L’articolo 18: la vera posta in gioco
di Sergio Chibbaro
Nella concitazione creata da una crisi bancaria rapidamente addossata ai cittadini, e in particolare ai lavoratori dipendenti, in Italia si è ritornati a parlare con vigore di flessibilizzazione del mercato del lavoro (ovvero di ulteriore facilitazione al licenziamento) e dell’eliminazione del famigerato art. 18 dello statuto dei lavoratori. Queste discussioni si svolgono all’interno di un più ampio dibattito a livello europeo incoraggiato dai grandi gruppi finanziari e industriali e ripreso nelle varie istituzioni che di fatto li rappresentano a livello politico, BCE, Commissione Europea, FMI (la Troika). Interventi in tal senso sono già stati realizzati nei paesi ora più indeboliti, quali Spagna (riforma del 2010: Ley n. 35/2010) e Grecia.
Inizialmente, queste riforme sono state difese da Confindustria e accoliti in quanto considerate necessarie per liberare un mercato descritto come eccessivamente rigido, e la cui rigidezza incideva in modo esiziale sulle capacità economiche del paese. Prescindendo dal fatto che la flessibilità del lavoro non è mai stata dimostrata essere un fattore né di crescita né di miglioramento della qualità della vita (almeno sul medio-lungo termine), questo quadro è smentito dai fatti e dai dati. La visione dei paladini del licenziamento è talmente grottesca e irrispettosa del dramma inflitto alla vita di migliaia di persone licenziate negli ultimi anni (senza che in alcun modo essi avessero una qualche colpa nel cattivo andamento economico) che anche gli ideologi più estremisti stanno cautamente abbandonando questa strada. Luciano Gallino (uno dei pochissimi studiosi con una certa visibilità rimasti a difendere la verità e i diritti dei lavoratori) ha descritto argutamente e in maniera stentorea, con chiare cifre, questa situazione in due recenti articoli su Repubblica (L. Gallino, I paladini dei diritti cancellati — 31 ottobre 2011; Licenziamenti falso problema — 05 gennaio 2012). Per essere più precisi ed esaustivi, ci si può riferire a documenti redatti da studiosi di diritto anche in merito all’annosa questione del “contratto unico”, e in particolare il Seminario ELLN di Francoforte sul licenziamento individuale in Europa: una sintesi a cura dell’ufficio giuridico CGIL che si può trovare in rete. Nella sintesi si sottolinea con chiarezza che l’Italia è uno dei paesi più flessibili d’Europa, superata praticamente solo dalla Danimarca (perciò presa a campione come modello d’eccezione). L’Italia risulta addirittura caratterizzata da un mercato del lavoro più aperto di paesi quali l’Ungheria, Repubblica Ceca e la Polonia! Dunque, la diffusa convinzione che quello italiano sia un regime iperprotettivo è totalmente smentita dai dati dell’OCSE; nonché dal licenziamento perentorio di centinaia di migliaia di lavoratori a causa di motivi economici avvenuti in questi ultimi anni. Questo spesso a fronte di enormi benefici per gli azionari alla fine dell’anno, sovente ottenuti proprio grazie ai licenziamenti.
La nuova tattica per ottenere l’eliminazione dell’art. 18 consiste nel sottolineare come tale articolo sia di fatto utilizzato in pochissime vertenze giudiziarie e sia un unicum italiano. Questi due punti sono stati drammaticamente integrati anche da parte del centro-sinistra.
Il secondo punto è semplicemente falso. In altri paesi europei il lavoratore può chiedere al giudice di reintegrarlo nel posto di lavoro a seguito di un giudizio “sommario” di bilanciamento degli interessi in gioco (così in Germania e, in termini simili, in Austria, Grecia, Belgio e Irlanda). In molti altri paesi questo non è possibile, ma delle tutele speciali sono previste contro il licenziamento illegittimo. Si legga la sintesi del seminario CGIL per informazioni più precise.
Il primo punto è più sottile. E’ vero che in pochi casi si fa riferimento all’articolo 18 in cause tra lavoratori e imprese e che talora, in Italia come all’estero, il procedimento di può concludere ugualmente con un indennizzo anche qualora il reintegro sia formalmente possibile. Ciò che si rileva, in realtà, è la funzione di deterrente che la sanzione della reintegrazione prospetta: e questa non appare diversa in Italia rispetto agli altri paesi che la prevedono. Al contrario ciò che è anomalo in Italia è la soglia che caratterizza le piccole imprese, la quale risulta ben troppo elevata: 15 dipendenti, cifra basata sullo stabilimento e non sull’intera impresa. Negli altri paesi questa soglia è o assente o molto inferiore, per esempio in Francia è 10, considerando l’impresa. Del resto, se veramente l’art. 18 non fosse che un orpello ideologico del sindacato vuoto di senso, perché tanto accanimento nel volerlo eliminare?
