingegneristici (a livello concettuale) imputabili a carenze formative (da cui l’invito a leggere altri testi). Ecco: io non credo che una simile ingegneria sul concetto poetico, artistico o filosofico – implicata dal tipo di giudizi espressi – esista davvero, perlomeno io non l’ho ancora mai incontrata. Quel che avete fatto è proiettare l’errore attribuendolo alla tautologia di supporto (nel senso di Bateson).
Ciao
@elio_c
In effetti il cappello teorico sarebbe ridondante di fronte ai testi, ma molta della discussione qui realizzata parte dal presupposto che le poesie, alla cui suggestione tutti aderiamo sinteticamente esperendole in base al nostro corpo, siano piu’ deboli del loro cappello teorico. Il dibattito cumulativo, analitico, si e’ dunque focalizzato su questo invece che su quelle.
A me pare che Nota cerchi, da qualche tempo, il consenso dei “competenti” (cioe’ degli autorizzati al discorso ufficiale per via di curriculum e mestiere) prima che quello del “talento” (cioe’ degli autori forti per voce propria), in un tentativo di colmare forse qualche insicurezza, ma soprattutto nello sforzo di inserirsi nell’ambiente di lavoro letterario.
Le strade che portano dalla competenza ipersettoriale al talento in proprio sono impervie se non impossibili, mentre la via contraria e’ spesso, anche storicamente, quella che ha dato gli esiti migliori in relazione ai gusti del pubblico non specialistico e, qualche volta, del grande pubblico. Nota sta seguendo la via giusta, cercando di costruirsi una competenza partendo da una certa dose di talento.
Il conflitto fra queste due opposte maniere si e’ acuito in rete da quando sono sbarcati gli ipersettoriali espulsi dal cartaceo, che si sentono intitolati a dettare la loro linea un po’ a tutti, soffocando ideologicamente il talento.
caro elio_c, non condivido la tua visione (espressa in “io non credo che una simile ingegneria sul concetto poetico, artistico o filosofico”), la trovo un po’ troppo relativista. preferisco allora il nichilismo, il “tutto nel mondo è una interpretazione, e anche questa è una interpretazione”, con la sua bella mise en abîme. voler ridurre ogni giudizio estetico a una questione di “empatia” mi sembra un po’ impoverire la faccenda in un debole “de gustibus…”. di nuovo, non mi sembra di aver imputato al testo di nota “errori logici”. il ragionare tuo e di cornacchia (mi sembra abbiate una impostazione simile) è assai interessante ma, come dire, “anche questa è una interpretazione”, una sorta di iper-razionalismo sociologico o teoria delle scelte razionali, una meta-analisi dei fini (?). anch’esso si potrebbe interpretare come un odio per il talento. volendo.
saluti,
lorenzo
p.s. per elio_c: “Si potrebbe per esempio pensare che il mio trovare “suggestive” le poesie qui proposte debba avere meno peso del tuo trovarle “goffe e vacue” – considerando che tu sei coinvolto come autore e cultore nel campo poetico, mentre io no.” io credo che il mio giudizio sulle poesie di nota qui sopra abbia esattamente lo stesso peso del tuo (tra l’altro mi sembra che anche tu sia un “cultore” di poesia). si tratta in entrambi i casi di notazioni assai cursorie e sintetiche. evidentemente io mi sono soffermato di più sul testo teorico preposto alle poesie. su quello ho cercato di articolare un giudizio meno epidermico, imbastendo un discorsetto che, come tutti i discorsi o i discorsetti, può essere smontato, contradetto, ribaltato. mi chiedo davvero quale sia il vantaggio (anche retorico, a lungo termine) di porre sempre e quasi esclusivamente l’accento sulla “delegittimabilità” e sulla illiceità di ogni discorso e giudizio. mi sembra un atteggiamento un po’ sofistico (in senso buono). anche un’espressione di empatia come la tua è un giudizio articolato linguisticamente. “e poi… di che parliamo?”
