Chi salverà i pastori?
di Gaetano Bellone
Camminiamo sulla cresta sempre uguale del monte Gorzano. Da quota 1800 dobbiamo raggiungere quota 2400, la vetta con la croce e il manto di neve anche d’estate. I gradoni d’erba che dalla fine della strada dividono il camminante dalla quota sono sempre uguali e ogni 10 metri creano un gioco di prospettive che fa sembrare la vetta a vista. Miraggi continui e cadenzati. Il Gorzano è un monte arcaico, poco frequentato, che ha un tanfo di muschio simile a quello dello scatolone del presepe in cantina. Si supera un gradone e si comprende che la vetta è ancora lontana, è una montagna che ti prende per scoramento. Tra un gradone e l’altro incontriamo Romeo, un giovane pastore macedone. Ci segue da un po’, cerchiamo di evitarlo ma conosce palmo a palmo le traiettorie di chi cammina su questo suo giardino stagionale.
Romeo ha voglia di parlare perché da maggio a settembre non vede anima viva, fatta eccezione per gli altri pastori del rifugio e del capò, il vecchio che dorme in quota con loro per seguire le operazioni e controllare l’operato. Romeo racconta che per tre mesi porta a spasso le pecore e ha una radiolina che porta con sé per compagnia. È felice dell’incontro e vuole assolutamente che restiamo a dormire. “Ammazziamo una pecora, ce la mangiamo sul fuoco”. Io sono restio, Romeo è insistente, ci ha seguiti per un’ora e l’insistenza mi infastidisce. Ho in mente certe storie sui pastori e cerco una via di fuga ma il mio compagno d’escursione vede nell’invito una rara possibilità di applicare gli studi di antropologia. Accettiamo, mio malgrado. Romeo felice trotterella fino allo stazzo: “Devo chiedere il permesso al vecchio”. Aspettiamo osservando il ragazzo che scende fino al rifugio. Torna dopo poco, con la faccia grave. “Dovete andarvene”, ci dice. Siamo perplessi, la faccia non ha più l’entusiasmo dell’incontro, l’espressione è seria e risoluta. Prendiamo la strada verso la vetta. Vediamo che dal rifugio in basso qualcuno ci fissa. È il vecchio: controlla che ci allontaniamo.
Torniamo al rifugio in autunno, quando i macedoni sono ripartiti e il vecchio è tornato a casa, in qualche paese della provincia teramana.
Il rifugio è chiuso malamente con una catena. Entriamo. La stanza è di circa 4 metri per 3. In poco più di 12 mq ci sono tre materassi, coperte di lana ed un pitale, un secchio di latta da 10 litri, sporco di escrementi.
È autunno, facciamo un giro verso Valle Piola, sopra Torricella Sicura. Il borgo, fino a poco tempo fa era in vendita. Ci sono: una chiesa, un casale a due piani ristrutturato e riabbandonato, una specie di scuola più o meno degli anni 60 ed alcune piccole case da contadino, quelle con la stalla al piano terra e le stanze sopra. Qui i pastori stanno fino all’inverno perché non siamo in quota. Venendo abbiamo visto due ragazzi dell’est con le pecore ed un pick-up salire da basso. Il pick-up di solito è il mezzo dei titolari delle pecore o comunque di coloro che salgono a prendere il latte e controllare l’operato dei macedoni. Facciamo un giro nell’edificio di quella che sembra una scuola, la porta è aperta, la struttura sembra reggere. Non ci sono luce e acqua corrente. In una stanza c’è un grosso camino, c’è legna bruciata, asciutta perché il fuoco è recente. C’è una porta chiusa, entriamo. Due bottiglie di pomodoro, un fiasco di vino a metà, dieci litri d’acqua nei fiaschi, un pitale sporco al centro della stanza, due brandine con materassi sottili di lana a righe – quelli che si usavano una volta dalle nostre parti. Fa molto freddo, le tavelle del soffitto hanno il cemento sbrecciato, alcune sono fracassate. Il freddo è pungente, le finestre non chiudono bene. Una stanza ha la porta chiusa a chiave, sentiamo un rumore dentro e ce ne andiamo. Dallo spiazzo dove abbiamo lasciato la macchina si vede una delle finestre della stanza chiusa, è buio e non si vede niente, ma forse da dentro vedono.