Riassumendo, le imprese in Italia hanno la possibilità di assumere in un mercato del lavoro tra i più flessibili dell’occidente, in cui il ricorso a contratti atipici è la regola dall’approvazione della cosiddetta “legge Biagi” 2003. I licenziamenti si fanno in maniera massiccia, sia grazie alle inesistenti coperture di legge sui contratti atipici, sia grazie ai motivi economici, veri o presunti tali.
Perché allora le istituzioni finanziarie, la Confindustria e i loro rappresentanti politici (governo Monti) continuano a martellare sulla necessità di eliminare l’articolo di 18?
Ecco la risposta. Una sola cosa, sostanzialmente, non è ancora possibile nella giungla del lavoro italiano, licenziare individualmente: nome e cognome.
E’ vero che questo grande passo in avanti sarebbe possibile grazie a quell’obbrobrio giuridico che è il famigerato art. 8 inserito nella c.d. manovra-bis di agosto (in tal senso, si veda il sempre lucido L. Gallino che riassume l’effetto di questo articolo con “A ben vedere, il legislatore poteva condensare l’intero articolo 8 in una sola riga che dicesse “i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro” in “Come abolire il diritto del lavoro”, Repubblica 5 settembre 2011; si veda anche “La minaccia dell’articolo 8” Repubblica 15 settembre 2011). Tuttavia, tale norma rimane solo una bomba a orologeria, in quanto il suo impatto dipende dall’attuazione che di esso ne verrà data nelle singole aziende e nei singoli contesti territoriali. E le parti sociali con l’accordo del 21settembre 2011 hanno escluso di volere attuare la norma proprio in relazione a tale materia.
Quindi per il momento le aziende non possono licenziare tranquillamente un singolo individuo perché “rompiballe”, senza il timore di rivederselo tornare reintegrato da un bieco giudice. Questo è quanto è successo, per esempio, nel famoso caso dei tre operai sindacalisti dello stabilimento FIAT di Melfi. Si comprende allora il vero interesse intorno a tale questione. Pur in un momento di globale crisi della classe lavoratrice, con un arretramento continuo e, per ora, inesorabile delle condizioni di vita e di lavoro, alcuni sindacati e alcuni sindacalisti tentano di difendere quel poco che rimane dei diritti dei lavoratori e aiutano i loro compagni a non piegarsi ai diktat delle aziende.
Eliminando l’art. 18, le imprese potranno finalmente “dar sfogo alla loro turpe voglia” e licenziare in tronco tutti gli operai ritenuti indomiti (sindacalizzati e non) per poi attuare una dura politica antisindacale; come del resto fanno le grandi aziende europee quando si trasferiscono in paesi dalla legislazione più arretrata, quali gli Stati Uniti. In tal modo avranno stroncato ogni tipo di residuale opposizione alla loro politica neo-schiavistica e la regressione a condizioni di lavoro da inizio 1900 sarà finalmente ultimata. Probabilmente con il plauso del Pd.
(Sergio Chibbaro è “Maître de conférences” all’Università “Paris 6”, e è delegato della Confédération Générale du Travail, CGT)
più che altro qualcuno pensa che noi possiamo scordarci di vivere nel paese in cui un’ottima costituzione prevedeva,tra le altre cose rimaste lettera morta,che chi gestisce il potere esecutivo e legislativo avrebbe dovuto spendersi per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza sostanziale.Non voglio nemmeno pensare al carnaio di lavoratori che deambulerebbe alla deriva nel periodo in cui l’articolo in questione venisse abrogato e la sublime riforma incantata del mercato del lavoro vagheggiata dagli illuminati riformisti ben sistemati per le prossime 3 generazioni che infesta i nostri incubi peggiori fosse lasciata in balia a se stessa in attesa di entrare a regime in un’era geologica non meglio definita
Questo articolo me lo stampo. Oggi potrei incontrare qualcuno (una persona per altri aspetti assai colta, intelligente e versatile), che potrebbe finire involontariamente per rovinare una cena con amici tramite esternazioni irrichieste di iperliberismo e iperflessibilità. E’ possibile che io mi porti la stampa del tuo pezzo o mi impari a memoria dati e rimandi per smentire con efficacia determinate prese di posizione speciose.
In ogni caso, gracias por el articulo!
Incidentalmente, sarebbe carino osservare le reazioni dei “capitalisti” italici di fronte alla progressiva contrazione di domanda interna dovuta al regresso delle condizioni di vita dei potenziali consumatori, non solo qui, ma ovunque certe legislazioni prendano piede.