ciao,
lorenzo
@Lorenzo. Mi trovo d’accordo con queste tue ultime considerazioni. Anche un relativismo come il mio può esser visto come un odio per il talento, più precisamente verso determinati tipi di talento. In considerazione dell’incisivo intervento di Giuseppe (che saluto) – mi appare evidente come diventi difficile e persino imbarazzante il discorso pubblico quando vengano rimosse certe paratie convenzionali (in buona sostanza la “buona volontà culturale”, così ben individuata da Bourdieu nell’ambito dell’”illusio” complessiva che fonda la disciplina) – rivedo l’intera scena in questo modo: a partire dalla propria espressione poetica, Nota abbozza un “cappello teorico”. Questo può anche piacere a quelli che, come me, non lo prendono “troppo sul serio”, considerandolo sostanzialmente ancora nell’ambito protetto dalle franchigie poetiche, ma comprensibilmente può non piacere a costruttori rivali di cappelli teorici, presumibilmente più avanzati nel mestiere, che lo valutano implicitamente in rapporto a quanto già da essi stessi tentato.
Ringrazio per la pazienza e le stimolanti osservazioni. Ciao
Caro Giuseppe,
ti ringrazio per il consiglio di lettura, che accolgo, e soprattutto per le parole.
Non so se è come dici – quel che sto tentando – oppure più semplicemente cerco di decifrare una rotta (perché sento il bisogno fisiologico di farlo) e propongo un confronto sugli appunti interpretativi tracciati sul mio diario di bordo.
Ecco, anche per dare ragione all’ultimo commento di Elio (che ringrazio per la presenza): non un manifesto privato e figuriamoci una teoria, sono “appunti da un diario di bordo”.
Mi interessava tra l’altro porre un punto a capo su un laboratorio giovanile (il mio) ed il suo approccio, aprendo un confronto di tipo nuovo sui testi e sul lavoro poetico da fare.
Questo confronto di tipo nuovo (basato sulla relazione tra forma e storia, come ha ben individuato Andrea, e che parte dagli appunti acerbi della Critica della separazione) mi pare si sia aperto, non solo qui nel commentario pubblico – che poi come sempre tende a uscire fuori tema – ma anche (in maniera più libera, meno “trattenuta” dalla paura di sbagliare) in privato, con altri esponenti dei cosiddetti “nuovi” che hanno forse più direttamente recepito il significato che intendevo dare a questo intervento: assumersi la “responsabilità” delle proprie scelte formali ponendole in una relazione con le forme della Storia.
Un caro saluto a tutti,
Davide
se lo scambio privato è tanto più soddisfacente di quello pubblico, ci si chiede perché si continui a preferire quest’ultimo.
sono curioso di sapere chi sono i “cosidetti “nuovi”” e da chi sono “cosidetti”.
ciao,
lorenzo
p.s. a trent’anni mi sembra un po’ inopportuno caratterizzare il proprio lavoro come “giovanile”, e così scusarlo della sua acerbità.
Lorenzo, rileggi bene quello che ho scritto perché hai capito male. Ho detto esattamente il contrario.
ciao davide, grazie della precisazione, in effetti sul tuo richiamo al “giovanile” mi sono proprio sbagliato, ti chiedo scusa.
ma chi sono i cosidetti “nuovi” e chi li ha “cosidetti”?
ciao,
lorenzo
La mia era un’indicazione anagrafica per definire tre autori nati negli anni ’80.
Li ho definiti “Cosiddetti nuovi” con leggerezza, con riferimento implicito ad alcune operazioni antologiche note, come “Non ancora trentenni” (Nuovi argomenti, 2008), “Poeti degli anni zero” (L’illuminista, 2011) o “La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta” (Ladolfi, 2011), o esperienze come RicercaBo2011 nella cui presentazione si parla di “Nuovi autori”.
Quindi, se mi chiedevi “chi è che li ha così detti”, credo di averti risposto.
Ciao.
Davide