I Novissimi, tra esotismo e trauma
di Andrea Inglese
Potrei narrare la scoperta dell’antologia dei Novissimi, come Proust narrava i primi passi del protagonista della Recherche nel salotto della duchessa di Guermantes. Il poeta novizio che compie le sue prime letture dei novissimi. Sono incontri circonfusi di fantasie e miraggi, di meraviglie e malintesi. Gli autori sono immaginati come eroi che tutto sanno e hanno visto, comprimendo nello stemma del nome proprio intensità di vissuti e vastità di conoscenze. La mia prima lettura risale probabilmente agli anni Ottanta, quando a Milano gli apprendisti del verso tendevano a orientarsi verso gli autori della Parola innamorata e, in particolare, verso Milo De Angelis, che era un personaggio carismatico, dalla scrittura affascinante e con una discreta vocazione di talent-scout. L’incontro con i Novissimi mi proiettò in tutt’altra atmosfera. La macchina del tempo invertiva l’andamento cronologico: chi era venuto prima (1961) sopravanzava chi era venuto dopo (1978), in quanto si presentava molto più carico di promesse, suggerimenti, ipotesi di lavoro. Insomma, al di là del calendario, i “Novissimi” erano miei contemporanei, molto di più di quanto lo fossero Cucchi, Pontiggia o lo stesso De Angelis. Certo, l’antologia di Giuliani aveva per me, innanzitutto, i caratteri dell’esotismo. Mai avevo trovato catalizzati intorno alla figura del poeta tanti valori differenti: intelligenza, strumentazione critica e teorica, sguardo sociologico, gesto politico, audacia formale, ironia e gioco, erudizione e irriverenza. Insomma, di colpo la poesia diventava un’attività complessa, che non si riduceva a una postura esistenziale, a una stranezza di abitudini e ragionamenti, ma implicava l’apporto della riflessione, dello studio, di una curiosità onnivora, di una passione della conoscenza, di un particolare senso della storia. Attraversando l’antologia dei “Novissimi” si poteva poi sbucare ovunque, come uscendo da un ampio e trafficato crocevia: verso le avanguardie storiche, o le sperimentazioni statunitensi ed europee degli anni Sessanta, verso Bourroghs o Fluxus, verso Denis Roche o Beckett.
Ora posso guardare a quell’antologia con occhio disincantato, ma essa costituisce un momento cruciale nella mia comprensione dell’attività poetica e dei suoi orizzonti di possibilità. Per questa stessa ragione trovo che i critici universitari, che più si vogliono fare custodi della memoria del gruppo ’63, rischiano ogni volta la tassidermia, seppellendo quell’evento nel preciso contesto storico e culturale in cui si è prodotto. Quando, oggi, sarebbe forse più utile delineare la storia delle diverse ricezioni, delle imprevedibili occasioni di lettura che, di decennio in decennio, hanno scandito il sempre rinnovato divenire contemporanei dei Novissimi con molti autori delle generazioni successive. Ma una storia delle ricezioni dovrebbe fare posto anche a un lungo capitolo dedicato all’irruzione del gruppo ’63 come evento traumatico centrale nell’evoluzione della poesia italiana, dal secondo Novecento ai giorni nostri. Questo trauma, infatti, è vivo tutt’oggi: mai del tutto metabolizzato, elaborato, guarito. Anche tra i poeti più giovani, se non tra i giovanissimi, non è raro riscontrare un perdurante risentimento nei confronti delle neoavanguardia, come se fosse sempre possibile una sua ulteriore e perniciosa incarnazione. La poesia neoavanguardista – quella sperimentale, irreverente, ludica, innovativa, estremista dei Novissimi – non può, se non con gran rischio dell’istituzione tutta, costituire un’eredità plausibile per poeti che scrivono oggi. (Poeti, per altro, che la sottoporrebbero, così come sempre avviene, a filtri, mediazioni, tradimenti, innovazioni.) Per questo motivo, qualsiasi segno di presenza di quella eredità nelle scritture attuali è percepito come ritorno catastrofico di un’egemonia poetica e culturale. L’eterna “moda” dell’innovazione formale, del poeta teorico e critico, del nichilismo ideologico.
È fin troppo evidente che, date le condizioni attuali dell’industria culturale, un’egemonia come quella realizzata per un certo tempo dai Novissimi – un drappello di semplici poeti – sull’intero campo letterario non sarebbe oggi immaginabile. Eppure la ferita è sempre aperta, quell’eredità, per quanto elaborata, è un marchio infamante, di degenerazione, sterilità, impotenza creativa. E un pericolo per tutti.
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[Questo pezzo è apparso sul n° 47 de “il verri” (ottobre 2011), in risposta alla domanda “Avete letto i Novissimi?” indirizzata a un gruppo ristretto di giovani poeti.]
Un pericolo, sì! Un baratro entro cui ribollono le apocalissi del secolo scorso: sui ritagli disciplinari(!),conoscitivi dell’intero Cèrebro Umano. Il secolo più violento della Storia. Una Ratio antimitica, antinarrativa – le Scienze accecate dell’infinitamente piccolo e infinitamente grande, grafi, graffiti di una arcaicità del futuro. Il Novecento, cancellato a rutti (postmoderno,liberismo,finestoria, debilpensiero, brioches per tutti, ecc). Per una Belle Epoque – speriamo stavolta Incruenta – che caracollasse il secondo Millennio nel balordo e il silenzio dell’anima (catorcio plato-cristiano ostruttivo della simonia da scaffale e socialnetwork). Dalla tragedia di una era
antropica … all’eden della chirurgia estetica. Dio ci salvi Marina Abhramovic!
Un processo di NEGAZIONISMO TOTALE, che rende superflui – ahinoi! – Shoà, Armeni, schiavismo, colonialismo, Hiroshima, ecc. Da qui ricomincia il Pensiero:
saremo capaci di demolire, rivoltare il Novecento, un secolo che ci sta addosso, rendendoci attoniti e idioti?
Caro Andrea, tu hai trattato con apparente leggerezza psicologica e bilancio storico un reperto letterario, I NOVISSIMI, nel cuore della espressività e della
lingua possibile dell’oltremondo, del domani. Di noi. Grazie.
La poesia ha le extrasistoli einsteiniane e quantiche. Giocamoci il cuore tra la terra e i linguaggi del cielo che nemeno Dio conosce.
Un’egemonia da affrontare e “debellare”. Una cesura da ricucire.
Riprendere le fila del discorso insomma.
Purtroppo non vedo tanti sforzi in tal senso.
A proposito di ricezione, io aspetto ancora di leggere un saggio capace di interpretare gli effetti dell’antologia sulla poesia italiana. Perché a me riesce difficile comprendere il percorso di alcuni poeti canonici (anche dei più schizzinosi) senza incrociarlo con la lettura dei Novissimi.
Antonio Porta subentrò (nel Gruppo) al più dotato e capace Giuseppe Guglielmi solo perché gli editori dell’antologia erano Rusconi & Paolazzi (padre del Paolazzi, alias Porta)