Sarebbe interessante vedere con quale faccia parleranno di incentivazione dei consumi. Come al solito, le oligarchie si comportano come scimmie stupide che per nutrirsi rosicchiano il ramo su cui sono sedute, per poi sfracellarsi a pie’ dell’albero quaranta metri più sotto.
Il delinquere autorizzato non è delinquere
viva il Magna Magna anch’io vorrei esserci dentro
né sarei l’alfiere il cantore
trasformare il Magna Magna
da bruttura a bellissima risorsa
per tutto il sistema paese
un Eldorado
il Paese dei Balocchi per tutti!
Viva l’Italia.
La cultura industriale dei padroni
non è migliorata affatto, mi vale
quello che scrisse a suo tempo Volponi
nel grande “Le mosche del capitale”;
se Nasapeti fa le opposizioni,
possiam capire quanto è messo male
tutto il sistema delle relazioni
tra economia, politica e reale.
“le imprese in Italia hanno la possibilità di assumere in un mercato del lavoro tra i più flessibili dell’occidente”, è vero, e il mostruoso network che sta imponendo il pensiero unico in questo paese con una violenza mediatica (dai toni soffusi, ovviamente) che non ha precedenti se non ai tempi dell’EIAR, si guarda bene dall’ospitare questi dati. Invece abbiamo Monti in TV continuamente, con una insistenza che è persino più estrema di quella del Sultano dei tempi d’oro. E i giornali che un tempo sembravano di sinistra, e le televisioni tutte non fanno che ripeterci, con vari stili e falsi omississ, che stiamo andando bene, che il governo dei banchieri lavora bene, che ci sono dei problemi, d’accordo, ma gli italiani hanno “accettato” pesanti sacrifici ecc. “Accettato”: è una parola a dir poco insidiosa. Perché non dire che hanno “subito”? Questo lavaggio del cervello di massa è più globale e scientifico di quello propagandato dal Sultano, quando diceva che la crisi era una invenzione psicologica.
Quindi mi unisco ai ringraziamenti per questo articolo.
Premetto che non conosco Nazione Indiana, è la prima volta che la visito.
Ho letto con interesse questo articolo.
E allora mi soffermo su una frase, questa: ” ….. il ricorso a contratti atipici è la regola dall’approvazione della cosiddetta “legge Biagi” 2003. ..”
Ecco, vorrei chiedere perchè l’autore (anche lui) ha scritto “dall’approvazione ….”, dimenticandosi del famigerato pacchetto Treu del 1997, quello che, più di ogni altra cosa, ha fatto precipitare tutto e ha introdotto il lavoro precario e ha spianato la strada alla Legge Biagi.
E, a proposito della CGIL e dei suoi studi e dei suoi seminari, ricordo che nel 97, insieme a Treu, tra i sottosegretari del ministero figurava un certo Antonio Pizzinato..
Rispondo brevemente alle osservazioni.
Nel mio breve articolo ho voluto essere conciso e ho fatto riferimento all’ultimo e più importante decreto legislativo. E’ assolutamente corretto affermare che già in precedenza diversi provvedimenti avevano configurato un mercato del lavoro decisamente aggressivo e flessibile con conseguenze nefaste sulla vita di migliaia di persone, e per inciso anche sull’andamento economico. Tuttavia la c.d. “legge Biagi”, ha costitutito una vera rottura rispetto ai provvedimenti precedenti.
Per fare chiarezza ricordo le 4 tappe fondamentali dello smantellamento della legislazione protettrice del lavoro e dell’occupazione. La prima è stata senz’altro il protocollo d’intesa tra governo, sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro sottoscritto nel luglio 1993. Non è una legge ma sancisce il vero momento di rottura e spalanca le porte alla politica regressiva a forte impronta neoliberale degli anni successivi. Va peraltro sottolineato che già a quella data varie forme di contratto “flessibili” erano disponibili, seppure inquadrate in modo più rigido.
La seconda tappa è stata appunto il pacchetto Treu (governo Prodi) che in effetti costituisce il primo grave vulnus alla legislazione storica del diritto del lavoro. Gli effetti pratici in termini di disagi sulla pratica del lavoro e orari sono devastanti. Da un punto di vista storico le responsabilità di questa legge e quindi della maggioranza di governo che la approva sono quindi enormi, probabilmente superiori a quelle del successivo governo Berlusconi, anche perché ritenuto (evidentemente a torto) un governo di “centro-sinistra”. Da un punto di vista tecnico, nondimeno, il pacchetto Treu inquadra ancora i contratti atipici quali forme eccezionali all’interno dei contratti nazionali di categoria e pertanto inseriti in “limiti di contenimento”.