Ripartiamo ed incrociamo il pick-up a mezza via. I due proprietari stanno parlando con i due pastori, ci guardano con la faccia seria, come se volessero appuntarci sulla testa un’espressione minacciosa. “Da queste parti non siete desiderati”, questo dicono quelle facce.
Nella Val Chiarino ci sono due rifugi, uno per gli appassionati di montagna, l’altro per i pastori che ci fanno il cacio. Sono dell’est pure loro. Due miei amici hanno pernottato al rifugio di sopra. I due pastori li hanno seguiti per un po’. Si sono fermati a chiacchierare, tante domande, voglia di comunicare. Uno dei pastori è ubriaco, è il suo compleanno. Invita i due amici ad entrare per un bicchiere nel loro rifugio. Una stanza, due brandine con materasso, coperte. Da un lato c’è l’attrezzatura per fare il cacio, il resto del latte lo vengono a caricare per portarlo a valle. Dal lato opposto del rifugio, c’è un pitale di latta, l’odore si mischia a quello forte del formaggio di pecora. Il tizio ubriaco è insistente, i miei amici sono una coppia, forse in virtù del compleanno si è messo strane idee in testa. Tornano al loro rifugio e si chiudono dentro che non si sa mai…
O una volta in Valle Vaccara, raccoglievamo “mazze da tamburo”. Veniva sempre un pastore, ci aiutava a raccogliere, anni fa. In cambio chiedeva monete per telefonare, ne aveva un sacco pieno, ci parlava di un vecchio che dormiva con lui, un capo. Il vecchio non voleva che il pastore telefonasse in Romania e non dava soldi al ragazzo fino a che la stagione non era finita. In buona sostanza gli avevano pagato il viaggio dalla Romania all’Italia, quando era arrivato aveva lasciato i documenti a casa del vecchio ed era salito alla prima quota del pascolo. Una volta a settimana il vecchio veniva col pick-up e lo portava a valle con l’altro pastore per fargli comprare il pane e qualcos’altro, allora il ragazzo cercava di chiamare in Romania perché la giovane compagna era incinta. “Perché il vecchio non vuole che telefoni?”, cambiava faccia.
A ritroso. È aprile 2009, a L’Aquila c’è stato il terremoto. L’Esercito e la Protezione Civile hanno montato le tende, la confusione sta scemando e hanno cominciato a censire la popolazione. È sera, è passata più o meno una settimana dal sisma. L’autostazione di Teramo è piena di ragazzi dell’est, vestiti male e con le facce distrutte, le scarpe logore.
È strano che ci sia tanta gente dell’est, sopratutto è strano in questo momento di confusione, i teramani riempiono le piazze con le macchine piene di piumoni, i posti pubblici sono affollati di famiglie terrorizzate dal sisma. In mezzo ad un tale caos, un assembramento come quello dell’autostazione passerebbe inosservato, se non fosse per i vestiti logori. Mi siedo accanto ad uno molto giovane. Racconta che stava in montagna, sopra L’Aquila, dopo il terremoto lui ed altri non sapevano che fare, se scendere a valle dai proprietari del gregge. Alcuni allora sono scesi nei campi e rimasti fino a che non è iniziato il censimento. Poi sono scappati e hanno avvertito gli altri. I documenti qualcuno ce li aveva pure ma li aveva lasciati al proprietario del gregge. Nell’autostazione ci sono almeno 100 persone, ci sono ancora le vecchie panche di legno al piazzale. Chiedo quante persone ci saranno sparse per le montagne…sgrana gli occhi, alza la fronte come se fosse una domanda sciocca: “Pieno, pieno”.
Qualche tempo fa in provincia di Teramo è morto un giovane pastore, quasi un ragazzino. L’hanno trovato sulla brandina, morto di freddo. Il vecchio proprietario delle pecore, il datore di lavoro, è una brava persona, un lavoratore, quella vita da bestie l’ha fatta pure lui da giovane. Adesso quella vita la fa fare ad altri. Queste cose non si sanno oppure si ignorano, perché quelli lassù non sono uomini, sono pastori.
Nell’immagine: Campo Imperatore, Abruzzo
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Purtroppo chi è abituato a ragionare in termini di bestie, imbestia sé stesso e gli uomini che guardano le sue bestie.