Per dirla più chiaramente, il pacchetto Treu riconosce ancora che il contratto “normale” o di riferimento per il lavoro è pur sempre a tempo indeterminato con 40 ore su ciascuna settimana.
La terza tappa è il decreto del settembre 2001 che seguendo una direttiva europea liberalizza i contratti a termine dando la possibilità di ripetere senza fine questi contratti. E’ un salto di qualità importante. Da quel momento si può rimanere a vita ” a contratto a tempo determinato”.
Infine il famigerato decreto attuativo del 2003 (legge Biagi). Come vediamo la strada è stata già percorsa lungamente. Quest’ultimo decreto fa saltare definitivamente i limiti di contenimento imposti nel pacchetto Treu. Se prima del decreto i contratti atipici sono una trentina, successivamente è addirittura difficile calcolarne il numero. Probabilmente si arriva a una novantina. Senza entrare nel tecnico. Diciamo che questo decreto fa definitiamente scomparire la figura stessa del lavoratore, esiste solo la merce-lavoro. Cancella conquiste ottenute in un secolo di lotte con un tratto di penna. Non è poco. Il mercato del lavoro da allora è semplicemente incomprensibile.
Riguardo la seconda osservazione, come si vede non si deve e non si può in alcun modo difendere i governi precedenti e senz’altro le dirigenze sindacali, ivi compreso la CGIL. Sul ruolo diretto di Pizzinato non posso dire. Ma senz’altro i dogmi di quella strana religione che è l’ideologia neoliberale hanno penetrato in profondità tutta la ex-sinistra partitica e anche sindacale. E’ una movenza inesorabile che viene da lontano, fin dalla fine degli anni 70 ma che oggi ha raggiunto dimensioni parossistiche. Analizzare i perché e i come richiederebbe una riflessione tanto ampia quanto difficoltosa. Per chi fosse interessato la bibliografia è sterminata. Posso fare riferimento sempre all’ottimo Gallino citato sopra e per la diffusione in inghilterra (vero laboratorio) K Dixon market evangelists 1999. Sergio Chibbaro
grazie molte Sergio Chibbaro, condivido in linea di massima, poi è vero che l’approfondimento dei perchè e della buona o malafede, sarebbe difficoltoso anche per il dato di fondo che è quello del punto di vista personale.
Sono diventata un po’ puntigliosa, a volte anche acida, su questo argomento perchè i passaggi che elenchi non sono poi così noti ai più e soprattutto mi sembra – mi sembra – che troppe volte anche soltanto il nome di Treu non sia nominabile e si tenda sempre a scaricare ogni responsabilità sul povero Marco Biagi.
Saluti e buon lavoro a tutti.
Si dovrebbe precisare che i lavori di Biagi e D’Antona avrebbero, in teoria, previsto la combinazione di flessibilità e apertura del mercato del lavoro. Nella loro ottica, ciò che si sarebbe perso in sicurezza, lo si sarebbe dovuto riguadagnare in termini di assumibilità. Tecnicamente quei lavori erano perfetti. Storicamente furono un’imprudenza. Il feudal-capitalismo italiano li utilizzò come strumenti teorici fondativi della precarizzazione permanente. La caratteristica della flessibilità del mercato del lavoro italiano è la sua unidirezionalità: è una flessibilità viziosa, troppo proclive al licenziamento e ben poco incline alla valorizzazione di quegli instrumenta vocalia del neo-liberismo che sono le cosiddette “risorse umane”. Questo accade perché l’Italia, come non ha una classe dirigente nel senso stretto, ma esprime di fatto un’aristocrazia parassitaria, così non ha veri e propri imprenditori, ma semplicemente figure di oligarchi dell’economia abituati a campare fra connivenze con la mafia e burocrazie e adusi a considerare il lavoro non come una risorsa produttiva, ma come una grazia da ottriare generosamente, salvo consegnarti al nulla con un calcio nel sedere e tante scuse.
Allo stato attuale l’hic Rhodus hic saltus (eh eh eh!) della neue Politik giuslavorista è l’assalto a quella scassata Fortezza Bastiani che è il residuale impiego a tempo indeterminato del settore pubblico. L’abolizione dell’articolo 18 implicherebbe l’introduzione permanente del principio di libera licenziabilità. Il che permetterebbe a futuri governi di attuare tagli indiscriminati, per esempio nella scuola e nella sanità, tramite il semplice invio di lettera di licenziamento.
Peraltro, che le mire della nostra classe dirigente siano indirizzate alla creazione di un enorme bacino di schiavi ricattabili, è cosa ben nota.
Ma forse il residuo influenzale mi rende troppo pessimista…